Il
mese scorso si ricordava il 40° anniversario dalla morte di don Felice Viani,
parroco nella nostra comunità che ha profuso impegno ed energie per
l’edificazione della nuova chiesa di Caffaggiola.
Riportiamo
qui di seguito un tema da lui svolto in giovane età sulle differenze sociali.
TEMA
DIFFERENZE SOCIALI
Sel da l’opra gagliarda,
Dal lavoro che sana e che redime
E riconduce a Dio, franchigia avrai;
Questo è il tuo fato. (Anzoletti)
L’uomo fu sapientemente creato
per unirsi in società: ciò dimostra il di lui linguaggio con cui manifesta agli
altri il proprio pensiero, la impotenza a procurarsi da se stesso il necessario
per la conservazione della vita, a discernere le cose utili dalle nocive, al
perfezionamento suo morale ed intellettuale. Ma questo naturalmente importa
disuguaglianza fra gli uomini.
La società è paragonata al vostro corpo organico-. Ora se tutte le parti di tal
corpo fossero l’occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse l’odorato, tatto e
via di seguito, dove sarebbe la varietà degli organi, armonicamente regolati?
Ci piacerebbe che tutti gli uomini fossero uguali? Che tutti gli alberi fossero
precisi l’uno all’altro? No certamente: ci vuole un po' di tutto al mondo: è
bello perché è vario. Così può dirsi dell’umanità: la disparità di condizioni
fa sì che gli uni abbiano bisogno degli altri, che i ricchi si accostino ai
poveri, che il debole si appoggi al più forte…. Solo in tal modo si sviluppano
le virtù, si attua l’armonia sociale. Il ripudiare le differenze sociali
sarebbe un ripudiare senza accorgersene il progresso civile da cui dipendono
arrestando l’umanità alla condizione degli animali, e, tutto al più, di quei
selvaggi che avanzando con moto lentissimo e quasi impercettibile paiono
rimanere sempre gli stessi.
Senza classi dirigenti sia nel pensiero che nel comando, non si può concepire
ordine e vita sociale; senza classi economiche distribuite secondo le diverse
funzioni, distribuite per mestiere secondo le capacità di ognuno, non è
possibile alcun incivilimento. Essendovi fra gli uomini delle disuguaglianze di
salute, di forza, di ingegno, di volontà, è assurdo e ridicolo il sostenere che
ogni individuo debba occuparsi della sua medesima, e tutti debbano quindi
possedere allo stesso modo. È necessario l’artista, lo scienziato, l’uomo
d’armi, l’uomo di preghiera, il dottore, l’artigiano, il ricco e il povero,
tutti insomma devono vivere con diversità di carriere e di mestieri. Chi ci
procura i piaceri dello spirito, chi gli agi di cui tanto oggi godiamo, chi dà
la pace, la tranquillità alle anime v’è chi ridona l’energia alle nostre forze
fisiche, chi ci difende e, vinti, ci libera dalle mani del vincitore, chi
facilita e rende piacevole la vita, mettendo a disposizione degli altri una
infinità di mezzi: vi sono finalmente coloro che, disponendo di maggiori
ricchezze, possono all’uopo soccorrere i bisognosi, i quali a loro volta
servono per placare l’ira di colui la cui vita è coi servi. Il possidente deve
offrire al mercato quello che ha: il proprietario di terreni e case; il
capitalista, capitali; l’imprenditore prodotti dell’officina; e chi non ha né
terre né capitali offra lavoro; certo uno lavora di più uno di meno, meglio o
peggio così alcuni ottengono frutti maggiori altri minori, altri uguali; chi fa
più leva va più innanzi, chi ne manca rimane indietro: donde fosse di là
l’esuberanza, di qua il difetto, lo sfarzo dell’opulenza e il doloroso
contrasto della miseria. È un male sicuramente: ma peggio sarebbe il mantenere
tutti pari, sarebbe tanto di perduto per gli uni e nulla di guadagnato per gli
altri, con detrimento di tutti, restando impediti i migliori. Ma tutti però
operano col braccio o col pensiero, colle potenze fisiche o morali, recando il
loro piccolo contributo al miglioramento sociale.
Il lavoro tutto può, fu detto e nulla si può senza il lavoro; è un dovere verso
Dio e gli uomini, una nostra necessità, a tutto si deve: è il più efficace
educatore del carattere, è indispensabile per la nostra felicità. Sol dall’opra
gagliarda noi godremo perfetta salute, giacché il cervello che non pensa e non
lavora mai s’impigrisce e a poco a poco s’atrofizza al pari di minuscoli che non
si muovono. Applicandosi di continuo potremo migliorare le condizioni in cui
veniamo, diverremo più liberi, più forti, benemeriti della società, cari a Dio.
Siamo paghi del nostro fato che ci addita un vasto campo di lavoro, e se alle
volte ci è dato osservare delle sorti che ci paiono eccessivamente più belle
delle nostre non desideriamole, senza curarci di loro guardiamole con occhi
compassionevole. Ecco un potente personaggio che abita in sontuoso palazzo,
riverito da tutta la moltitudine e forse temuto, che bieco guardando attraversa
la città in carrozza con lungo seguito di camerieri in alta livrea.
Sembrerebbe l’uomo più felice: parrebbe che costui, senza pensieri e preoccupazioni,
sprezzatore d’ogni legge e d’ogni divinità, cerchi solo sfamare le sue voglie
in gozzoviglie, condurre a fine i suoi tristi disegni, ponendo il misero
sgabello ai suoi piedi. Eppure questa felicità è spesso più apparente che
reale; chissà quante volte il ricco invidia la tranquilla rassegnazione del
povero; l’artigiano che la sera posa contento le ruvide mani per il maneggio
della pialla, sulla testolina del sorridente viso del suo bimbo caro; il
villano che trascorsa la giornata ai dardi infuocati del sole, lieto della
copiosa messe, torna, al suono di squilla lontana all’umile casetta, per
consumare nella quiete della famiglia il frutto delle sue fatiche. Mira invece
i penetrali del dovizioso padrone e l’addentra; inabile al lavoro e quindi
timoroso di cadere nella più abietta miseria se tarlo o ladro lo priva dei suoi
tesori; la sua vita è un susseguirsi di sospetti, di ansie mortali. Quel viso
spesso così allegro e spensierato, dissimila un cuore in cui cova rancore,
delitto brutale, fiacco inquieto scontento di tutto e di tutti. Non vi è dubbio
in quelle sale sfarzosamente addobbate di luci e damaschi a foggia principesca,
in cui sogliono convenire liete brigate di giovani e donzelle, s’aggira più
sovente la falce di sua maestà la morte, su di esse pendono più terribili le
sciagure più tristi i destini. Oh sì! Tu sei il più felice! Reietto dal tuo
simile, vai a volte ramingo cercando pane a fusto a fusto; tu che forse alla
fatica lagrime e sangue mesci vivendo nel sudore di tua fronte. Fu Dio che pose
tali disuguaglianze fra gli uomini di condizioni, di ceto, di mestieri, e ciò
nell’abisso del Suo consiglio fece non senza alcun bene. Non stimare la tua
vita misera, o lavoratore: il Figlio di Dio, piccolo artigiano, è per te
luminoso esempio, poderoso incitamento.
Don Felice Viani
16/3/1927