N° 3 - Marzo 2017
Storie dei lettori
  LE GRAFFIATURE
di Antonio Ratti


               

                            

Saranno sicuramente le potenze politiche, economiche e militari mondiali, potranno dall’alto della loro prepotente arroganza autoproclamarsi esempi di democrazia, ma nella realtà sono le più efficaci massacratrici dei diritti umani. I minatori cinesi sono carne da macello: basta ricordare l’annuale numero di vittime - e sono solo quelle che ci fanno sapere - degli incidenti dentro le miniere che, forse in epoca romana, erano più sicure, nonostante la tecnologia fosse molto empirica e limitata, ma gli schiavi erano un valore economico da salvaguardare.
E il permanente smog inquinante che uccide lentamente divorando i polmoni? Ma bisogna produrre a basso costo per invadere il commercio mondiale, quindi la salute delle persone - ne hanno anche troppe- e il degrado dell’ambiente sono meri disvalori da trascurare in toto. E’ di questi mesi il permesso del Governo alle famiglie cinesi di poter concepire un secondo figlio: è difficile immaginare l’ampiezza del fenomeno dell’aborto clandestino o imposto dalle autorità di controllo sulla natalità nei decenni passati. Il nuovo presidente degli USA chiude con la forza le frontiere agli islamici e ai messicani discriminandoli e annulla, in modo pacchianamente plateale, come primo atto presidenziale nella Stanza ovale, quell’embrione di “stato sociale sulla sanità” attuato a fatica da Obama, perché ciò che non produce è inutile e va eliminato, quindi chi “ne ha” ha il diritto di vivere, mentre chi  “non ne ha”  prima toglie il disturbo, meglio è. E’ di questi giorni ( 27 gennaio ) l’annuncio che la Duma ( Camera bassa del Parlamento russo) con triplice votazione ha depenalizzato le violenze che avvengono nell’ambito domestico, perché uno Stato di diritto e democratico non può interferire d’ufficio nelle problematiche familiari, semmai deve essere la vittima a denunciare e dimostrare la gravità degli eccessi e i danni permanenti, in quanto il crimine rientra nell’ambito delle “azioni giudiziarie private” dove spetta alla vittima raccogliere le prove, denunciare gli abusi e chiedere giustizia.
La legge stabilisce che non sono più un reato le aggressioni da parte di familiari che provocano dolore fisico e lasciano lividi e graffi. Le aggressioni ripetute e continuative, se denunciate e documentate, ma senza danni permanenti, saranno punite con una sanzione amministrativa pecuniaria da 30 rubli (0,0156 x 30 = 0,468 euro) a 30 mila (470 euro), oppure il colpevole potrà essere assegnato ai servizi socialmente utili da 60 a 120 ore.
La violenza domestica rimane un crimine penalmente punibile con un massimo di 2 anni di carcere, solo nel caso in cui venga reiterata più volte nel medesimo anno e sia, a giudizio del magistrato, motivata da odio e teppismo. Adulti e minori sono sullo stesso piano, in quanto i ceffoni sono ritenuti dalla tradizione culturale russa un efficace metodo educativo.
Il presidente russo, nella conferenza stampa di fine anno, ha dato il suo assenso all’approvazione di detta legge, sostenendo che la palese ingerenza nella famiglia da parte della giustizia è intollerabile.  Questa legge, detta “Legge degli schiaffi”, che nelle intenzioni dei due promotori vorrebbe essere un incoraggiamento alla formazione di nuclei familiari più stabili e duraturi, in realtà è un bell’incoraggiamento ai tiranni di casa che sentono legittimati i loro abusi e le loro barbare abitudini. E’ di oggi (3 febb.) la notizia che l’ennesimo oppositore al regime democratico ha subito una misteriosa e gravissima aggressione: è in serio pericolo di vita per avvelenamento. Ma non è il primo. In poche righe ho cercato di evidenziare il concetto di diritti umani di un super miliardario d’oltre oceano e di un ex capo del KGB della vecchia URSS. La Cina, poi, è un mondo fuori dal mondo. Qualche domanda. I diritti umani non dovrebbero essere più rispettati all’interno della famiglia, la quale dovrebbe avere nell’amore la ragione fondante? (Non dimentichiamo che noi italiani siamo tutt’altro che immacolati) Quali princìpi morali ispirano chi si sente degno e all’altezza di governare il mondo? Con simili personaggi possiamo sentirci tranquilli del presente e del futuro? Sbaglio se, come più volte ho scritto, affermo che ci troviamo di fronte ovunque ad una pesante regressione da homo sapiens ad homo abilis?  La china intrapresa è estremamente pericolosa, poiché non si distinguono più i valori assoluti (diritti umani, diritto alla vita, diritto all’autodeterminazione dei popoli) da quelli relativi legati agli’interessi di parte (vedi Ucraina, Crimea, sparizione dei dissidenti, muro messicano, il potere per il potere). Quanto sopra non ha nulla a che vedere coll’essere cristiani o no, ma con l’essere intelligenti o no, cioè aver capito che per il vero bene comune (espressione così ipocritamente abusata da diventare una bestemmia se pronunciata da certe bocche) si deve fare agli altri solo ciò che si vuole venga fatto a noi.
Niente di più è richiesto per incominciare a mettere un po’ di ordine in questo povero Pianeta dominato da “diversamente folli.” Manca solo, ahimè, la volontà e la convenienza dei soliti noti, che a tutti i livelli perderebbero i propri ingiusti profitti.


  UN ANTENATO “ FORZUTO”.
di Millene Lazzoni Puglia



Ecco una storia familiare interessante non soltanto per i miei nipoti, ma spero che possa arrivare all' animo di tutti parlando del fratello del mio bisnonno paterno.  Vissuto alla fine dell'Ottocento, era dotato di una forza fisica fuori dal comune, tanto che il suo pugno veniva considerato “proibito”, avrebbe potuto uccidere una persona senza difficoltà.
Aveva un sogno, quello di prendere in gestione un'osteria in città; trovò il denaro occorrente vendendo una casa di famiglia a Caniparola in via Montecchio (ad est del frantoio “Moro”) ricavando ben 500 lire.
L'acquirente era stato il fratello in occasione delle nozze della figlia Pietrina Gandolfi con Giuseppe Lazzoni, vale a dire i miei nonni paterni.
Quel signore “forzuto” si chiamava Gandolfi Innocente, detto “Nocè”.  Fu così che nell'ultimo decennio del secolo realizzò il suo sogno prendendo in gestione un'osteria a Sarzana ed entrando a far parte degli “Osti” della città.
All'epoca erano di gran moda le osterie dove si beveva soprattutto vino, si mangiavano cibi semplici e poveri come le torte di verdura, di farro, la trippa, lo stoccafisso e il baccalà.
La carne era un lusso, per questo, a grande richiesta, si cucinavano anche i gatti.
Gli ultimi felini a Sarzana furono “cotti e mangiati” nell' ultimo dopoguerra fino agli Anni Cinquanta quando nella città vecchia, denominata “carobi”, i gatti abbondavano in quanto si nutrivano dei numerosi topi che lì trovavano il loro spazio ideale.
L'osteria di Nocè si trovava proprio nel centro storico, in Piazza Calandrini detta “Piazzuletta” (angolo Via Cattani).
In quel luogo c'è sempre stata un'osteria dove si mangiava e si beveva, dove gli uomini spesso si ubriacavano e le donne non potevano entrare fino al Novecento inoltrato.
L'ultima è stata gestita proprio da una donna detta “Froletta” e risale agli anni '70, poi nel decennio successivo ci fu la svolta con il tramonto delle osterie e la nascita dei nuovi locali con arredi moderni, cibi ricercati, bevande colorate di mille qualità.
Il vino è rimasto, ma come bevanda di lusso in costose bottiglie dall'etichetta spesso prestigiosa.
Così è stato anche per l'osteria di Piazza Calandrini che negli anni Ottanta è diventata uno di questi locali gestito da giovani provenienti dalla scuola alberghiera, rinnovato nella forma e nella sostanza con il nome di “Simon Boccanegra”.
E' trascorso oltre un secolo da quando “Nocè” realizzò il suo sogno ed anche in quel lavoro, apparentemente non faticoso, lui aveva trovato la maniera di usare la sua forza fisica in modo positivo e tanto diverso da quello che possiamo immaginare oggi.
Come detto, nelle osterie il vino era la bevanda più usata in assoluto, si vendeva sfuso in contenitori di vetro da un litro, mezzo litro ed un quarto. Con provenienza diretta dai contadini della campagna circostante che nei primi decenni del '900 arrivava ancora fino alle mura della città antica, il trasporto avveniva attraverso barili di legno che ben si prestavano ad essere caricati in coppia sulla groppa delle bestie da soma, oppure su carretti trainati da un asino o addirittura c'era chi si caricava il barile pieno di vino sulle spalle. Di solito un barile conteneva dai 30 ai 40 litri, più il peso del legno con il quale era costruito. Nocè invece adottava un sistema particolare che soltanto lui con la sua forza fisica poteva permettersi: andava a prendere il vino nella cantina di produzione con due barili vuoti portandoli uno per mano e tenendoli con le dita infilate nel buco alto usato per il carico e lo scarico del liquido.
Quello che stupisce fino ad apparire incredibile è il fatto che al ritorno con i barili pieni lui li portava con una tale disinvoltura da far credere che fossero vuoti e questo dichiarava quando passava nei punti “obbligati” dei doganieri per riscuotere il dazio su alcune merci in transito; il vino era una di queste (la tassa da pagare fu abolita nella seconda metà del Novecento).
I doganieri, chiamati anche “dragoni”, erano ufficiali dello Stato e si trovavano presso le varie porte della città antica come Porta Romana, Porta Parma ed in altri punti strategici dove si controllava il traffico delle merci. Ebbene, quando Nocè rientrava in città con il solito rifornimento di vino per la osteria, non pagava il dazio, perché dichiarava che i suoi barili erano vuoti e la sua naturalezza lo rendeva credibile.
Mio padre Sante mi ha parlato tante volte di Nocè, fratello forzuto di suo nonno Battista detto “Battilon” ed io oggi scopro che Nocè era anche un “evasore fiscale”; eppure era un uomo onesto e lavoratore, come la sua famiglia, compresa la moglie “Placida”: forse l'arte di “arrangiarsi” nell'affrontare le innumerevoli difficoltà della vita, fa proprio parte dell'uomo e della sua natura.
Poi, che fra questi ci sia a volte anche il “furbo” di turno, è sicuramente vero.
Non c'è niente di nuovo sotto il sole.


  Passo passo, verso...Te
di Paola G. Vitale




Non è facile Signore. È vero, all'inizio la sorpresa mi lascia un po' dispiaciuta, ma poi penso: sono qua, alla mia età ed è naturale che il volto riceva le rughe.
Le mani, non più morbide e forti come da ragazzina. I piedi che fanno male dopo una giornata di intensa fatica. Ma è logico ringraziarTi Signore.
Sono qua, lieta di ogni giornata trascorsa nel servizio, nel lavoro quotidiano che porta serenità e armonia. C'è forse qualcosa di più gratificante di questo procedere sereno, fino al momento di ringraziarTi e di nuovo invocare la Tua protezione per il nuovo giorno?. Niente potrebbe essere più bello del chiudere gli occhi alla notte, pensando al Tuo amore.
Gesù, Giuseppe, Maria, Santa Famiglia, proteggete ogni cuore e, nel Vostro esempio, allontanate da ciascuno la tenebre, il tristo livore.
Buona terza e quarta età a tutti!



  Le mie disavventure lungo la via d Burla
di Maurizio


Ho letto, sul “Sentiero” le disavventure di Romano Parodi lungo la via d Burla mi è venuto il desiderio di portare anche la mia testimonianza. Mia mamma diceva: “t’ha fat i Ceri”. (Via d Burla e i Via di Cerri sono il prolungamento l’una dell’altra). Io me la ricordo, metro per metro dalle tante volte che ci sono passato. Andavo all’Avviamento ad Avenza. Era il 1953, quando ho fatto la via d Burla per la prima volta assieme alla mia mamma. Prendevo il tram a Fossola: andata e ritorno. Poi affrontavamo la salita.
In seconda classe, uscivamo, per tre o quattro volte la settimana alle 17,30.
A quell’ora, d’inverno è già buio, eppure prendevo il tram fino a Fossola e poi affrontavo la via d Burla, senza torcia elettrica e da solo. A volte pioveva e non avevo l’ombrello. Poi in terza classe ho preso la bicicletta e abbandonato la via d Burla. L’ultima volta l’ho rifatta a 18 anni quando feci domanda per andare nei Carabinieri. Ero assieme ad un amico. Dovevamo andare ad Avenza a prendere il treno per andare alla visita a Genova. Ricordo ancora oggi, che era buio pesto e non avevamo torcia  elettrica. Io camminavo spedito mentre lui era sempre in difficoltà. Poi l’ho rifatta spesso da cacciatore, ma solo per un tratto, perché a duecento metri dal Termo, dove inizia la via dei Cerri c’è un oliveto con una casa e una pianta di fico. E specie all’apertura della caccia vi andavo spesso. Oggi purtroppo non ci si passa più. Nessuno s’interessa di questa antichissima strada.
Adesso vi racconto quando ho preso la bicicletta per andare a scuola. Era di mio babbo; era vecchia. L’ho portata dal mitico Pierin, che aveva l’officina dalla Valé (Serravalle). Me l’ha aggiustata! Mi pareva di essere un signore; la lasciavo a Casano e mi facevo la Montata a piedi. Andata e ritorno. Passavo da Fossone, ma purtroppo aveva i copertoni e i freni vecchi, che si sono consumati presto. Allora ho preso dei copertoni vecchi da un meccanico ad Avenza, li ho tagliati e li ho messi dove c’erano i buchi e li ho cuciti. Per i freni, tiravo i tacchetti con le mani perché i fili si erano strappati. Allora ho preso il filo ancora buono dei freni di dietro e li ho messi davanti. Quante peripezie con quella vecchia bicicletta ragazzi, se ci penso mi sembra impossibile! 


  La vita è un sogno
di Romano Parodi



 

Era notte, ed ero molto stanco. Camminavo sulla sabbia accompagnato dal Signore. La sua orma mi seguiva. Era la vista mia come annebbiata dal luccichio schiumoso della risacca, che, sotto il riflesso della luna, correva all’infinito davanti a me.         La meta era lontana!
Sullo schermo della notte c’erano tutti i giorni della mia vita. Ho guardato attentamente, e ho visto che a ogni giorno della mia vita proiettata nel film, apparivano orme sulla sabbia: una mia e una del Signore. Sono andato avanti, finché tutti i giorni si sono esauriti. Allora mi sono fermato, e, guardando indietro, mi sono accorto che c’erano giorni che avevano una sola orma. Erano i periodi più brutti: quando ero malato, quando persi il lavoro, quando ero sprofondato nella depressione, quando rimasi solo. Possibile che proprio in quei giorni il Signore mi abbia abbandonato? Dovevo chiederglielo.
L’avrei trovato là, in fondo allo stradale bianco. Nella nostra casa, dove fui battezzato, dove fui comunicato, dove stipulammo un contratto.
Ho camminato: ho camminato tanto: mi facevano male le gambe. Strusciavo i piedi come il vecchio Garibà. Assieme alla stanchezza, tanta tristezza. Mi sono seduto sulla sabbia e mi sono messo a piangere. Ma ecco una voce dentro di me: - Perché stai piangendo? - Perché sto pensando alla mia vita, alla mia giovinezza, a chi mi ha lasciato... Forse Dio è stato crudele a darmi la possibilità di ricordare. Egli sapeva che un giorno avrei ricordato la primavera della mia vita e avrei pianto.         Ci fu un bagliore. Alzai la testa, e nella notte vidi un bellissimo campo di rose tutto illuminato, e allora capii e ringraziai Dio di avermi dato la possibilità di ricordare. Egli sapeva che avrei sempre potuto ricordare la primavera della mia vita.
Mi alzai rinfrancato, e... cammina e cammina: eccomi... sono giunto alla meta, in fondo allo stradale bianco. Entro. Sono solo. La chiesa è immersa nella penombra e nel silenzio. Mi getto su una panca... sfinito. Sull’altare bruciavano quattro candele. Bruciavano silenziose e stanche sull’altare della Natività. Le deboli fiammelle si consumavano lentamente. Il silenzio era tale, che potevo ascoltare la loro conversazione. Parlavano di me. La prima diceva: “Sono delusa, io sono la Pace, dovrei regnare sovrana, ma, come vedi, nel cuore di quell’uomo non c’è pace - Penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi”. Così fu. A poco a poco la candela si lasciò spegnere completamente.
Anche la seconda era triste: “Io sono la Fede, purtroppo non servo a nulla
Anche quell’uomo l’ha persa - Gli uomini non ne vogliono sapere di me, non ha senso che resti accesa”. Appena ebbe terminato di parlare una leggera brezza soffiò su di lei e la spense. A sua volta la terza candela, triste triste disse: “Io sono l’Amore, a quell’uomo non interessa nulla di me - Non ha senso continuare a rimanere accesa - Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza - Troppo volte preferiscono odiare”. E senza attendere altro, si lasciò spegnere.
A quel punto, il bambinello, scese dalla pala dell’altare e scoppiò a piangere: “Ma cosa fate, io ho paura del buio, voi dovete rimanere accese”.
La quarta candela, impietositosi disse: “Non temere, non piangere: io sono la Speranza - Finché sono accesa, si potranno sempre riaccendere le altre tre candele”. Allora il bimbo, con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, prese la candela della Speranza e riaccese tutte le altre.
“Che non si spenga mai la speranza dentro il tuo cuore – mi disse il Signore seduto accanto a me – ogni uomo può essere lo strumento capace, in ogni momento di riaccendere, con la sua Speranza: la Fede, la Pace, l’Amore”.
Allora gliel’ho chiesto: “Signore, perché nei momenti in cui avevo più bisogno di Te, mi hai abbandonato” - “Figlio mio, in questa chiesa ti promisi che sarei stato sempre con te, tutta la vita, e così ho fatto - Io ti ho sempre amato – C’è solo un’orma perché quando stavi male ti portavo in braccio”.


  Pranzo di beneficienza
di Carla Beggi



Il 29 gennaio scorso ho organizzato un pranzo di beneficienza a favore dell’Associazione Sightsavers Italia onlus, che da oltre sessant'anni è impegnata nella lotta contro la cecità infantile.
L’evento, che si è tenuto nell’oratorio della parrocchia di Caffaggiola, è stato un vero successo!
Non solo il ricavato congiunto del pranzo e delle offerte libere è stato di 1800 euro, ma le persone si sono dimostrate molto interessate alla causa di Sightsaver, di cui hanno colto l’importanza.
Nel corso dell’anno cercherò di ripetere l’occasione come mi è stato chiesto da tanti dei partecipanti.
Colgo questa occasione per ringraziare tutti coloro che hanno partecipato e contribuito al successo del pranzo.


                                                                                                   


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  Il paese più bello del mondo
di Enzo Ferrrari da “il Sentiero” n. 11, novembre 1995



 

Per quanto riguarda Ortonovo è il paese più bello del mondo. Dalla sua piazza si può vedere la pianura sottostante con le due splendide frazioni dell’Annunziata e di Nicola; la pianura sottostante e le sue case sparse fanno da cornice in una visione a dire poco fiabesca; di sera se si guarda la zona illuminata si ha la sensazione di vivere in un sogno. Sulla piazza la grande abazia intitolata a San Lorenzo, patrono del paese, con a fianco un’austera torre medioevale che noi chiamiamo “campanilo” con sopra due intonate ed argentine campane, che nei secoli con il loro suono hanno dato le belle e cattive notizie alla gente del borgo e della sottostante vallate. La bellezza del paese è quella di essere collocato sopra ad una roccia tra il verde degli olivi, un tempo molto rigogliosi, e tutto attorniato da una vegetazione varia, con dei grossi castagni dai quali i nostri avi ricavavano buona parte del loro sostentamento. L’olio prodotto, ormai, nel paese è poca cosa, però quello che viene ancora ricavato è un prodotto fine e profumato di una bontà ineguagliabile: si può benissimo definire un miracolo della natura.
Chi non ricorda che quando da ragazzi si tornava a casa affamati, in attesa del pasto, si mangiava un pezzo di pane con l’olio e la fame cessava. Chi non ricorda la bottiglia dell’olio? Anche se vuota aveva sempre una goccia da versare, grande evento. E’ bello ricordare la nostra passata storia, parte viva nel regno sardo- piemontese; a testimonianza rimane la Dogana con il Termo; quest’ultimo valico libero per la gente di Ortonovo in quanto prestavano la loro opera nel bacino marmifero, luogo posto sotto la giurisdizione del Granducato di Toscana.
 I primi tentativi militari per liberare il vicino paese di Fontia, territorio posto sotto il Granducato, fu fatto dai soldati della guarnigione del castello di Malaspina di Sarzana al comando del capitano Giovanni Ferrua delle truppe specializzate in fatti di frontiera; dovettero però far ritorno a casa con le pive nel sacco, avendo trovato contro soldati ben addestrati ed armati.
Non era dato di sapere come mai non chiesero l’aiuto dei militari del presidio di Ortonovo, i quali però dopo pochi giorni, di loro iniziativa, conquistarono il paese di Fontia ed innalzarono la bandiera Sabauda.
Questo avveniva tra storia e leggenda verso la fine del mese di febbraio 1860. Poi ci furono diversi mesi prima che tornasse nella zona un ordine costituito.
L’ordine pare sia tornato verso il mese di maggio 1861 con l’avvento dell’unità d’Italia. Con ciò non cambiò la gente di Ortonovo, il suo modo di vivere, anche se eravamo orgogliosi di fare parte del nuovo regno costituitosi, gli operai tornarono al lavoro sulle cave, due, tre ore di duro cammino per raggiugere il posto; la vita era dura ed il compenso molto misero. Molto diversa la vita che si svolgeva nell’interno dei laboratori di Carrara in quanto le maestranze erano tutte di grande levatura professionale e, senza tema di smentita, posso dire che l’opera degli ortonovesi è testimoniata in tutto il mondo. Ciò nel tempo ha creato e saldato una forte amicizia con la gente di Carrara, la quale ha considerato l’ortonovese parte integrante del suo tessuto cittadino.

Tutte queste considerazioni hanno fatto inorgoglire i nostri antenati i quali nonostante tutto si sono sempre sentiti liguri, e felici di esserlo.

Ricordo da bambino i vecchi di Fontia ci chiamavano affettuosamente i “genovesi”, ciò fa strada al mio pensiero che anche loro volevano rimanere sulle loro posizioni territoriali, come noi sulle nostre. Ciò non ha però mai tolto nulla al fatto della grande amicizia per la gente della vicina Toscana, e ancora continua.

 



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