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LE GRAFFIATURE - MINI RIFLESSIONE
di Antonio Ratti
Il Vangelo di Matteo ( 28,
18-20 ) della passata festa liturgica dell’Ascensione riporta un’espressione
molto decisa e chiara, insomma, una di quelle che Gesù vuole sia presa alla
lettera per poter aspirare ad essere suoi onesti discepoli: “Andate dunque e
fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo, insegnando loro di osservare tutto ciò che vi ho
comandato.
” San Girolamo, l’immenso conoscitore e traduttore della Bibbia ( Vecchio e
Nuovo Testamento ), sebbene a vederlo poteva sembrare appena un clochard (
barbone ) tanto era incurante del suo aspetto, così commenta i versetti di
Matteo: “
Con queste parole Gesù ordina di annunciare ciò che si riferisce ai dogmi della
fede e ciò che riguarda i precetti della morale. Non dice una parola dei
giudei, né fa alcun accenno a quanto è accaduto, non rimprovera a Pietro il suo
giuramento, né agli altri discepoli la loro fuga. Ordina invece di andare in
tutto il mondo, affidando loro un insegnamento breve e conciso, quello che
dovranno annunciare mediante il battesimo.” Non dimentichiamo che siamo tra il
347 – 419 dopo Cristo. Il Padre della Chiesa distingue i dogmi di fede e i
precetti della morale che vanno entrambi annunciati e applicati, poiché i
secondi, come in un teorema di geometria, sono corollari sequenziali e
indivisibili dei primi. Separare i dogmi, cioè la fede, dai precetti morali,
cioè la loro attuazione nella quotidianità della vita, è un vero e insensato
tradimento della Parola. “Ora et labora,” cioè prega per la speranza della
salvezza promessa, ma agisci concretamente con le opere per la medesima
ragione.
In termini banali: a che serve la teoria se non la si realizza con atti tangibili?
A che serve inventare i led se non li utilizzi per costruire lampade a
risparmio energetico e televisori quasi perfetti? Chi mi legge dirà che scrivo
queste note con il cervello in vacanza su una spiaggia infuocata; certo per le
persone di buona volontà sono superflue e, anche, noiose ripetizioni di
concetti già sentiti, ma nel mondo a quanti capi tracotanti, capetti
presuntuosi, imprenditori voraci, dittatori senza alcun ritegno etico ed umano,
governanti incapaci quanto arroganti, politici solo per interesse personale,
uomini di fede, procacciatori e venditori di odio e di morte in nome di Dio,
farebbe bene meditare queste ovvie considerazioni, post prandium, e
sempliciotte osservazioni?
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MAZZOLARI E MILANI E I TANTI PRETI “SCOMODI”
di Egidio Banti
E’ stata breve, martedì 20 giugno, la visita di papa Francesco a
Bozzolo di Mantova e a Barbiana di Vicchio, nel Mugello. Poche ore appena,
nell’arco di una mattina e di un primo pomeriggio, ma di un’intensità
spirituale e sociale come forse poche altre tra le tante svolte in questi anni
dai vescovi di Roma.
A conferma che lo Spirito – per esplicare la propria azione – si colloca sì nel
tempo, ma non ha bisogno del tempo, o quanto meno di molto tempo, per
manifestare a tutti la sua efficacia.
Con questa visita, Francesco ha inteso rendere omaggio a due sacerdoti da lui
stesso definiti “scomodi”: don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani.
Non ha pronunciato, il papa, la parola “scuse”, a nome della sua Chiesa e di
fronte alle loro semplici tombe di campagna. Non lo ha fatto, ma è come se
quella parola l’avesse pronunciata, nel solco di quanto già avevano fatto, per
circostanze diverse, alcuni suoi predecessori, in primo luogo san Giovanni
Paolo II.
Mazzolari e Milani, infatti, sebbene diversi per carattere e per esperienze pastorali,
rappresentano due esempi tra loro molto simili di quanto sia difficile fare il
prete, e quindi anche il cristiano autentico – non condividiamo forse tutti il
carisma del “sacerdozio” comune dei fedeli, come ribadito dalla costituzione
conciliare “Lumen gentium” ? –, collocati come siamo nel solco di una storia i
cui protagonisti, uomini e donne, non camminano tutti con la stessa velocità
(sarebbe troppo bello!).
Che cosa ebbero di comune il prete di quella campagna lombarda dove sin dalla
fine dell’Ottocento le “leghe bianche” condividevano con i socialisti, pur
distinguendosi da loro secondo le indicazioni della Chiesa, la lotta per la
giustizia sociale, e il parroco di un paesino del Mugello, dove nessuno tra i
suoi confratelli voleva andare a dir Messa, fondatore di un modello di scuola che
resta, oggi più di ieri, esempio di autentica passione formativa ?
Intanto ebbero in comune l’intelligenza. Dove per intelligenza non intendo il
“quoziente” intellettivo di chissà quale test, bensì – nel senso letterale – la
capacità di “leggere dentro”, e dunque di “vedere avanti”, nella società e
nella Chiesa. Mazzolari non vide il Concilio Vaticano II. Morì il 12 aprile
1959, avendo avuto la grazia di poterlo sentire annunciato, tre mesi prima, da
san Giovanni XXIII. Ma i passi salienti della “Gaudium et spes”, il
fondamentale documento sulla “Chiesa nel mondo contemporaneo”, è come se li
avesse scritti lui, insieme ad altri: parole di speranza, di dialogo, di gioia,
ma anche di lotta alle ipocrisie e alle ingiustizie.
Quando a don Milani, la sua scuola di Barbiana sapete in che cosa si differenziava
dalle altre? Che era una scuola “orizzontale”, non “verticale”. L’insegnamento
era “condiviso” tra il maestro e l’allievo, senza distinzioni di ruoli e meno
che meno di classi sociali. Ebbene, non è forse quello che avviene oggi con il
rapporto “formativo” orizzontale che, con la condivisione di internet, è
divenuto centrale, tra luci ed ombre, per la vita dei nostri ragazzi?
Se don Milani – e non solo lui – fosse stato capito e seguito, oggi forse ci
lamenteremmo molto di meno, a buoi in gran parte scappati dalla stalla, della
nostra incapacità di capire i ragazzi, ed eviteremmo di dare la colpa a loro o
agli strumenti elettronici che noi, non altri, gli abbiamo regalato.
Un secondo elemento che li ha accomunati è stata la fedeltà alla Chiesa e al
Vangelo. Nessuno dei due è stato mai condannato, nessuno dei due ha gettato,
come si diceva una volta, la tonaca alle ortiche. Anzi, entrambi, a fronte
delle incomprensioni, delle sofferenze e di vere umiliazioni – don Milani fu processato
(e poi assolto) per una lettera di critica ai cappellani militari toscani,
contrari a quella obiezione di coscienza che oggi proprio noi invochiamo così spesso,
a proposito ed anche a sproposito! -, non cessarono un minuto di fare i parroci,
e di farlo bene.
Le “scuse” di papa Francesco nei loro confronti sono state giuste, anche se
tardive. E certamente simboliche: quanti preti, quanti religiosi, quanti laici
impegnati hanno sofferto, restando fedeli alla loro missione? Tra i presenti a
Barbiana il 20 giugno, invitato dagli organizzatori, c’era anche un prete di
Ameglia, don Sandro Lagomarsini, “spedito” nel 1965 a Cassego, ovvero nella
parrocchia più lontana dalla città, per aver preso posizione, in qualche
predica, contro i bombardamenti americani in Vietnam. Di Cassego don Sandro,
con il suo doposcuola, è riuscito a fare una nuova Barbiana, rifiutando in
seguito qualunque invito a tornare parroco vicino alla città.
A Cassego c’è così anche oggi, portando avanti quella testimonianza, ora legata
ad un nuovo tema sociale di estrema rilevanza, quello delle persone immigrate.
A Bozzolo non c’era invece padre Vincenzo Damarco, di cui più volte abbiamo
parlato sul “Sentiero”. Non poteva esserci, essendo morto quarant’anni or sono,
ma è come se ci fosse stato. Anche lui è stato un prete “scomodo” nella Sarzana
degli anni Sessanta e Settanta, anche lui venne mandato per così dire in
esilio. Anche per lui sono valse le parole di papa Francesco. Come sono valse, ritengo,
per numerosi altri sacerdoti della nostra diocesi, e di tante altre.
Il cammino della storia umana segue “impervie vie”, per dirla con Franco
Battiato. Vie che spesso addolorano, altre volte stupiscono. La sfida, per le
persone credenti di oggi – che secondo le statistiche sono sempre di meno, per
lo meno in forma manifesta –, è quella di costruire, nel dialogo nel confronto nella
collaborazione e nella testimonianza, un percorso capace di rendere
comprensibili anche sul piano umano le parole con cui termina il “Diario di un
curato di campagna” di George Bernanos: “Tutto è Grazia!”.
Preti scomodi, infatti, ma anche Chiesa scomoda. Grazie, papa Francesco.
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QUEI CAMPI AZZURRI
di Millene Lazzoni Puglia
L’azzurro è un colore tra i
più belli in assoluto, che fa pensare al cielo, al mare, a meravigliosi occhi
azzurri che fanno sognare, ma in questo mio ricordo della gioventù ci sono gli
splendidi campi azzurri per la fioritura delle piantine di lino.
Campi azzurri che, dal primo dopoguerra, quando ero bambina, sono rimasti
scolpiti nel mio ricordo e che, in seguito, non ho, purtroppo, mai più rivisto. Quando in Via Novella di
Sopra (Caniparola o La Alta) c’erano solo ulivi e campi molto curati, dove nel
tempo abbiamo costruito ben due case, c’era chi seminava il lino che a primavera
ci allietava con la spettacolare fioritura dei campi azzurri. L’arrivo degli anni ’50 ha comportato l’inizio del cambiamento della società,
con l’invenzione di nuove fibre e tessuti, così i campi dipinti di azzurro non
si sono più visti. Come me, molti altri, nati prima del conflitto ’40 – ’45,
sono testimoni di tante cose irripetibili, che rispecchiano la grande tenacia del
contadino oltre al radicamento di valori umani molto importanti. Erano i tempi
in cui i contadini, allevavano bestiame e animali da cortile e seminavano vari
cereali e ortaggi per il sostentamento che, assieme agli alberi da frutto,
sostituivano il supermercato del nostro tempo. Oltre a tutto questo, c’era chi
aveva i terreni per seminare il lino e lo curava fino a farlo diventare quel
prezioso tessuto utilizzato per le lenzuola, tovaglie ed altra biancheria per
la casa. Nel percorso per arrivare al prodotto finito c’era molto lavoro come
la semina estremamente faticosa, fatta manualmente o con l’aratro trainato dai
buoi. Le piantine del lino sono alte e sottili, somigliano a quelle del grano,
ma sulla sommità, anziché la spiga, hanno il caratteristico fiorellino azzurro.
Il “frutto” è nel gambo, ovvero è l’interno dello stelo che costituisce la
preziosa fibra. Poiché venivano tagliate
raso terra, proprio come il grano, erano legate a piccoli mazzi ed infine a
grandi fasci. A questo punto il destino del lino era diverso da quello del
grano, perché doveva essere trasportato verso il più vicino torrente con carri
agricoli o a spalla e immerso nell’acqua corrente con sopra pesanti pietre per
garantirne la stabilità. Dopo un periodo di ammollo di almeno due settimane, i
mazzi venivano recuperati e lasciati asciugare al sole estivo nelle aie, che
nelle case rurali, non mancavano mai. Dopo la completa asciugatura, iniziava un
altro processo, quello della battitura con bastoni di legno e, poi, con un
attrezzo chiamato “gramola”, venivano tolte tutte le scorie dalla fibra del
lino, che era, così, pronta per la filatura: lavoro paziente destinato da
sempre alla donna. Anche il lavoro finale della tessitura era svolto di solito dalla donna, che
spesso aveva il telaio in casa e, con sapiente manualità, sapeva trasformare le
“sudate” matasse in prezioso e forte tessuto. Per chi (nelle piccole realtà)
non possedeva il telaio, esistevano dei centri di tessitura con operaie che
svolgevano il lavoro al telaio per l’intera giornata. Normalmente la larghezza di quei teli era limitata a circa 70-80 centimetri e
per fare un lenzuolo ne servivano due o tre che venivano cuciti insieme sempre
a mano con il solito filato. Il risultato di tanto lavoro era un tessuto “sano” , piacevole al contatto
anche quando le lenzuola erano nuove ed era presente ancora una certa ruvidità
che in seguito si sarebbe attenuata con
i ripetuti lavaggi di acqua bollente e cenere come usava allora. Per i giovani degli anni ’50 la grande fatica per produrre un prodotto che dava
una scarsa resa economica, era stata uno dei motivi per indirizzarli verso i
nuovi tessuti delle moderne industrie tessili dove si lavorava oltre al lino,
anche cotone e altre fibre naturali, fino ad arrivare a quelle artificiali ,
meno salubri poiché derivanti dal petrolio con l’ausilio di coloranti spesso
altamente dannosi alla nostra salute. Ovviamente questi nuovi orientamenti produttivi
determinano la perdita di consapevolezza che le cose naturali e genuine sono
insostituibili, sebbene meno “morbide” ed attraenti. I tessuti tecnologici a
volte sono responsabili di allergie, fino ad arrivare ad essere causa di gravi
malattie specialmente nei bambini. Quanto sopra è stato trasferito anche in altri settori della nostra società:
per esempio nel campo alimentare, dove i troppi cibi sofisticati sono causa di
malanni seri. Il risultato finale è che, in entrambi i casi, noi consumatori
siamo vittime di chi mette al primo posto il profitto e, molto indietro, la
salute. Ma torniamo al nostro lino, insieme al quale è doveroso ricordare la “sorella”
canapa, altra pianta dalla quale si ricava una resistente fibra. Ha un fiore chiaro ed è meno raffinata e
nobile del lino, comunque con lo stesso procedimento del lino si ottiene un fresco tessuto. La canapa è stata a lungo coltivata nella collina di Fosdinovo, tanto da
lasciare traccia nel nome del paese di
Canepari e forse anche di Caniparola. Ma non è tutto: una famiglia di quei pressi aveva, fino al secolo scorso, il
soprannome di “Can’Vin” perché discendenti di lontani coltivatori di canapa. Entrambi questi antichi e preziosi tessuti sono stati rivalutati negli anni ’80
quando andava di moda realizzare abiti con le vecchie lenzuola della nonna rese
più morbide dall’uso prolungato. A dire il vero, ancora oggi c’è chi apprezza quelle antiche lenzuola: sono a
conoscenza di splendidi copriletti cuciti con tre teli di lino ( o canapa )
uniti da un tramezzo fatto all’uncinetto di gran finezza. Dalle lenzuola più consumate – la fantasia
non ha confini e non si butta via niente – sono state ricavate tovagliette
personalizzate con un accenno di ricamo o con un riporto colorato per
contraddistinguere le une dalle altre. Ogni epoca che passa lascia un ricordo: io sono testimone di quegli inimitabili campi di fiori
azzurri e un poco di quelle lenzuola
ruvide, mentre le mie nonne, e ancor più le mie bisnonne avrebbero il
ricordo del duro lavoro nei campi per la produzione e la trasformazione delle
preziose piantine. Peccato che loro non lo possano raccontare!! Sicuramente avrebbero molti
particolari ed aneddoti di cui sfortunatamente io e nessuno altro siamo ormai a
conoscenza.
Caniparola 2017
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Un passo indietro nel tempo.......
di Maestra Anna
Sabato 10 giugno a Sarzana,
nel pomeriggio, si è svolto il torneo indetto dall'Unicef per il Giro d'Italia
e della Lunigiana con il giro dei tappini.
Gli alunni di classe 4^ di ogni Scuola Primaria della vallata del Magra,
selezionati durante alcune lezioni tenute a scuola da esperti di questa
divertente attività, si sono incontrati in Piazza Matteotti per partecipare alla
semifinale ed alla finale che ne avrebbe decretato i vincitori.
La piazza era “lastricata” da numerose piste di difficoltà diverse ed i nostri
concorrenti, muniti di un tappino e di una spilletta, hanno intrapreso questa
lunga ma esaltante gara ad eliminazione.
Il tifo dei genitori c'era, l'efficienza degli organizzatori anche: tutto era
pronto per dare inizio al torneo.
Tra un sospiro di sollievo, una fronte corrugata, un sorriso di gioia ed un
applauso trionfante, il nostro Andrea Danesi, proveniente dalla Scuola Primaria
di Isola di Ortonovo, è riuscito ad aggiudicarsi ben due trofei: la maglia
arancione per il Giro della Lunigiana ed una magnifica coppa per il Giro della
Montagna.
Nonostante si sia trattato di un gioco purtroppo obsoleto, il pomeriggio
trascorso all'aperto all'insegna dell'allegria, guidato da un sano agonismo ma
soprattutto il desiderio di condividere sconfitte e vittorie, ci hanno
confermato ancora una volta quanto sia importante mantenere intatte le nostre
tradizioni e non perdere mai di vista i valori quali la socializzazione, la
sportività ed il sano divertimento che dovrebbero guidare ogni bambino verso la
sua maturità.
Vivendo realmente e non virtualmente una fanciullezza fatta di ginocchia
sbucciate, lanci ad un pallone e bambole da pettinare, i nostri figli, un
giorno ormai adulti, potranno mantenere intatto un tenero ricordo degli anni
migliori della loro vita, trasmettendolo come abbiamo fatto noi, con un
briciolo di nostalgia, alle loro generazioni future.
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In ricordo di Pietro
di Giuseppe Cecchinelli
Solo tra i rami degli ulivi eri felice ridendo dei miei divieti e dei
miei rimproveri. A 88 anni sfidavi la gravità con la leggerezza di un uccellino
e non ti limitavano una protesi al ginocchio né tanto meno un pacemaker al
cuore.
Tu volevi salire sempre più su ...........più su........e ancora su, fino ad
incontrare Dio.
Oggi, Festa dell'Ascensione, lo hai incontrato.
Per me non suocero, ma secondo padre.
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UNA GIORNATA A MONTEROSSO AL MARE
di Marta
Il treno è pieno di
turisti stranieri provenienti da tutto il mondo, educati, civili, senza
spingere nelle resse, tutti in fila, aspettando il loro turno per salire e
scendere. Che bello ascoltare, mentre parlano tra loro, la fonetica delle varie
lingue è diversissima: lo spagnolo, se è parlato lento, un po’ si capisce, il
francese è molto musicale, l’inglese compito, il tedesco lo trovo rigido,
mentre il giapponese è molto gesticolante, altre lingue, ahimè non so spiegarle.
Salgo sul treno alla stazione di Avenza Carrara per andare a Monterosso.
Il paesaggio è stupendo: anch’io come loro, sono affascinata dal bianco del
marmo delle nostre Apuane, dal verde smeraldo delle nostre colline lunensi, dal
celeste del cielo con qualche cirro spumoso di nuvolette sparse e dall’azzurro intenso del nostro meraviglioso
mare quando è possibile intravederlo tra una galleria e l’altra. Perché non
parlare poi dei nostri ameni paesini che fanno capolino tra un colle e l’altro?
I campanili delle loro chiese, sempre nel centro dell’abitato, svettano come
volessero farsi ammirare e nello stesso tempo invitarci per una visita e per
conoscere la loro storia millenaria.
Prima fermata Sarzana, poi Migliarina- La Spezia, dove si cambia, salendo su un treno che ha un
preciso scopo turistico percorrendo le Cinque Terre e si riparte. Fermate a Rio Maggiore, a Manarola
e sempre lo stupore si manifesta nei
volti di chi assorto contempla le nostre bellezze naturali; ancora qualche galleria
ed ecco Corniglia, Vernazza, e poi, la prossima è Monterosso…
Scesa dal treno, mi dirigo verso la mia
destinazione e mentre cammino sul lungomare, osservo due turiste, mi sembrano
tedesche, con i loro trolley, scarpe con calzini, zaino in spalla che, appena
vedono il mare vicinissimo, di corsa raggiungono la spiaggetta e, posando
sull’arenile tutto ciò che le ingombrava, si tuffano vestite, anche con le
scarpe, tra gridolini e risate di gioia e l’incredulità dei presenti: il tutto
finisce con un caloroso battimano.
Continuo il mio percorso e vedo davanti a me uno scorcio suggestivo della
Villa del Gigante di Monterosso appoggiata sopra uno sperone di collina, su un
mare di cobalto. Più su, ecco la bellissima abazia dei frati francescani che,
con il cimitero, è diventata un’attrazione particolare di Monterosso.
Pur se non sono andata in vacanza, per me è già vacanza avere l’opportunità di ammirare le nostre meravigliose Cinque Terre.
Cari visitatori buon
soggiorno a tutti e per i lettori del Sentiero buona estate, tanta felicità e
Dio con noi.
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“Non conta solo vincere per essere felici”
di Augusto Gianfranchi
Nella nostra, a volte, breve
esistenza bisogna saper vincere anche perdendo.
La “ FELICITA’ “ può essere ben altra cosa specialmente quando porta serenità.
E’ da diverso tempo che tengo appunti sul tema, ne ho proposto qualcuno al
SENTIERO.
Vincere è bello, forse importante per molti, ma non è l’unica cosa che conta,
non è necessario essere primi per essere felici, a volte si vince perdendo( lo
diceva spesso mia moglie).
Come puoi fare una “ volata “ contro un tuo fratello ?
In certi momenti si presentano occasioni che ti mettono alla prova, decisioni
che devi prendere all’istante, altre volte che puoi avere il tempo di meditare
o di riflettere. Quando non c’è il tempo devi decidere (ricordi il DOPO del
numero scorso del SENTIERO) o devi o puoi rimandare. Ci sono esempi, a volte,
poco conosciuti che ci possono far vergognare di qualche nostro comportamento o
atteggiamento. Siamo nell’era di una rivalità esasperata….
A tal proposito mi ha colpito alcuni giorni fa l’esito di un episodio sportivo.
Domenica 18 Giugno, campionato italiano di ciclismo categoria Juniores, due giovani atleti diciasettenni,
della stessa squadra ( Romagnano-Massa), arrivano soli in prossimità del
traguardo. Il pubblico si aspettava un duello a due o in gergo ciclistico la “Volata
“o “SPRINT “. Niente, confabulano, si danno la mano, a pochi centimetri dalla
riga bianca il ligure Manfredi Samuele si lascia oltrepassare dal compagno di
squadra Acco Alessio toscano.
Martedì 20 giugno il Secolo XIX ha
dedicato una intera pagina (per chi
volesse saperne di più) a questo finale inaspettato, da film, da libro Cuore
(autori V. Arrichiello e G. Cimbrico).
Da alcuni miei appunti: W. Shakespeare (1564-1616) dissertando sulla FELICITA’:
“Mi sento sempre felice sai perché? Perché non aspetto niente da nessuno,
aspettare sempre fa male. I problemi non sono eterni, hanno sempre una
soluzione, l’unica cosa che non ha rimedio è la morte.
Non permettere a nessuno di insultarti, umiliarti o abbassare la tua autostima.
Le urla sono lo strumento dei codardi, di chi non ragiona. Incontreremo sempre
persone che ci considerano colpevoli dei loro guai, e ognuno riceve ciò che
merita. Bisogna essere forti e sollevarsi dalle cadute che ci pone la vita, per
ricordarci che DOPO il tunnel oscuro e pieno di solitudine, possono arrivare la
luce e cose belle. DOPO il male può arrivare il bene.”
Diamo un senso alla vita, senza
aspettare il DOPO, anche perché è molto corta, per questo va amata, vissuta
intensamente e ricordiamoci (come dicono i saggi):
Prima di
discutere………………..RESPIRARE
Prima di
parlare……………………ASCOLTARE
Prima di
criticare…………………..ESAMINARCI
Prima di
scrivere…………………..PENSARE
Prima di ferire……………………….SENTIRE
Prima di
arrendersi…………………TENTARE
Prima di
morire………………………VIVERE
La relazione migliore non è quella con una persona perfetta, ma quella nella
quale ciascuno impara a vivere, con i difetti dell’altro e ammirando le sue
qualità. Se vuoi essere felice, rendi felice qualcuno, se desideri ricevere,
dona un po’ di te. Manfredi Samuele ha detto di averlo fatto per amicizia e
perché Alessio correva sulle strade di casa, aggiungendo poi che ci sono altre
ragioni più importanti che un giorno sapremo. Era giusto che vincesse Alessio,
siamo felicissimi. Non me ne pentirò mai.
Nell’albo d’oro entra il nome di Acco
ma il gesto di SAMUELE è e sarà
nella storia delle due ruote. Una scelta che quasi stride in un mondo dello
sport governato dal “ Dio Denaro”.
Non è necessario correre basta arrivare.
Buona Estate a Tutti
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ANCHE SOGNARE E’ UN DIRITTO
di Un lettore
Anche il diritto a sognare è un diritto umano, e le persone migranti
questo diritto lo devono avere, così come i nostri ragazzi che sognano una vita
a Berlino o magari a New York, e comunque con un lavoro stabile. Ci vogliono
regole, ma ci vuole anche una grande alleanza, capace di partire dal
riconoscimento di quanto avvenuto per molti secoli prima con lo schiavismo e
poi con il colonialismo.
Si è mosso su questa falsariga l'incontro promosso a fine maggio a Sarzana,
nella sala "Barontini", dal gruppo degli "Amici di padre
Damarco". Il tema era già di per sé significativo: "Immigrati: il
futuro". In pratica, come a nome del gruppo promotore ha detto Egidio
Banti nell'introduzione, e come hanno ripetuto numerosi altri interventi, si
deve uscire dalla logica dell'emergenza, comprendendo come sia ormai
indispensabile un programma serio di accoglienza e di integrazione, capace di
non togliere nulla ai sogni e ai diritti degli italiani, ma di arricchire lo
scenario di un futuro mondiale davvero incerto per tutti.
L'incontro è stato coordinato da Anna Maria Vassale, ed ha visto i saluti
iniziali del sindaco Alessio Cavarra e dell'assessore Beatrice Casini, i quali
hanno descritto gli interventi del comune sarzanese per una crescente
integrazione. Sulla necessità di un approccio culturale diverso nei confronti
del tema dell'immigrazione ha poi insistito Sonia Paone, docente di sociologia dell’ambiente
e del territorio all'università di Pisa, allieva del noto urbanista e sociologo
Silvano D’Alto. Sonia Paone già da tempo collabora con gli “Amici di padre
Damarco” per realizzare condizioni di “lievito” nel contesto sociale della
Lunigiana ed in particolare della Val di Magra.
A sua volta, Francesca Angelicchio, avvocato spezzino specializzata nel diritto
dell'immigrazione, ha sottolineato le lacune presenti nell'attuale normativa e
i molti problemi che ne derivano.
Molto atteso era l'intervento di Daniele Montebello, sindaco di Castelnuovo
Magra e capofila di un progetto "sprar" per la Val di Magra. Gli
“sprar” (“servizio di protezione per richiedenti asilo e rifugiati”) sono
progetti che la legge mette a disposizione degli enti locali per superare,
almeno in parte, gli attuali "cas", ovvero i centri di accoglienza
straordinaria. Sigle complesse ed ostiche, “sprar” e “cas”: dietro di loro,
però, c’è il dramma di coloro che arrivano in Italia via mare, a rischio della
vita ed all’inseguimento di un sogno. Ed anche il dramma di chi li deve
accogliere ed inserire in contesti sociali spesso tutt’altro che favorevoli, e
comunque a fronte di innumerevoli difficoltà di carattere sia economico sia
burocratico.
Il progetto in Val di Magra, elaborato da Montebello e dai suoi collaboratori, dovrebbe
coinvolgere cinque comuni, eventualmente suddivisi in due gruppi, e partire già
nel prossimo autunno. Il sindaco, che ha parlato anche a nome di Paolo Pezzana,
sindaco di Sori e per lungo tempo coordinatore degli enti locali liguri in
materia di immigrazione, ha voluto ricordare le difficoltà affrontate dal suo
comune, come da altri, per le prime accoglienze dei mesi scorsi, sottolineando
però come l'impegno del volontariato ed il buon senso finiscano quasi sempre
per fare rapidamente giustizia di molte incomprensioni così come di pregiudizi
diffusi. Resta comunque l'esigenza di compiere passi avanti ulteriori, ed in
tempi il più possibile rapidi.
Sono seguiti numerosi interventi di rappresentanti delle associazioni che
operano sul territorio delle province della Spezia e di Massa Carrara.
Nelle conclusioni, Giorgio Pellitti - intervenendo per conto del gruppo
promotore - ha annunciato un prossimo intensificarsi dell'impegno culturale e
sociale volto a creare le premesse per una stagione diversa. "Anche quella
di Abramo nella Bibbia - aveva detto Banti all'inizio - è stata una migrazione,
male accolta dalle popolazioni autoctone della Palestina: partendo
dall'esperienza di un prete come Damarco, che sapeva parlare a credenti e non
credenti, c'è lo spazio per compiere anche oggi dei passi avanti".
Damarco, in effetti, negli anni del dopo Concilio, insieme a moltissime altre
attività di dialogo e di confronto, aveva promosso e coordinato tra Sarzana e
l’Olmarello iniziative collegate all’”amicizia con i popoli nuovi” e a Mani
Tese.
Quell’associazione, “Mani Tese”, un cui poster di quel tempo presentava figure
stilizzate di uomini e donne africane, con una scritta dell’abbé Pierre:
“Un giorno le loro voci si leveranno come un tuono”. Quel giorno, se già non è
arrivato, sembra però ormai vicino, nel mondo della globalizzazione e delle
nuove, tante ingiustizie. Per questo, a cominciare dalla nostra Val di Magra,
sembra davvero tempo di rimboccarsi di nuovo le maniche.
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IL MAGGIO
di Paola Vitale
Questo ultimo mercoledì, con
cui si chiude il mese di Maggio, ci ha visti radunati in folto numero, sulla
bella collina di Ortonovo, presso il Santuario di N.S. del Mirteto.
Maria SS. è stata amata ancora con il S. Rosario iniziato nella Parrocchiale di
S. Lazzaro e da lì, partendo colle fiaccole accese, dietro la Croce sostenuta
dai seminaristi per poi risalire l’erta che porta all’entrata del Santuario.
Ha celebrato la S. Messa don Franco
Pagano, direttore del Seminario di Sarzana, con i padri missionari di Maria e
numerosi sacerdoti, alcuni dei quali si sono posizionati per le confessioni.
Il bell’organo e un discreto coro hanno reso più intensa e solenne la
celebrazione che ha visto partecipare le famiglie con giovani e bambini e
numerosi anziani, assieme ai gruppi provenienti dalla pianura sottostante in
rappresentanza delle rispettive parrocchie.
Dopo la benedizione solenne, lo spettacolo del panorama, fitto di luci nella
notte, e la luna a metà, su in alto, hanno completato la serena gioia di questo
ultimo incontro nel mese di maggio.
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Dopo la Teresina di Doré, Poldo, l’asino di mio nonno Bozo
di Romano Parodi
Correva l’anno venti del secolo scorso, mio padre aveva
sette anni.
Il nonno, mezzadro dei Bianchi, coltivava dei campi a Caffaggiola, vicino
all’odierna Chiesa nuova. A quei tempi, case, laggiù, non ce n’erano.
Oggi sembra assurdo ma nessuno voleva
abitare al piano, preferivano i boschi, e anche quando ereditavano, preferivano
i piccoli appezzamenti nei dintorni del paese. Mio nonno, con l’aiuto dei
Bianchi, aveva comprato un asino, molto utile a portare a Ortonovo i frutti
della terra e il foraggio per le due vacche che aveva nella stalla. Quel giorno
c’era anche mio padre a Caffaggiola. Finito il lavoro la prima a partire per il
rientro, fu mia nonna Marì con la figlia grande, solo in un secondo tempo mio
nonno con l’asino.
Entrambi credettero che il bambino fosse con l’altro. Quando mio nonno arrivò a
casa, e portò l’asino nella stalla, la nonna gli chiese: “Adelio dov’è”.
“E’ venuto a casa con te, no!”. “Disgraziato, t’ dà lascià ‘n pian”.
Il poveretto, dovette ripartire subito, e di corsa, perché era già buio. Ma
ecco che, mentre scaricavano l’asino dalle foglie di granturco, il bimbo si
svegliò e si affacciò al corbello. E
allora la figlia si precipitò a rincorrere il padre: era già arrivato a Casano. Giù, al campo, il ragazzo, era entrato dentro
il corbello già posto sul basto in attesa del rientro, e si era addormentato
sul fondo. Quando il nonno caricò i fuscelli di granturco e lo coprì, non lo
vide, e il ragazzo continuò a dormire come un ghiro, in fondo al corbello,
insensibile agli scossoni, lungo tutto il ciottolato della Montata.
Un’altra volta ai Carisciari arrivò un cane a infastidire le mucche al pascolo,
ma Poldo gli dette due potenti calcioni, e quello, tutto ammaccato fuggì guaendo
dolorosamente. Poldo era sempre presente nei discorsi di casa anche perché
faceva un mucchio di dispetti, “T sen d’sp’toso come Poldo”.
Bisognava fare molta attenzione perché rovesciava sempre il pastone delle
vacche e il secchio del latte nella stalla e se avevi un cappello cercava di
prenderlo. Quando Poldo era già un po’ vecchio, decisero di venderlo. Mio nonno
lo portò a san Remigio e riuscì a trovargli un acquirente che abitava a
Caniparola. Ma passarono un paio di giorni ed ecco che lo ritrovarono fermo
davanti alla porta della stalla. Era fuggito ed era riuscito a ritrovare la via
di casa. Dovettero riportarlo dal suo nuovo padrone. Questi episodi lì avrò ascoltati decine di
volte. Ma, anche se era dispettoso, lo trattavano bene, al punto che non lo
caricavano mai in maniera eccessiva, perché… raccontavano: - C'era una volta un
padrone che teneva nella stessa stalla un cavallo ed un asino. Benché fosse
affezionato in egual misura ai due animali, il cavallo, che trainava anche il
calesse, riceveva cibo migliore dell'asino, il quale svolgeva lavori più umili.
Quando il fattore portava le merci al mercato, caricava molto di più l'asino
rispetto al cavallo che si vantava di essere più nobile e quindi di avere
diritto ad un trattamento migliore. Via via che passava il tempo, mentre il
cavallo era sempre bello e imponente, l'asino diventava sempre più magro e
debole. Finché un giorno, durante il tragitto verso il mercato, l'asino disse
al cavallo: "Non ce la faccio più,
oggi sono più debole del solito! Se non tolgo un po' di peso dal mio carico non
riuscirò ad andare avanti! Per favore, aiutami a trasportare i sacchi!"
Il cavallo, che era sempre stato altezzoso nei confronti dell'asino, rispose:
"Tu sei un animale da soma, quindi
devi portare più peso rispetto a me". Il povero ciuco avvilito
continuò il suo cammino finché, con la lingua di fuori e gli occhi stravolti,
si fermò di nuovo: "Ti prego, se non
mi aiuti, non arriverò vivo al mercato!". Ma il cavallo, senza
degnarlo di uno sguardo, gli rispose: "Su,
su, coraggio! Ce la farai da solo anche questa volta!". Invece
l'asino, fatti pochi passi, cadde a terra morto. Il padrone che seguiva le
bestie, quando vide la scena corse tutto trafelato e disse: "Povero asino, mi hai servito
fedelmente per tanti anni, senza costarmi niente. Avevi imparato a mangiare
solo erba, poca biada, niente pastoni, e ora sei morto. Forse non dovevo
esagerare nel caricarti!".
Poi, rivolto al cavallo disse: "Adesso
dovrai fare tu il lavoro dell'asino”, e lo caricò di tutti i sacchi. “Forse era meglio se lo aiutavo” ….pensò il cavallo.
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