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Viaggio nei Teatri Romani d’Italia
di Giorgio Bottiglioni
Lungo la Via Tiburtina Valeria
parte seconda
Numerosi erano anche gli
edifici religiosi sia nel centro urbano (Tempio di Iside, Sacrario di Ercole)
che sulla collina situata all’estremità occidentale dell’abitato. Quest’ultima era
occupata da alcuni luoghi di culto, fra cui un tempio dedicato ad Apollo.
Trasformato in Chiesa Cristiana e ampiamente ristrutturato in età medioevale,
noto come la chiesa di San Pietro che contiene antiche colonne ed alcuni
mosaici fine fattura cosmatesca. Nel cuore di Alba Fucens, sul lato destro del
Santuario di Ercole, è collocato il teatro romano. L’edificio, non più visibile
e ricoperto immediatamente dopo lo scavo. È stato oggetto di studio durante la
campagna belga diretta dal prof. Mertens nella metà del ‘900. Nonostante le
gravi spoliazioni che il monumento ha subito nel corso dei secoli, la scuola
belga ha riportato alla luce numerosi resti che sono sufficienti a rendere
l’idea delle sue caratteristiche originarie. Il teatro venne, con molta
probabilità, costruito tra il II ed il I secolo a.C. in una zona preceduta, nel
lato occidentale, da un’ampia terrazza sopraelevata che ospitava la scena e
l’orchestra. L’accesso era consentito da due passaggi: il primo, collocato al
termine di una stradina in salita posta lateralmente al santuario di Ercole,
mentre il secondo era preceduto da una scalinata posta alla stessa altezza del
luogo di culto. La “cavea” presentava l’usuale forma semicircolare ricavata, in
maggior parte, sfruttando il declivio naturale del colle Pettorino, mentre
l’estremità era fabbricata artificialmente utilizzando mura di sostegno
(analèmmata). Le mura sono state realizzate nella parte inferiore in opera
poligonale e in quella superiore in opera poligonale e in quella superiore in
opera reticolata. Poco si è conservato dell’orchestra, che nel teatro greco era
riservata al coro mentre in quello romano al ceto alto. L’orchestra e la scena
presentavano una serie di pozzi destinati alle manovre del sipario. La scena
era a pianta rettangolare divisa in due parti: la parte anteriore era il vero e
proprio palcoscenico (proscaenium), in materiale ligneo, dove si svolgevano le
azioni teatrali, mentre quella posteriore, il proscenio (frons scenae), ovvero
la parete di fondo del palcoscenico compresa tra l’orchestra e il sipario, era
suddivisa in sette ambienti con diverse dimensioni destinati a sostenere
l’architettura scenica. Essa era solitamente mobile e realizzata in materiale
deperibile eretta solo in occasione degli spettacoli. Dietro l’edificio scenico
erano gli ambienti utilizzati dagli attori e dal personale di servizio per il
deposito del materiale di scena. A quello che al tempo era il lago del Fucino
si interrompe l’itinerario di Nibby, il quale però consiglia ai più interessati
di proseguire lungo la via Tiburtina Valeria e di raggiungere nei pressi di
Sulmona l’antica Corfinium, la “metropoli dei Peligni”, come la definisce lo
storico antico Strabone. Corfinium fu la capitale della Lega Italica che nel 90
a.C. guidò la guerra sociale contro Roma: ribattezzata Italia, si arrese solo
alle truppe di Giulio Cesare. La principale testimonianza archeologica di
questo centro ridotto oggi a pochissimi abitanti è il teatro. Piazza Corfino,
la principale del paese, deve la sua curiosa forma a semicerchio ai resti dell’antico
teatro (I secolo a.C.) le cui gradinate (cavea)
e i cui ambienti radiali di sostegno sono ancor
oggi inglobati negli edifici medioevali e posteriori che vennero
costruiti e riadattati sulle strutture in opera incerta. Proseguendo sulla
statale 5 si raggiunge Chieti, l’antica Teate Marrucinorum, principale centro
dell’antico popolo dei Marrucini. Secondo una leggenda il nome deriverebbe
dalla dea Teti, madre di Achille, perché qui sarebbero giunte popolazioni
greche alla fine del secondo millennio a.C. Il primo nucleo risale al periodo
preromano. Il centro è sito sulla parte più elevata del colle della Civitella,
dove si trova l’acropoli della città. L’antica Teate si sviluppò a partire dal
II secolo a.C. e s’intensificò quando divenne Municipio. Dopo la guerra sociale
fino alle guerre del periodo tardo-repubblicano ed imperiale il centro era noto
come Teate Marrucinorum, ma dai Marrucini era chiamata Touta Marouca. I
principali resti archeologici teatini sono da individuare nei tre Templi
Romani, detti tempietti di San Paolo, nelle terme, situate nella parte orientale
della città, e nel teatro, poco fuori del quartiere della Civitella, verso il
centro urbano di Chieti. I palazzi che circondano il teatro hanno nascosto del
tutto l’orchestra e il proscenio. Attualmente è visibile il lato nord-orientale
del muro della cavea in opus mixtum. La cavea è posta in parte sulle pendici
del colle della Civitella ed in parte è coperta da volte e botte. Il teatro era
composto da due livelli come dimostra parte del corridoio semicircolare che
sbarrava il piano sovrastante. Gli spalti potevano contenere circa 5000
spettatori.
Il teatro misurava circa 5000 spettatori. Il teatro misurava circa 80 metri di
diametro. L’ingresso principale immetteva in una salita a gradoni sostituita
dal Vico II Porta Reale, così ci si immetteva in un corridoio che era posto
sopra la cavea, verosimilmente concluso da dei giochi di archi.
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“Tu uccidi il chiaro di luna”
di Romano Parodi
Quando Camillo Sbarbaro, tornò
dalla Grande Guerra (volontario nella C. Rossa), aveva i nervi a pezzi e, per
qualche tempo, cieco e sordo a quanto gli accadeva attorno, cupamente chiuso in
se stesso, insofferente anche alla vita di famiglia, diventò amico intimo di
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Tutte le sere vagabondavano nottambuli,
assieme ad altri intellettuali, nei carruggi di Genova. Durante il giorno non
si muovevano dalle loro stanze. Sbarbaro aveva lasciato anche il lavoro.
Nei
suoi articoli Barile traccia un suggestivo quadro della vita intellettuale di
quegli anni nel capoluogo ligure, fervida soprattutto nell’ottocentesca
Galleria Mazzini, dove ancora risuonava la voce di Ceccardo e dove si trovava
il Caffè Roma quartiere generale degli intellettuali. E’ qui che Montale, amico
di Sbarbaro, vede Ceccardo, ed assiste ad una furibonda lite fra il nostro e
Marinetti, capostipite del futurismo. Quella sera c’erano tutti, anche Montale,
che si defilerà: dirà poi: “Temevo la roteante “cravache” di Ceccardo”.
Ceccardo accusa Marinetti di “voler uccidere il chiaro di luna”.
Sbarbaro, Baratono, Sanguinetti, Podestà, Novaro e gli altri, cercarono invano
di calmarlo, oramai Ceccardo era partito (anni prima l’avrebbe senz’altro
sfidato a duello). “Sembrava un toro al quale avessero messo davanti un
drappo rosso; e quel drappo rosso era Marinetti”. (C.O. Guglielmini, Ceccardo
e il chiaro di luna, nel suo volume, Volto di Genova perduta,
Casa Editrice. Liguria, Genova 1951). (Ceccardo conosceva bene Marinetti;
scrisse anche nella rivista “Poesie”, da lui fondata).
Tommasi
Marinetti, nacque nel 1876, anche lui come Ungaretti e Pea ad Alessandria
d’Egitto, si laureò a Genova a fine secolo e nel 1909, in Francia, scrisse su
“Le Figaro”, il suo “Manifesto del futurismo”, che annunciava una nuova
corrente di pensiero (da leggere attentamente):
“La
letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi
vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di
corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno... - distruggere i musei, le biblioteche,
le accademie d'ogni specie, e cantare le grandi folle agitate dal lavoro, dal
piacere o dalla sommossa; glorificare la guerra — sola igiene del mondo —, il
militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore del libertari, le belle idee
per cui si muore e il disprezzo della donna sottomessa e timorata”
Per
un uomo che viveva di sogni romantici come il nostro Ceccardo questo era
troppo; ed è risaputo, oramai, che il nostro non si faceva mettere sotto da
nessuno. Che fosse con d’Annunzio o con il Duce, che incontrò, la parola era
sempre la sua, guai a contraddirlo. Non per niente fece tre duelli e subì una
decina di processi.
P.S.
Proprio in quell’anno, furono questi amici che curarono le sue esequie.
Una
bella Poesia di Camillo Sbarbaro:
Ora che sei venuta
Ora che sei venuta,
che sei entrata con passo di danza nella mia vita quasi folata in una stanza chiusa - a festeggiarti, bene tanto atteso, le parole mi mancano e la voce, e tacerti vicino già mi basta. Il pigolio così che assorda il bosco al nascere dell’alba, ammutolisce quando sull’orizzonte balza il sole.
Ma te la mia inquietudine cercava quando ragazzo nella notte d’estate mi facevo alla finestra come soffocato: che non sapevo, m’affannava il cuore. E tutte tue sono le parole che, come
l’acqua all’orto che trabocca, alla bocca venivano da sole, l’ore deserte, quando s’avanzavan puerilmente le mie labbra d’uomo da sé, per desiderio di baciare…
In
questa poesia, l’intesa d’amore è finalmente raggiunta; i turbamenti e le ansie
della giovinezza si placano. Il tono pacato, privo di ruvidezze testimonia del raggiunto equilibrio
esistenziale dell’uomo.
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Dal Diario di un pellegrino
di Gualtiero Sollazzi
COME LE
RONDINI
Convegni ecclesiali a raffica
in questo periodo. Una benedizione e un pericolo. Il pericolo è che rimangano
solo le parole.
La benedizione: che siano seminagione piena. La riuscita di questi eventi è
legata a diversi fattori: preghiera, preparazione, coinvolgimento delle realtà
pastorali. Anche il tema ha da essere bruciante, per avviare rivoluzioni di
amore. Papa Francesco è stato chiaro, aprendo il Convegno della diocesi di
Roma: “Un cristiano se non è
rivoluzionario, non è cristiano.” Tali riunioni dovrebbero essere un mettersi
insieme per ascoltare “ciò che lo Spirito
dice alle Chiese” ( Apocalisse 2, 1-7 ) con confronti a più voci nella
libertà dei figli di Dio. Le comunità parrocchiali ne raccoglieranno i “semi”,
verificando poi i cammini compiuti. Così i Convegni daranno frutto. La Pira
diceva: “I giovani sono come le rondini,
vanno verso la primavera.” Allargando l’immagine, sarebbe bello pensare a
cristiani arricchiti dal fuoco di questi incontri, che si impegnano a rendere
la Chiesa il più vicina possibile al Vangelo: “leggera, danzante, povera, libera, sorridente, coraggiosa, sottomessa
solo a Gesù.” ( card. Martini ) Ne annuncerebbero la primavera. Come le
rondini.
DIO LO VUOLE!
Espressione pericolosa perché
taglia, si direbbe, la testa al toro su tutti i fronti. Pensiamo, salva la
buona fede, quanto danno ha fatto nelle famose “crociate” con risultati
disastrosi, fra l’altro come per la “Crociata dei pezzenti” predicata da Pietro
l’eremita.
Quante ingiustizie e lacrime con quel “ Dio lo vuole!” Nessuno si è chiesto
come fai a dirlo? Quando Lui t’ha parlato? Davvero ha stabilito che ci fosse
anche una “Crociata dei bambini” che finì tragicamente? Quando il fanatismo
diventa istigazione, specie se vengono fuori motivazioni religiosamente
devianti, si sa dove si va a finire.
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I LUMACHELI DEL MESE DI MAGGIO
di Marta
Maggio è il mese che fa
crescere rapidamente il fieno: il sole caldo e gli acquazzoni improvvisi ne
favoriscono la crescita. Segue ovviamente la segagione. Nella Tenuta di
Marinella in questo periodo non si vedeva la fine dei lunghi filari di fieno
tagliato. Noi ragazzette, alzate la mattina molto presto e munite di un secchio
o due, per quelle più svelte, attaccati alla bicicletta, andavamo in quei prati
tosati a raccogliere i lumacheli (
simili alle lumache, ma più piccoli e di colore diverso, sul verde).
Quando accadeva ciò che sto raccontando?
Subito dopo la guerra, quando la miseria spingeva ad ingegnarsi.
Tutte le famiglie li raccoglievano, per poi , prepararli in umido e mangiarli con la polenta. Era
ritenuto un cibo prelibato e, soprattutto, non costava nulla; così come la
pesca dei ranocchi e delle anguille lungo i fossi. Ancora oggi, specialmente ranocchi e
anguille, sono la specialità di alcune trattorie di campagna.
Ciascuna di noi si posizionava in una o due filari di fieno tagliato e, chine
per ore, raccoglievamo uno per uno questi lumacheli.
Si scherzava e ci si divertiva, specie quando la fortunata di turno trovava il
posto migliore, dove erano più copiosi. Ovviamente più se ne raccoglieva, prima
si riempiva il secchio. Per evitare che tentassero di riacquistare la libertà
arrampicandosi sulle pareti del secchio, usavamo un canovaccio come coperchio.
Tra noi c’era tanta solidarietà. Per esempio, io, la più piccola della squadra,
rimanevo sempre indietro e con meno raccolto, ma le amiche, che avevano i
secchi pieni, raccoglievano anche per me.
Al ritorno in bicicletta mi aspettavano, perché, sempre io, ero la più lenta.
Ricordo con gioia quel periodo spensierato della giovinezza: sebbene avessimo
veramente poco, sapevamo trovare il modo di essere allegre. Non ci faceva
fatica alzarci prestissimo la mattina, perché i lumacheli escono per nutrirsi prima del sorgere del sole, dopo,
con il caldo si rintanano al fresco, talvolta, anche sotto terra.
Terminata la raccolta mattiniera, andavamo nella vicina Carrara a venderli.
Nessuno come i carraresi erano e sono ghiotti di questi animaletti. Passavamo
casa per casa: un piatto pieno di lumacheli
costava poche lire, ma allora la lira aveva valore. Anche in questa operazione
di vendita le ragazze più grandi ed esperte, mi aspettavano e mi insegnavano
come fare a gestire i soldini raccolti.
Ricordo che entrando in una via o in una piazzetta con le nostre biciclette,
suonavamo i campanelli per richiamare l’attenzione.
A volte non era neppure necessario, perché le signore erano ad aspettarci. Così
in poco tempo finivamo la vendita: chi ne voleva un piatto per due persone e
chi ne prendeva 3 o 5 piatti per la famiglia numerosa.
Spesso ne tenevamo una parte per la nostra famiglia e, allora, iniziava un altro lavoro, perché le
povere bestiole andavano messe a “spurgare” sotto un bigoncio di legno o un
vaso di fiori vuoto e rovesciato con il “buchetto” del fondo aperto per farle
respirare; infine si aggiungeva una manciata di farina di granoturco per
alimentarli. Venivano tenuti per una settimana in un luogo fresco
controllandoli spesso. Poi, si lavavano ben bene più volte per togliere la
secrezione bavosa, quindi si sbollentavano per qualche minuto e si
risciacquavano ancora in acqua corrente. A questo punto come si cucinavano? In un capiente tegame si preparava il
soffritto con un trito di cipolla, prezzemolo, aglio e lardo di Colonnata.
Quando il tutto era imbiondito si sfumava con un mezzo bicchiere di vino bianco
e si aggiungeva la passata di pomodoro.
Allora avevamo i sapori delle conserve fatte in casa. Con il sale e il pepe,
insieme ad un mazzetto di mentuccia o di maggiorana, si era completato il
sughetto che accoglieva i lumacheli
per una cottura molto lenta, almeno un’ora. A parte c’era da preparare la
polenta che richiedeva dai 35 ai 40 minuti di fatica a girarla con attenzione
per evitare i grumi. La famiglia si
riuniva davanti a questo piatto e a un “toffo
di polenta” in mezzo alla tavola. Il profumo stuzzicava le narici e
qualcuno si muniva di uno stecchino per tirare fuori il lumachelo dalla sua casa. Si iniziava sempre ringraziando il
Signore per questo povero cibo che riempiva la pancia con soddisfazione per
tutti.
Questo è un ricordo di vita vissuta e della passata gioventù, quando bastava
poco per essere sereni. Oggi con tutti i diserbanti i lumacheli sono spariti; restano, con la riserva di trovarle in
luoghi non inquinati da pesticidi, le lumache, anche loro commestibili e
cucinate con la stessa procedura, ma sono più dure e meno saporite.
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Tre nuovi sacerdoti
di Mila
Chissà se faranno festa in
Cielo quando qui sulla terra vengono ordinati dei nuovi sacerdoti? Penso di sì!
Sarà festa e festa grande, grandissima!!! Una bellissima Messa Solenne alla
presenza di Maria Santissima, con tutti gli Angeli e i Santi e tutti coloro che
già si trovano nel Regno dei Cieli. Officiata da Lui, da Gesù: Sommo Sacerdote.
Un pochino più in disparte, ma solo per rispetto, il Padre e lo Spirito Santo.
Basta! Non vado oltre con le mie fantasie, ho paura di rendermi ridicola, ci
sarà qualcuno che penserà: “Eh, è l’età!” Ma stavo proprio pensando a questo
due domeniche fa, in cattedrale, mentre assistevo alla Sacra Ordinazione
Sacerdotale di don Alessio, don Emilio e don Stefano, tre nuovi sacerdoti. Ci
sono andata molto volentieri per varie ragioni: per esprimere il mio affetto ai
tre giovani che già avevo avuto occasione di conoscere personalmente, per solidarietà
alla scelta coraggiosa fatta, una scelta di vita non certo facile e decisamente
faticosa, checché ne pensino alcuni. Per fare numero, perché credo che
specialmente in questo periodo storico ci sia bisogno di dimostrare che ci
siamo e che siamo convinti di quello che siamo. Per ritrovarmi con gli amici
delle altre parrocchie in un giorno di gioia e di fede, ed in fine perché mi
piacciono le “Messe alla grande”: Il latino, tanti Sacerdoti con i loro camici
bianchi, le Suore, le Congregazione Religiose con le loro divise e i loro
gagliardetti, ormai stinti e invecchiati ma che, proprio per questo, per quel
loro essere antichi, ci ricordano che da secoli la Santa Chiesa di Dio cammina
nel mondo. Ecco! Non hanno cantato quel bellissimo inno che mi piace tanto…Santa
Chiesa di Dio che cammini nel mondo, il Signore ti guida ed è sempre con Te,
per le strade del mondo verso l’Eternità …” e continuo a sognare e mi commuovo
così, da sola, davanti al monitor di un computer, mentre sto cercando di
descrivere l’emozione provata in quei momenti. Ripenso anche all’omelia del
nostro Vescovo che ha detto, più o meno, … Io sono qui, forse non sono niente
di eccezionale, forse vi aspettavate di più, ma sono quello che avete, quello
che Dio vi ha dato, e dobbiamo andare avanti cercando di aiutarci, confidando nel
Suo Amore per il bene della nostra Chiesa. Penso non si riferisse soltanto a sé
stesso, almeno io l’ho capita così. Cerchiamo di voler bene ai nostri
sacerdoti, aiutiamoli, frequentiamo la nostra chiesa ed andiamo avanti senza
tanti se e senza tanti ma, cercando di fare la volontà di Dio anche se non è
facile e a volte abbiamo tanta voglia di ribellarci.
Purtroppo le vocazioni alla vita religiosa sono sempre più scarse.
Gli attacchi alla Chiesa sempre più agguerriti, a volte forse anche a ragione,
bisogna trovare un rimedio, noi ne abbiamo uno alla portata di tutti, LA
PREGHIERA. Sfruttiamolo. Ieri sera il nostro parroco, don Alessandro, durante
la Messa feriale del venerdì ci ha fatto recitare una preghiera proprio per le
vocazioni sacerdotali e ci ha raccomandato, se possibile, di partecipare alle
“Adorazioni” mensili nelle varie parrocchie. Preghiamo perché il Padrone della
Messe mandi operai per la sua Messe e lo faccia al più presto perché ne abbiamo
tanto ma tanto bisogno.
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SAPER AMARE
di Missionari laici volontari
Le persone che sanno amare,
sono quelle che rendono bello il mondo, non sono gli scienziati o gli
economisti o i politici, le persone che contano di più; le persone più
importanti della terra sono le persone profondamente buone. Perché sono loro
che sanno dare alla gente, quello di cui la gente ha più bisogno: La bontà. Chi porta bontà comunica pace, sicurezza,
forza, perché comunica Dio.
Abbiamo bisogno di tante cose: di salute, di pane, di lavoro, di
tranquillità e di pace, ma più di tutto di bontà, di gente che alzi il livello
di bontà sulla terra, che trasmetta amore, perché abbiamo bisogno di Dio, coi
soldi si dice, si fa tutto. Non è vero; le cose più importanti non si comprano
con i soldi, invece è vero che con l’amore si ottiene tutto, anche i cuori di
pietra non resistono.
Davanti ad una persona profondamente buona, capace di amare perché l’amore è la
potenza di Dio sulla terra, abbiamo bisogno di gente che insegni ad amare. Non
ci vogliono lauree per insegnare ad amare, basta amare. Anche l’analfabeta può
essere maestro e può insegnare. Se abbiamo gente che sa amare abbiamo maestri
di bontà, che incremento sulla terra l’amore, persone che rendono sensibile e
visibile la presenza di Dio sulla terra.
Amare è calarsi nei problemi degli altri, è sacrificare il proprio tempo, è
aiutare le persone fino in fondo come sa fare Dio con ciascuno di noi; amare è
comprendere, amare è perdonare, amare è cambiare il male con il bene, amare è
dare affetto, attenzione, forza a chi non ne ha.
Amare è dare senza attendere ricambio, come sa fare Dio con noi senza
stancarsi mai; quando si è paziente mentre tutti perderebbero la pazienza,
quando ti controlli davanti ad un pensiero negativo, quando fermi una parola di
condanna che sembrerebbe a tutti legittima stai diventando esperto in amore.
Amare è fermarsi davanti ad ogni pena senza passare oltre, è trovare il tempo
per una persona che soffre mentre manca il tempo per te e per le tue cose.
Amare è rendere presente Dio in mezzo alla gente. Quando tu ami anche se non te
ne accorgi, il volto di Cristo si illumina in te, la luce di Cristo brilla nei
tuoi occhi, il sorriso di Cristo passa sulle tue labbra.
Signore moltiplica sulla terra le persone capaci di amare perché gli uomini
hanno troppo bisogno di te.
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