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IL “DOPO”
di Augusto Gianfranchi
Sono banalità, io lo
sapevo, è come scoprire l'acqua calda, io ci penso spesso e così via... sono
pensieri che quotidianamente percorrono la nostra mente, ma nel momento di una pausa di riflessione
spesso andiamo nel PANICO. Senza alcuna pretesa
di modificare le cose, ma per entrare nel vivo di questa mia considerazione,
con riferimento ai momenti di delusione, di sconforto, di malinconia, che ci
assalgono quasi ogni giorno, vorrei richiamare l'attenzione dei lettori a cosa
è, come usiamo, come abbiamo usato, o come sarebbe meglio usare il “TEMPO” che
ci è stato donato fin dalla nostra nascita. A tal proposito,
trasmetto al “Sentiero” questo “virgolettato”, tanti lo conoscono, tanti no,
quindi riflettiamo:
“Il tempo non si
trattiene, la vita è un compito da fare che ci portiamo a casa.
Quando uno guarda già
è sera,
quando uno guarda già
è venerdì,
quando uno guarda già
è finito il mese,
quando uno guarda già
è finito l'anno,
quando uno guarda già
sono passati cinquanta o sessant'anni,
quando uno guarda già
non sappiamo più dove vanno i nostri amici,
quando uno guarda
perdiamo l'amore della nostra vita, e adesso è tardi per tornare indietro...
Non smettere di fare
qualcosa che ti piace per mancanza di tempo,non smettere di avere
qualcuno accanto a te perché i tuoi figli, subito o quasi, non saranno più solo
tuoi e dovrai fare qualcosa, con questo tempo che resta in quanto l'unica cosa
che ci mancherà sarà lo spazio che solo si può godere con gli amici di sempre,
questo tempo che purtroppo non torna più.
Bisogna eliminare il
“dopo”:
dopo ti chiamo;
dopo lo faccio;
dopo lo dico;
dopo lo cambio...
Lasciamo tutto per il
dopo come se il dopo fosse il meglio perché non capiamo che:
dopo il caffè si
raffredda;
dopo la priorità
cambia;
dopo l'incanto si
perde;
dopo il presto si
trasforma in tardi;
dopo la malinconia
passa;
dopo le cose
cambiano;
dopo i figli
crescono;
dopo la gente
invecchia;
dopo il giorno viene
la notte;
dopo la vita
finisce...
Non lasciare niente
per dopo, perché nell'attesa del dopo puoi perdere i migliori momenti, le
migliori esperienze, le migliori amicizie, i migliori amori... Ricordati che il dopo
può essere tardi, il giorno è oggi, non siamo nell'età più di posticipare
niente...” Magari avrai tempo
per leggere e condividere questo messaggio, o altrimenti lascialo per il dopo.
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“L’ARTE” CI SALVERA’ ?
di Millene Lazzoni Puglia
La crisi economica di questi
inizio secolo e millennio con la conseguente disoccupazione non è certo una
novità: ricordo di aver sentito parlare della crisi di quasi un secolo fa (una
delle tante), quando non ero ancora nata, però è stata vissuta pesantemente
dalla mia famiglia, perché mio padre era stato uno dei tanti disoccupati.
In quegli anni trenta, quando la maggior parte del lavoro era nell’agricoltura
mezzadrile, esistevano anche gli operai delle prime grandi fabbriche e gli
artigiani autonomi. Mio padre Sante, che faceva il muratore, era uno di questi
ultimi, ma con l’edilizia quasi ferma non era facile trovare lavoro. Per
fortuna con mia madre coltivava un piccolo uliveto, che non bastava per “sopravvivere”,
avendo anche un figlio da crescere. Così spesso al mattino con la sua
bicicletta partiva da Caniparola alla ricerca di un cantiere con dei lavori in
corso. Questi erano piuttosto rari, ma dove ne trovava uno, chiedeva se
avessero bisogno di un muratore: la risposta era sempre negativa. I luoghi
della ricerca erano i soliti: Sarzana e dintorni, a volte si spingeva anche
lungo la strada per La Spezia, specialmente verso Lerici.
E fu proprio in quella zona che mio padre s’imbatté dove stavano costruendo dei
muri di pietre intorno ad una villa. Si fermò per fare la solita domanda:
“Avete bisogno di un muratore?” Gli fu risposto con un’altra domanda:
“Sapete lavorare con le pietre?” Alla
risposta affermativa, gli fu chiesto di mettersi alla prova. Cosa che mio padre
non si fece ripetere due volte e con la solita buona volontà e competenza che
lo distingueva, si mise subito all’opera.
Di solito quelle uscite mattutine alla ricerca di lavoro duravano poche ore con
il ritorno a casa segnato dalla delusione. Ma quel giorno non andò così. Mia madre Argentina si
preoccupò moltissimo non vedendo tornare il marito per tutta la giornata. Purtroppo allora non c’erano i cellulari come adesso, quindi era difficile
comunicare, se non impossibile. Mio padre, dopo una giornata di lavoro, tornò la sera stanco e soddisfatto. Lui conosceva l’arte dei muri a secco tipici della Liguria e quella mattina
ebbe la fortuna d’incontrare persone in grado di apprezzarla e di dargli il
lavoro che non si fece scappare. Così una delle tante giornate difficili di
quel tempo si rilevò entusiasmante, perché con il lavoro che, per fortuna,
continuò anche nei giorni successivi anche in altri cantieri, la famiglia trovò
più serenità oltre che stabilità. Temo che il lavoro manuale e artigianale oggi sia sottovalutato e messo
all’angolo. Si sa che in questa nuova epoca la tecnologia è una vera “rivoluzione”,
paragonabile a quella industriale dell’800.
E’ una cosa straordinaria e meravigliosa, dalla quale, ormai, tutti noi
dipendiamo. Tuttavia sarà triste quando le nuove leve di giovani si renderanno conto che le
loro preziose mani sapranno soltanto premere pulsanti e digitare sui vari
modelli di cellulari e computer che hanno fatto sparire tanti mestieri manuali
e ridotto le opportunità di lavoro.
Caniparola, 2017
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Cara mamma
di Una figlia
Cara mamma,
mi manchi tanto,
soprattutto ora, in questo felice periodo, così importante per il mio bambino :
il giorno della sua prima comunione. Avrei bisogno dei tuoi consigli, del tuo
sostegno, del tuo amore. Io faccio parte di te e la tua morte equivale alla
morte di una parte di me. E quel giorno ci sarà un vuoto.
So quanto ci tenevi ma in qualche modo ci sarai. Sei sempre nei miei
pensieri, non c’è giorno che non ti ricordi e sono sicura che un giorno ci
rincontreremo. Spero di essere per i miei figli un esempio come lo sei stata tu per me.
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Dal Brasile- Abracos a todos amigos- parentes. Jacy Pietra
di Romano Parodi
Caro
amigo Parodi
Ti
ringrazio molto del libro che mi hai inviato e ringrazia l’autore, Massimo
Marcesini, della dedica. Che emozione leggere, seppur con molta difficoltà, di
mio nonno Fioravanti. Sapere che ha fatto due anni di carcere a Noto. Sono
subito andata a vedere dove si trova. Addirittura in Sicilia. Mio Dio… aveva
una moglie e una figlioletta…!
Vuoi
sapere di questa bambina? Si chiamava Leonice, ed era mia zia.
Fioravanti Pietra e Margherita Gianetti, nata a Cassano (Fivizzano), ma
abitante a Fossola di Carrara, avranno, in seguito altri sette figli.
Dopo Leonice, nata a Ortonovo nel 1891, Gilberto (Gisbé) 1897 (a lui
abbiamo intitolato il 5° INCONTRO FAMILIA PIETRA), Alfredo (Alfré, padre
della Simone, venuta a Ortonovo) 1899, Giacobbe (G’iacò, mio padre) 1901,
Vilma 1903, Alceste (Alcè) 1905, Dirce 1908, Maria Ifigenia 1914.
Oggi, quando, una volta l’anno ci riuniamo, siamo più di cento.
Mio
nonno era un imprenditore edile. Aveva molti dipendenti. Costruì anche il
tribunale di Belo Horizonte ed è nominato nel libro dei fondatori della città,
come construtor e mestre-de-obrass. Una città che nella
grandissima festa del centenario del 1997, cento anni dopo il suo arrivo, da
piccolo villaggio, è diventata la capitale di Minas Gerais, e terza città del
Brasile, con 4 milioni di abitanti, cinque volte Genova, la città da dove era
partito nel1886.
Leonice
era una bellissima donna, mite e tranquilla, tutta dedita alla famiglia: anche
da ragazza fece da mammina a tutti i suoi fratelli. Sposò Pepe Fabrini.
I Fabrini erano una famiglia molto nota, anche loro imprenditori edili, hanno
avuto anche un sindaco della città. Erano arrivati insieme, dopo tre mesi di
navigazione e di viaggio, con la medesima nave. Il 30% della popolazione Belo
Horizzonte e di origina italianos
Avranno
sei figli: Norma, Josè, Trieste, Ivan, Jone, Jlden.
Norma,
la sua primogenita è diventata oggi il punto di riferimento di tutta questa
grande famiglia per moltissimi anni: è lei che organizzò gli incontri annuali
dei Pietra, oggi un rito inderogabile.
Leonice,
è morta nel 1982, aveva 91 anni, “sem
sofrimento prolongado”.
(La
lettera è molto più lunga, purtroppo…. è scritta a mano…e in portoghese).
La
Jacy, docente universitaria in pensione, mi ha inviato anche l’album
genealogico della famiglia. Un librone di 100 pagine, con centinaia di
fotografie, comprese quella di Fioravanti e Margherita, italianos, con questa stupenda frase latina: “igenia hominum loco rum situs format” (è il paese natio che forma il carattere di un uomo). Bello,
bellissimo!!! con un’introduzione di quattro pagine (tutte, ohimé, scritte a
mano: spero, queste poche righe, di averle copiate giuste).
Ha
una bellissima prima pagina patinata con la Lanterna, simbolo di Genova, logo
della famiglia. (Ortonovo, allora, era in provincia di Genova). (Ho scritto
loro di sostituirla con la torre di Guinigi, ho fatto bene?).
Una curiosità, un giorno alla tv c’era questo quiz: Dove si trova il cielo più
azzurro del mondo. Risposta esatta: Belo Horizonte.
“La
perseveranÇa do tempo sobre o homen, torna-o-en velhecido.
Se o homen persevera sobre o tempo, de
teni sua velhice e torna-se un eterno jovem”...
Recordar
o bem recebido è fazer-se merecedor de tudo quanto amanhã possa nos ser
brindado. Não esquecam que, quando um pai dà um conshelo, è purque jà viveu
tudo o que esse conselho encerra e que, ao nexpressà-lo, quer evitar ao filho o
que para ele foi motivo de sofrimento ou causou-lhe danos... (col
computer, io l’ho tradotta così, mah...)
Col
passare del tempo l’uomo diventa vecchio. Se, invece, persevera con la sua
vita, tiene ferma la sua vecchiaia e continua a essere un eterno
giovane, ...
Ricordare
il bene ricevuto è renderlo degno di tutto ciò che domani può essere blindado (rafforzato, consolidato...).
Non
dimenticare che quando un padre insegna a vivere è perché ha già vissuto questa
esperienza (motivo de sofrimento)
che, a lui, ha causato danni.
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Gli Amici del Giacò
di I volontari dell' Associazione
Già da diversi anni
l’Associazione di volontariato “Gli Amici del Giacò” organizza al termine
dell’anno scolastico una cena di beneficenza, per raccogliere fondi a favore
dell’Istituto Comprensivo di Ortonovo.
l’intero incasso viene quindi suddiviso per tutte le scuole del nostro
territorio, di ogni ordine e grado, e le insegnanti possono usufruirne per
acquistare ciò che è necessario per i propri alunni.
La serata sarà allietata da momenti musicali a cura dei bambini dell’infanzia,
della primaria e della scuola media (classi ad indirizzo musicale) a partire
dalle 18:30.
Quest’anno la cena si terrà il 17 giugno alle ore 20:00, presso il tendone di
Colombiera a Castelnuovo Magra.
Menù:
Penne
ragù, arista di maiale, patatine fritte, torta al cioccolato, acqua, vino,
coperto.
Prezzi:
adulti 15 euro; ragazzi primaria e media 10 euro; bambini infanzia 5 euro
Tutta la comunità è
invitata a partecipare.
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La festa di Sant’Antonio da Padova al Bondano
di Giuliana Rossini
Sant’Antonio da Padova non è
il patrono della piccola frazione di Marina di Massa, il Bondano, dove io ho
abitato fino alla mia prima giovinezza. Patrona è la Vergine Maria, nel giorno
della sua natività. Ma il Santo si è conquistato, sul campo, la stima,
l’affetto e la riconoscenza di tutta la popolazione, sì che la sua festa, che
ricorre il 13 giugno, è una delle più importanti e popolari del luogo. Il suo
culto vi è stato introdotto da un frate cappuccino, Padre Gaetano, uomo
generoso, ricco di umanità e morto in odore di santità nella prima metà del
secolo XX. Egli, divenuto anziano, si era ritirato al Bondano quale rettore
della piccola chiesa gentilizia dei conti Ceccopieri Maruffi, attorno alle cui
proprietà ruotava la vita della piccola comunità.
Nell’imminenza della prima guerra mondiale, furono molti i giovani del luogo
che dovettero partire per il fronte, fra la desolazione generale. Padre
Gaetano, allora, prese un pezzo di carta e, alla presenza di tutta la
popolazione, vi scrisse i nomi dei coscritti e, dopo avere impetrato la
protezione del Santo con viva fede, lo depositò in una fessura della statua.
Mio padre, allora, non abitava ancora lì, ma a Filattiera di Pontremoli ed era
un po’ più giovane dei partenti, ma conosceva bene il religioso, che si era
preso cura di lui e dei suoi fratelli, in seguito a dolorosissime vicende
familiari.
Ritengo che il suo nome, insieme a quello di altri come lui, fosse stato
aggiunto all’elenco in seguito, quando, dopo la rovinosa sconfitta di
Caporetto, venne chiamato al fronte come uno dei “gloriosi ragazzi del 99”
(come egli amava ripetere) che diedero un valido aiuto nel rovesciare le sorti
del conflitto.
A guerra terminata, tra l’emozione degli abitanti, venne estratto dalla statua
il famoso elenco e grandi furono la gioia e l’entusiasmo nel constatare che
proprio tutti i giovani erano tornati a casa sani e salvi e avevano potuto
riabbracciare i loro familiari e, tra loro, anche mio padre.
Fu chiaro e universalmente sancito fra i presenti che si trattava di un
miracolo del taumaturgo da Padova che, da allora, godette di affetto e cure
particolari da parte della comunità e il giorno a lui dedicato divenne un
momento di ringraziamento e di grande festa generale.
Diversi anni dopo, la mia famiglia, sempre grazie all’amicizia e
all’interessamento di Padre Gaetano, venne ad abitare proprio accanto alla
chiesetta gentilizia, e anch’io, come le mie sorelle e le amiche del vicinato,
mi sono trovata a partecipare ai preparativi della popolare festa in prima
persona. Dapprima dovevamo badare alla pulizia dell’edificio religioso. In
particolare mi ricordo la cerimonia della lucidatura degli alti ed imponenti
candelabri di ottone che ornavano l’altare, sotto la guida attenta dell’anziana
contessina Giulia che dirigeva tutte le operazioni. Ma quello che ci piaceva di
più era andare presso le famiglie del posto, abbastanza povere in verità (ma
ognuno dava quello che poteva) a raccogliere i doni per la lotteria.
Nel frattempo adocchiavamo i fiori dei diversi giardini per chiederli poi alle
proprietarie, per adornare la statua del Santo e spargere i petali lungo le vie
in cui sarebbe passata la processione. Inoltre non mancavamo mai alla novena
serale che rappresentava, per noi ragazze, la possibilità di fermarci poi, a
funzione terminata, a giocare una mezz’oretta nella piazzetta adiacente alla
chiesa. E finalmente arrivava il
giorno della festa. Dava inizio alla giornata la messa solenne cantata dal coro
locale (la “Messa degli Angeli”) con l’organista che suonava ad orecchio ed il
padre predicatore che veniva da fuori. Ma l’evento per noi più importante era
la processione, che iniziava subito dopo, e passava per le varie stradine del Bondano.
Aprivano il corteo le bambine con l’abito bianco della Prima Comunione e con in
mano il giglio bianco che, immancabilmente, macchiava di giallo il candido
abitino e alcuni deliziosi angioletti che spargevano sulle strade i petali di
rose. Poi venivano le giovani e le donne in due file ordinate che rispondevano
alle preghiere e, dietro, il Santo portato a spalla dai robusti giovani su un
ampio baldacchino, addobbato sempre con gigli bianchi e circondato da vari
presbiteri con i paramenti della festa, infine, tutta l’altra folla. Chiudeva
il corteo la banda musicale che scandiva con ottoni, tamburo e piatti, il ritmo
delle canzoni della devozione popolare che noi cantavamo a squarciagola.
Sant’Antonio, vestito con saio marrone, teneva in braccio Gesù Bambino e
nell’altra mano un giglio e sembrava molto soddisfatto del culto a lui dedicato
e, in genere, in quel giorno, si respirava un’atmosfera di gioia e serenità. Il mio matrimonio mi ha portata lontana, in modo pressoché definitivo, dal
piccolo centro abitato. Sono ritornata al Bondano pochissime volte, soprattutto
in occasione di funerali. Non posso negare di essere rimasta un po’ delusa: non
è più il paesino con tanti prati dove scorrazzavo durante la mia infanzia, vi
sono tantissime case e la chiesetta mi è parsa più piccola di come la
ricordavo. Certo le cose cambiano, anche quella fede popolare, un po’
superficiale e un po’ basata sull’ignoranza, non c’è più. Non che io la
rimpianga, anzi! Però adesso le chiese sono sempre più vuote, la gente è
attratta da altri “templi”, dove falsi profeti incitano ad un consumo smodato
(“compra e sarai più felice!”) e alla libertà più sfrenata (“la vita è tua e
puoi farne ciò che vuoi!”). Devo dire che sento un po’ di nostalgia per la semplicità e la leggerezza di un
tempo, anche se appesantite da fardelli e freni eccessivi che, una volta adulta
ho vissuto come una cappa soffocante che ho fatto di tutto per scrollarmi di
dosso, andando incontro anche a grossi errori. C’era bisogno di aria nuova (la
novità del Vangelo!!). Per fortuna oggi quest’aria c’è e noi laici abbiamo
capito l’importanza del nostro ruolo all’interno della chiesa e che, se viviamo
veramente il Vangelo, possiamo essere luce del mondo e sale della terra e
illuminare e dare un senso ad un mondo tanto confuso e disperato.
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ROCCA di PAPA – ROMA
di Marta
Tantissimi anni fa, quando
Doretto lavorava ancora all’OTO MELARA, un gruppo di persone tra operai e
dirigenti di quel tempo avevano aderito al movimento dei Focolarini, un
movimento della chiesa capeggiato da Chiara Lubich. Dorè e altri osservatori
deciso di organizzare un periodo di dieci giorni di apprendimento a Roma,
precisamente a Rocca di Papa, sede del movimento dei focolarini, per seguire la
parola del Signore come Chiara predicava: “Gesù abbandonato”.
Questo gruppo, in piena accoglienza verso il prossimo, trovava la gioia nello
stare insieme, senza nessuna distinzione; il dottore, il professore,
l’ingegnere erano tutt’uno con operai, panettieri e muratori.
Tra questa corrente mistica capitavano anche degli aneddoti faceti, “come
quella volta…” che Dorè mi raccontò:
Erano arrivati a Roma in un pullman pieno, più di sessanta persone. Dopo che
furono nei loro alloggi, si presero gli accordi per i vari temi che in quei
dieci giorni avrebbero dovuto svolgere; inutile dire che i programmi erano
copiosi, un susseguirsi di argomenti vari ed interessanti. Doretto divideva la
camera con l’amico Rossi che gli disse: “Io qui a Roma ho un parente che non
vedo da tanto tempo, mi piacerebbe andare a trovarlo, se possibile senza
perdere nessun convegno. Andrò nell’ora della cena e rientrerò prima di
mezzanotte”. Doretto a questo proposito si raccomandò di rientrare prima di
quell’ora dato che, essendo in un convento, a mezzanotte avrebbero chiuso il
portone principale. L’amico rispose che sarebbe rientrato in tempo ma che in
caso avrebbe chiamato Doretto dalla finestra, che affacciava sulla piazza.
Quella sera stessa, Rossi andò. Doretto, dopo aver cenato e parlato un po’ con
gli amici, salutò e andò a dormire.
Ma alle due di notte nel convento ci fu un certo fermento. Infatti da fuori,
nella piazza, vi era qualcuno che chiamava “LORETO”, inizialmente piano.
“Doretto“ un po’ più forte. “Doretto!!!” infine gridando… ma Doretto non udiva,
nemmeno una cannonata lo avrebbe svegliato. Nella piazza si accesero una dopo
l’altra diverse luci, poi qualcuno si affacciò e disse “Ma che ti gridi!
LORETO! LORETO! A quest’ora vai a cercare il pappagallo? Mortacci tua! Te
possino caricà te!” Si svegliò tutta la piazza, si svegliò anche il convento e
il povero Rossi si era ritrovato con un sacco di patate, pomodori e ciabatte
che la gente arrabbiatissima gli aveva lanciato dalle finestre…. e di Doretto
neanche l’ombra.
Il mattino dopo a colazione misero Doretto al corrente dei fatti e lui, con il
più candido dei sorrisi, si scusò e aggiunse “…ma io…che colpa ne ho!
Dormivo!”.
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Fiorella
di Paola G. Vitale
Spirava sempre un po’ di
brezza sul torrione dove nonna Iduina teneva i suoi conigli.
Io la seguivo docile, chiudendo con cura il piccolo cancello dietro di me, e
poi, nel tempo dei frutti, mi riempivo furtivamente le tasche, di dolci
zizzole.
“Lasciale stare, non voglio sentire i rimbrotti di tua madre “ ripeteva la
nonna. “Replicavo io placida; “le darò tutte a Fiorella!”.
La mia cara amica abitava su, in cima allo stabile, al di la del grande muro
ricoperto dall’edera ; spesso ci salutavamo dalla finestra.
Lei sembrava un puntino festoso, sullo sfondo di quella grande finestra nera,
che io immaginavo si aprisse su uno stanzone scuro scuro. Ma un giorno
d’inverno, finalmente salii io da lei e scoprii una vasta cucina accogliente,
dove una grande stufa in terracotta faceva bella mostra di se e tanto calore.
Passammo il pomeriggio giocando a nascondino lungo i corridoi, fra gli armadi a
muro, le cassapanche antiche e il grande attaccapanni carico di sciarpe e di
ombrelli.
In seguito mio papa fu trasferito per lavoro in un bel paese sotto Firenze ed
io ricominciai faticosamente a cercarmi una amicizia sincera.
Trovai prima le zizzole, dal fruttivendolo davanti a casa.
Le chiamavano giuggiole e mi ricordavano tanto la mia amica Fiorella e la nonna
lontana
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