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LA QUARESIMA e IL NUMERO QUARANTA
di Antonio Ratti
La Quaresima è il periodo
liturgico di 40 giorni che precede la Pasqua di Resurrezione, durante il quale
la Chiesa, intesa come unità dei credenti, opera una seria riflessione e
verifica il suo stato di salute spirituale sul modello di Cristo sottoposto
alle tentazioni nel deserto. La Quaresima assume un significato catecumenale e battesimale nel senso che
ogni credente e ogni comunità, meditando sul messaggio di Gesù, possa, nel
cammino verso la Pasqua, rileggere e rivedere la condizione delle scelte fatte
col Battesimo per dare nuova linfa alla propria vita, che non è statica, ma
necessita di costante rinnovamento. Questa operazione è più proficua di
risultati prediligendo il silenzio vigile, la rinuncia al superfluo, dedicando
maggiore attenzione allo stile di vita che la Parola suggerisce: il tutto,
unito alla preghiera, crea prospettive nuove al dialogo, alla fraternità nella
carità, alla speranza della salvezza. Il nome richiama il numero 40, che è un numero fortemente simbolico con cui
l’Antico e Nuovo Testamento rappresentano i momenti salienti dell’esperienza di
fede del popolo di Dio. Esprime il tempo dell’attesa, della purificazione, del
ritorno del Signore, della consapevolezza che Dio è fedele alle sue
promesse. Nella Bibbia il numero 40 si
incontra spessissimo. E’ una cifra dal valore metaforico che non rappresenta un
tempo cronologicamente reale, scandito da una somma di giorni o di anni, né un
numero reale, ma indica un’attesa e una prova lunghe, un tempo adeguato per
capire le opere di Dio, un tempo congruo entro il quale prendere decisioni e
assumersi le proprie responsabilità. E’ il tempo delle decisioni definitive,
perché è il tempo che esprime una generazione intera. Nella Bibbia il 40 è citato 83 volte per indicare gli eventi più significativi
del popolo ebraico e, poi, del popolo cristiano. Appare per la prima volta
nella storia di Noè, un uomo giusto, che a causa del diluvio, trascorre 40
giorni e 40 notti nell'arca insieme alla sua famiglia e agli animali che Dio
gli aveva suggerito di portare con sé. Terminato il diluvio, deve attendere
altri 40 giorni prima di toccare la terraferma (Genesi). Secondo una tradizione
rabbinica, Abramo, in cammino verso il monte Oreb dove doveva sacrificare il
figlio, ha digiunato per 40 giorni e 40 notti, nutrendosi solo dello sguardo e
delle parole dell’angelo che lo accompagnava. Isacco, erede delle benedizioni e
delle promesse che Dio aveva dato a suo padre Abramo, caratterialmente incerto
e insicuro, decide solo a 40 anni di formarsi la famiglia per avere un figlio
cui affidare in eredità le promesse divine trasmessegli dal padre. Anche la
vita di Mosè è scandita da tre periodi di 40 anni ciascuno. Il libro dell’Esodo
racconta che Mosè ha guidato fuori dall’Egitto il popolo quando aveva 80 anni (
40 + 40 ). L’evangelista Luca negli Atti degli Apostoli conferma la biografia
di Mosè divisa in tre periodi di 40 anni. Dall’Esodo sappiamo che Mosè rimane
sul monte Sinai, con il Signore, 40 giorni e 40 notti per ricevere la Legge (ovvero,
i 10 Comandamenti). 40 giorni e altrettante notti Mosè rimane prostrato sul
monte Sinai davanti a JHWH (acronimo biblico di Dio) dopo che Israele aveva
adorato il vitello d’oro, intercedendo il perdono per il suo popolo. 40 anni nel
deserto è il tempo necessario al popolo per verificare e capire la fedeltà di
Dio: “il Signore tuo Dio è stato con te
in questi 40 anni e non ti è mancato nulla.” (Deuteronomio) Gli esploratori d’Israele, partendo dal
deserto di Paran, impiegano 40 giorni per portare a termine la ricognizione
della terra promessa e prepararvi l’ingresso di Israele ( L. dei Numeri ). Israele gode 40 anni di pace
sotto il governo dei giudici, che finiscono quando il popolo comincia a
dimenticare i doni di Dio e torna al peccato. (L. dei Giudici) Per 40 giorni
Giona percorre le strade di Ninive annunciandone, per punizione divina, la fine
cruenta. (L. di Giona) 40 sono i giorni di penitenza e digiuno totale dei
cittadini per ottenere il perdono di Dio ed evitare la distruzione della città.
40 sono gli anni di regno di Saul, Davide e Salomone. La festa liturgica della
Candelora, detta “festa della luce” per la profezia-rivelazione del vecchio
Simeone** su Gesù, ricorda la sua Presentazione al Tempio e la Purificazione
della Vergine Maria, riti, che, come prevede la legge ebraica, avvengono 40
giorni dopo la nascita e il parto. Oltre ai 40 giorni vissuti in penitenza,
preghiera e digiuno nel deserto, Gesù, dopo la sua resurrezione, si mostra vivo
e resta vicino agli apostoli per altri 40 giorni fino alla sua ascensione
al Cielo. (Atti degli apostoli). Per concludere sul significato del numero 40, quante
volte le mamme hanno detto, dicono e diranno con voce decisa ai figli: non te
l’ho detto mille volte cosa devi fare e cosa non devi fare? Mi sembra un esempio pertinente per comprendere
il significato intimo di questo biblico numero.
**La Legge prescrive di
offrire a Dio ogni primogenito maschio. Durante il rito che si svolge nel
Tempio di Gerusalemme, Simeone, sempre presente nel luogo sacro, si avvicina a
Gesù e lo solleva al cielo pronunciando quello che è detto Il Cantico di
Simeone: “Ora lascia, Signore, che il tuo
servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la
tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le
genti e gloria del tuo popolo, Israele.” Ecco il nome Candelora o festa
della luce, che allora si otteneva con un gran numero di candele sempre accese
nel Tempio, ma la luce a cui profeticamente fa riferimento Simeone è Gesù.
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“Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato”
di Romano Parodi
Sette sono
le frasi pronunciate da Gesù sul patibolo della Croce. Messe in fila, paiono
spezzoni posti senza alcun nesso logico. Eppure, una lettura meditata e attenta
non può non cogliere una sostanziale unità di fondo che dà alle sette frasi
quasi la parvenza di un testamento finale da parte di Gesù.
Scorrendole una ad
una si odono risuonare in esse i contenuti peculiari dell’annuncio evangelico,
che vedono il loro culmine proprio nella Pasqua.
1°)
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
2°) Padre, perdona loro perché non sanno quello
che fanno.
3°) Oggi stesso sarai con me in paradiso.
4°) Donna, ecco tuo figlio.
5°) Ho sete.
6°) Padre nelle tue mani consegno il mio
spirito.
7°) Ecco, tutto è compiuto. (La
cronologia però è differente anche fra i quattro evangelisti, ma lasciamo
perdere).
La
frase del
titolo mi ha sempre creato angoscia. Perché mai Gesù si rivolge a suo Padre in
quel modo. Può un padre abbandonare suo figlio?
Questa la spiegazione di Mons.
Ravasi.
“Gesù
gridò a gran voce (in Aramaico): Eloì, Eloì. Lemà
sabactàni…” Alcuni dei presenti
dicevano: Ecco chiama Elia” (Mc
15,34-35) eMt.
Come
hanno potuto i presenti scambiare quelle parole gridate, come un’implorazione a
Elia?
Questo
intoppo può apparire come la traccia di una memoria storica di quei momenti
convulsi, dice monsignor Ravasi. Il profeta Elia, infatti, oltre a essere
considerato come il precursore redivivo del Messia (Matteo 17,10-13), secondo
la tradizione giudaica era venerato come il protettore degli agonizzanti e
delle persone in grave pericolo di vita.
I
presenti, udendo quel grido straziato di Gesù, potevano scambiare la prima
parola (Eloì
o Elahî o, in
ebraico, Elì) come un’invocazione del profeta sulle
labbra di Gesù moribondo.
Certo è, che questo equivoco, continua mons. Ravasi, come, a
maggior ragione, il versetto salmico dal quale proviene la frase, rivelano
la profonda e autentica “incarnazione” di Gesù, nostro fratello, uomo vero anche
nella tragedia dell’assenza dell’intervento di Dio, muto davanti alle
sofferenze umane. Gesù chiede lo scopo, anche se lo sa, per il quale il padre
lo ha abbandonato ed usa la frase molto in uso nel mondo ebraico, di una
preghiera salmica. I salmi hanno migliaia di anni più dei Vangeli e sono
scritti in ebraico.
Tuttavia
non si può classificare quel grido come un segno di disperazione e quasi di
incredulità, perché – secondo l’uso giudaico – citare l’incipit di un testo
sacro vuol dire assumerne la totalità.
Il Salmo 22
inizia con un lamento angosciato simile a un De
profundis ma finisce
con un inno di grazie, di gloria e di lode al Signore re, una
specie di Magnificat o Te Deum. Non si spezza, quindi, nel cuore di Gesù
morente il filo estremo della fiducia. Esso sarà esplicitato da Giovanni che
registra questa estrema invocazione di Cristo, anch’essa desunta dai Salmi: -
“Tutto è compiuto”, l’opera, lo scopo per il quale Dio aveva mandato suo
figlio, era stata compiuta.
Salmo
di Davide:
1 Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio
gemito!
2 Dio
mio, io grido di giorno, ma tu non rispondi e anche di notte, …..………..
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DIARIO DI UN PELLEGRINO
di Gualtiero Sollazzi
E’ papa Francesco che ha
indicato il “discernimento comunitario” come metodo di lavoro ai vescovi
italiani. In loro, questo “metodo” l’ha suggerito alle Chiese di cui sono
pastori. C’è da chiedersi se il discernimento fa parte delle nostre abitudini.
Nei Consigli pastorali, nei gruppi ecclesiali si sceglie di valutare insieme i
termini di una questione per operare scelte corrette o si preferisce, grazie al
peso di una tradizione non sempre felice, di essere un yes-man, uno che dice sempre sì al superiore? Eppure il cristiano
ha la grazia di un discernimento significativo: quello spirituale. E’ un dono
dello Spirito che va trafficato, non ignorato. Esige un profondo contatto con
la Parola. Conviene riflettere sulla prima lettera di Giovanni. Fa
un’affermazione forte: “Ora voi avete l’unzione del Santo e tutti avete la scienza”.
Se il nostro servire la Chiesa nelle comunità terrà presenti i “fondamentali”
del discernimento, sarà un servire secondo Dio; se improvvisiamo partecipando a
incontri senza aver pregato e meditato, l’estemporaneità è sicura, il resto no. Un cardinale con la “C” maiuscola, Pironio, si chiedeva quanto i cristiani
facciano discernimento nelle loro comunità per testimoniare una Chiesa “pellegrina, povera, pasquale”.
DONNE
IN FUGA
Dalla Chiesa, purtroppo. Lo dicono
spietatamente i dati. Si tratta di gente giovane che ha rotto i ponti per vari
motivi. Converrebbe evitare i soliti lamenti e rinunziare ad accuse facili.
Meglio porsi qualche domanda e cercare con umiltà strade percorribili per
ricucire relazioni e offrire una Chiesa attraente.
Forse è finita un’epoca, forse è da modificare quella famosa preghiera nella
quale si chiedeva intercessione “pro
devoto femineo sexu” per le donne, insomma, etichettate, nell’insieme,
“devote”. Pareva un dato acquisito che la donna, ‘ devota’ di per sé, facesse
parte della ‘fanteria’, si assumesse i compiti ingrati della parrocchia. Ma
troppi secoli avevano deformato l’immagine femminile. Da qui, la donna
“rimaneva misconosciuta nella sua dignità, travisata nelle sue prerogative, non
di rado emarginata”. Lo scrisse Giovanni Paolo II° che non esitò ad affermare:
“Desidero ringraziare la santissima Trinità per il mistero della donna.”
Allora? Allora si dia fiducia alla
donna, le si diano i ruoli che merita nel campo ecclesiale, e chissà che non si
avveri la speranza di quel papa: “Il futuro della Chiesa nel terzo millennio
non mancherà certo di registrare nuove e mirabili manifestazioni del “genio
femminile”.
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San Guglielmo duca di Aquitania
di Un lettore
Patrono di Nicola
(1100-1157)
Tra i Santi venerati nelle
parrocchie del Vicariato di Luni, come San Fedele a Castelnuovo, San Lorenzo a
Ortonovo, San Martino a Casano, San Rocco a Serravalle, si distingue per alcune
caratteristiche singolari San Guglielmo di Aquitania, patrono del paese di
Nicola.
A differenza dei Santi sopramenzionati, venerati dalla Chiesa e scelti come
protettori dagli antichi abitanti di quei borghi, Guglielmo, nella Diocesi
della Spezia, è venerato solo a Nicola perché vuole la tradizione che un giorno
dell’anno 1150 sia giunto in paese, dove fu accolto e rifocillato, lasciando un
ricordo indelebile nella memoria collettiva che si tramanda ancora dopo 10
secoli.
Vediamo chi era questo personaggio, la cui festa si celebra ogni anno la
domenica prima delle Ceneri. Guglielmo nacque nell’anno
1100 a Tolosa in Aquitania. Il padre era il Duca Guglielmo IX che estendeva il
suo potere sopra una vasta e ricca regione situata nel sud della Francia. Del giovane Guglielmo sappiamo dai biografi che cresceva attratto dalle delizie
e nei piaceri mondani: balli, giochi, avventure galanti. Addestrato alla
carriera delle armi, partecipò a numerose imprese guerresche ampliando i
confini del ducato. Morto il padre, ne ereditava il titolo e le ricchezze, ma il potere non gli
giovò; rifiutando ogni buon consiglio, e persuaso che ogni cosa gli fosse
concessa, divenne insolente al pari di alcuni avventurieri che aveva introdotto
a corte. Visse per anni angariando i sudditi e conducendo una vita smoderata,
taglieggiando con tasse inique e vessazioni il vescovo locale e le proprietà
delle parrocchie. Fu quello un periodo tristissimo per l’Aquitania a causa della corruzione e
delle violenze che regnavano ovunque. Per più di tre anni Guglielmo visse scandalosamente con la moglie di suo
fratello. Nel 1330 si schierò con l’antipapa Anacleto perseguitando il Vescovo
e i preti della sua Diocesi che erano rimasti fedeli a Papa Innocenzo, subendo
così la scomunica. Giunto in età di matrimonio si sposò con la nobile Ermengarda, ma essendo
intollerante al legame coniugale, alla prima occasione cacciò la moglie
incinta. Venuto a conoscenza delle infamie che Guglielmo compiva contro la Chiesa, il
Santo monaco Bernardo di Chiaravalle pensò di andare a fargli visita sperando
con la parola di Dio di condurlo a conversione. Dopo due tentativi infruttuosi
il miracolo avvenne. Un giorno, mentre Bernardo officiava in Chiesa, Guglielmo
fuori sul sagrato coi suoi amici di baldoria sbraitava e disturbava la
celebrazione. Il Santo prese l’Ostensorio, uscì incontro a Guglielmo e
mostrandogli il SS. Sacramento gridò: “Ora offendi Lui se ne hai il coraggio!”.
Guglielmo impallidì, si mise in ginocchio e pianse amaramente. Bernardo lo invitò nel suo convento e dopo alcuni colloqui, vedendo nel giovane
segni di vera conversione, decise di imporgli una severa penitenza: se voleva
essere assolto nei suoi peccati il duca doveva abbondonare gli agi e il potere
e andare a Roma in pellegrinaggio ed essere riammesso nella Chiesa. Prima di partire per Roma, Guglielmo decise di andare a compiere un
pellegrinaggio al Santuario di San Iacopo di Campostela, seguito solo da un
servo. Dopo aver pregato a lungo, decise di liberarsi di tutti i titoli e le
ricchezze, e organizzò la sua finta morte. Fece costruire dal servo una bara,
la riempì di sassi e poi fece divulgare la notizia della sua morte imponendo al
servitore il segreto, gratificandolo con la somma di 6000 pezzi d’oro. Era il Venerdì Santo dell’anno 1139. Quando nobili, dignitari e popolo andarono
sul luogo dove alloggiava per onorare la salma e partecipare al funerale,
trovarono stranamente la cassa già chiusa. Mentre in San Iacopo si svolgeva il
funerale, Guglielmo era già in viaggio verso Tolosa dove trasmise alla figlia
Eleonora ogni titolo e potere. Poi indossato un “cilicio di ferro” sotto un
logoro saio, si mise in viaggio a piedi verso Roma. Il Papa lo accolse e lo confessò assolvendolo dalla scomunica, però gli impose
di andare in pellegrinaggio in Terrasanta e rimanervi per nove anni. Gugliemo obbedì e condusse laggiù vita da eremita nutrendosi di erbe amare e di
quel poco di pane che elemosinava nei dintorni. Quando gli tornavano in mente le efferatezze che aveva compiuto in gioventù, il dolore che lo assaliva era così grande che prorompeva in un pianto
dirotto. Un giorno Guglielmo fu preso da un’acuta nostalgia per la sua patria. Si
imbarcò su un veliero che lo scaricò sul litorale toscano, dove subì alcune
disavventure, finendo catturato dai pirati saraceni per essere venduto come
schiavo. Non sapendo cosa farne per lo stato pietoso in cui versava a causa del
cilicio, Guglielmo venne liberato e abbandonato sul litorale. Confidando solo nell’aiuto di Dio si rimise in cammino sulla via Francigena
arrivando fino a Luni. In attesa di un imbarco per la Francia si diresse sul
vicino colle di Nicola dove sperava di trovare un alloggio e un po’ di riposo. Vuole un’antica tradizione che quello strano pellegrino, mentre riposava sulle
sponde del torrente Parmignola notasse un uomo anziano, certo Pasquino, che
cercava di caricare su un asinello due barili d’acqua. Il misterioso pellegrino
si offrì di aiutarlo. Afferrò i barili e li caricò sul somaro con l’imboccatura
rivolta verso il basso senza che una goccia d’acqua si versasse per terra. Il
vecchio salì in paese raccontando l’accaduto; tutta la popolazione scese al
torrente per conoscere quel personaggio misterioso capace di compiere un simile
gesto. Guglielmo fu accolto in paese e rifocillato, ospite di alcune “Case
Particulari”, ossia di sette famiglie del luogo. Una delle case, vicino alla
Chiesa, è conosciuta ancora oggi come la casa di San Guglielmo. Prima di ripartire il Santo volle lasciare a quelle sette famiglie il segreto
dell’erba medicinale chiamata Agrimonia, che lui utilizzava per lenire le
piaghe provocate dal cilicio. L’erba guariva le ulcere venose delle gambe, come
attestano alcune Maestà marmoree presenti in paese. Guglielmo, dopo aver visitato in incognito la sua Patria, si rimise in cammino
per l’Italia dirigendosi verso la Maremma per stabilirsi in un antro nei pressi
di Castiglion della Pescaia, dove moriva il 10 febbraio dell’anno 1157. La fama
di santità di San Guglielmo, i miracoli che si verificarono grazie alla sua
intercessione, fecero sì che già nel 1202 la Chiesa lo proclamava Santo a furor
di popolo. Il ricordo del passaggio del Santo da Nicola rimase vivo nella popolazione che
ne tramandò il ricordo e le gesta di generazione in generazione, finché il 26
aprile 1677 il generale Parlamento composto dai capifamiglia del paese “nessuno
discrepante”, deliberò di eleggere S. Guglielmo Patrono di Nicola. Due anni dopo la C. Congregazione dei riti stabiliva la data della festa: 10
febbraio di ogni anno. Venuto a sapere di quella particolare devozione, il
principe di Massa, Carlo Cybo-Malaspina, nel 1685 donava alla chiesa di Nicola
una preziosa reliquia d’argento contenente un frammento d’omero del Santo. Il
10 febbraio del 1686, mentre per la prima volta il sacerdote al termine della
messa benediceva il popolo con la Reliquia, un uomo, certo Filippo Ragantini,
cieco dalla nascita, recuperò la vista, come si legge in un documento
d’archivio: “et ora ci vede benissimo,
smaneza monete, discerne gli uni dagli altri, cammina la campagna et fa ogni lavoro
che suole fare un contadino”. In paese alcuni bassorilievi marmorei testimoniano i miracoli e le grazie
distribuite dal Santo ai suoi fedeli. Un viaggiatore che visitò Nicola verso la
metà del ‘700, restò meravigliato dalle centinaia di persone che in occasione
della festa di S. Guglielmo salivano in paese per pregare e per portare a casa
un po’ di Agrimonia, benedetta dal sacerdote con la reliquia. Ed ancora oggi
quell’erba viene raccolta nei boschi vicini e distribuita ai fedeli il giorno
della festa. Nel 1782 clero e comunità decisero di trasferire la festa di S. Guglielmo dal
10 febbraio, al lunedì dopo la domenica di Sessagesima. Nel 1974 la festa subì
un ulteriore spostamento celebrandosi il lunedì prima delle Ceneri, e da
qualche anno il definitivo trasferimento alla domenica prima delle Ceneri. Nonostante la crisi di fede e la secolarizzazione, ancora oggi questo
piccolo/grande Santo non si stanca di trasmetterci messaggi di conversione
autentica, di disprezzo delle ricchezze e del potere, di vita austera, di saper
soffrire per amore, di testimonianza cristiana capace di attirare i lontani, di
aiuto agli afflitti e ai bisognosi, di affidamento fiducioso alla volontà di
Dio.
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