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Adorazione interparrocchiale 2016
di Paola Vitale
Ogni anno, in Dicembre,
accogliamo i numerosi fedeli di Casano, Ortonovo e Isola che giungono a
confortarci con la loro presenza, per supplicare il Signore di inviarci Sante
Vocazioni.
C’è gioia nello stare insieme, raccolti davanti o dietro Gesù – Ostia, esposto
in festa nell’ostensorio.
Questo anno 2016 è stato onorato dalla presenza e concelebrazione di tre
prossimi diaconi seminaristi,
Alessio, Stefano ed Emilio.
Ho pregato tanto per loro, come pure avranno fatto tutti i presenti.
Ero gioiosa nel cuore e ho impegnato la mia volontà pregando di piacere sempre
a Dio per strappargli il dono delle vocazioni anche in questa giovane
parrocchia tanto tanto incerta su questa frazione di Luni Mare.
Chiudo unendo vivissimi auguri per tutti e per ciascuno.
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Madonna di Lourdes
di Giuliana Caretta
Carissimi amici in Cristo
Gesù, pace a voi e a tutta la comunità di Ortonovo.
Vi invio questo scritto con qualche dato della mia personale esperienza,
iniziata con l’anno 1978, quando appena ventiseienne mi venne diagnosticata la
tubercolosi ossea.
Potete immaginare la reazione mia e dei miei familiari. Dovevo lasciare mio
marito e i miei due figli di 9 e 6 anni per andare in ospedale. Ricordo le
manifestazioni e i miei pensieri di insofferenza.
Perché proprio a me? Cosa vuole da me il signore?.
Il mio primo viaggio a Lourdes si compie nel 1979 e qui capisco di non essere
sola e di essere più vicina alle altre persone che si trovano nella mia stessa
condizione (carrozzina e barella). Quando rientro da questi viaggi mi sento più
forte, sicura che lassù c’è chi mi aiuta a sostenere una croce altrimenti
insopportabile.
Il primo giugno 1998, 19 anni dopo, sono di nuovo a Lourdes con il
pellegrinaggio diocesano vicentino e durante la messa degli infermi, ho sentito
quella voce dolcissima “Cammina!”. Non ci credo, ma poi con l’aiuto della
capogruppo e la voglia di obbedire alla Voce, che si ripete inesorabile, ci
riesco, ho fatto i miei primi due passi dopo vent’anni.
La gente che mi circonda grida al miracolo. I medici invece mi osservano
attentamente aspettando che tutto finisca. Io invece non capisco perché proprio
io sia stata la favorita, ho quasi la sensazione di aver rubato qualcosa a
qualcuno, magari più meritevole di me.
E ancora, perché proprio a me? Forse perché sono meno capace di capire la
sofferenza?
Oggi torno in quel meraviglioso posto con le mie gambe, per aiutare i miei ammalati.
Posso vivere la mia quotidianità, accudire mio marito. Ho imparato ad
apprezzare le piccole cose e fare quanto prima mi era impossibile e per questo
non mi stancherò mai di dirle Grazie
Ci sarebbero tante cose da dire, ma sbaglierei dilungandomi. Meglio rivolgere a
Dio una preghiera che potrebbe formularsi così:
Gesù
Signore, amico di tutti, fa che io sia
Occhi
per chi non vede,
Parola
per chi non parla,
Piedi
per chi non cammina,
Disponibile
per chi è solo.
Paziente con chi non ascolta
Compassionevole
con chi piange.
Tutto
questo ti chiedo, non per me, ma per chi Tu mi affiderai. Amen
Giuliana
Caretta
La commissione del Bureau
Medical di Lourdes ha riconosciuto l’avvenimento come guarigione inspiegabile.
Attualmente il possibile miracolo è sotto esame canonico nella diocesi di
Vicenza.
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Appunti di un pellegrino
di Gualtiero Sollazzi
CENERE.
Quaresima di nuovo. Il rischio è pensare all’anno liturgico, quaresima
compresa, come un tran tran anziché come
a un vento impetuoso dello Spirito da far sbattere le porte.
Anche questo tempo quaresimale viene per scuoterci con l’aiuto di “segni” che
si fanno segnali. La cenere intanto. Il rito appare un po’ strano con quelle
teste da porgere perché sopra ci cada un pizzico di polvere grigia. Ma se
scaviamo, ce n’è da imparare.
Per esempio che siamo provvisori. Che un giorno somiglieremo a quella polvere
che ci facciamo mettere sul capo con un po’ di fastidio, specie se pelati, e
che ci diventa maestra. Vien da ridere
quando sentiamo un alterco: “Lei non sa chi sono io!” Già, chi sei? Uno
importante, un ricco, un dirigente che fa il bello e il brutto?
Al papa, dopo l’incoronazione,come usava
una volta, mentre incedeva sulla sedia gestatoria, gli si avvicinava un
cerimoniere con una stoppa che si consumava bruciando rapidamente e gli
proclamava in latino: “ Così passa la gloria del mondo”. Totò, nella celebre “‘A
livella, dirà: “‘a morte ‘o ssaje che
d’è?... è una livella”. Come dire: ma di che ti vanti?. Benedetta la cenere,
allora; ci racconta il momento provvisorio, ci annunzia che siamo “nell’attesa
della beata speranza”, ci fa realisti e umili come, del resto, Dio ci sogna.
BAMBOCCIONI.
Infelice dichiarazione di un
ex ministro sui giovani che restano in casa anziché lavorare.
Dimenticando il dolore di troppi ragazzi che trovano solo porte chiuse.
Un ministro rincara la dose: “ I genitori la smettano di regalare auto ai figli
laureati.” “ Il ragazzo non trova
lavoro? Impari un mestiere.” Una
domanda: questa gente dove vive?
Dentro le auto blu e stipendi d’oro? Tanti giovani il lavoro non l’hanno perché
non c’è.
Magari con il babbo in cassa integrazione. Gente che non cerca “scorciatoie”,
che crede ai diritti e non ai favori e che ha desideri di autenticità,
trasparenza e onestà. Piuttosto: si è promossa a sinistra e a destra una seria
politica per la gioventù? Si è preso a cuore il futuro di questo popolo?
Con un pro-memoria per gli adulti, della psicoterapeuta Migliarese: “ non c’è
solo il mito della velina. I ragazzi cercano adulti non perfetti, ma
appassionati.”
Appassionati di loro e delle loro speranze.
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Paura dei granchi
di Marta
Qui a Ortonovo i primi
giorni di gennaio 2017 sono stati all’insegna del gelo, un gelo che in alcune
zone ha toccato punte di -7° durante la
notte. Certo non è una cosa insolita, ma non tutti gli inverni si sono manifestati
così rigidi. Ricordando gli inverni della mia infanzia, il ricordo va alla
raccolta delle olive, quando la mamma mi portava con sé.
Assieme alla Emilia, detta Migliettina, ci si alzava presto la mattina e a
piedi da Isola percorrevamo via del Cantinone. Qui la mulattiera era percorsa
da un via vai di nicolesi che scendevano al piano per le compere. Dopo tanto
camminare, raggiungevamo il sito dove gli ulivi, carichi di olive, mostravano
la pienezza del loro frutto e un rigoglioso splendore. Io, già stanca, non
volevo saperne di stare lì in ginocchio a raccogliere, tanto più che faceva
freddo, avevo scarpe inadatte, i calzettoni al ginocchio e il vestitino
scampanato, dove il vento freddo raggiungeva tutto il corpo, anche se stringevo
la mantellina rossa di lana con il cappuccio, che la mamma aveva fatto per me.
I candelotti di ghiaccio dei vari rigagnoli tra una piana e l’altra mostravano
un gennaio assai barbino, ma allora le olive si raccoglievano da gennaio a
febbraio, appunto nei mesi più freddi. Con le dita congelate e le gambette
“morelle”, sembrava che mi accorciassi sempre di più, diventando quasi una
palla; allora la mamma cercava di
rincuorarmi e di destare il mio interesse, raccontandomi che in quel luogo
c’erano tanti granchi e se fossi stata attenta ne avrei potuto vedere
qualcuno. A mezzogiorno sarebbe arrivato
un signore di nome Valisello, che li avrebbe catturati e poi, dopo aver acceso
il fuoco, li avrebbe cotti per tutti. La curiosità di vedere i granchi mi aveva
chetata, ma quando ne vidi uno, grande e con tante zampe, mi spaventai e
piansi. Tutto ad un tratto, il mio interesse mi portò a casa, sotto il lettino
nella cameretta, dove avevo nascosto il mio tesoro, una scatola di cartone
piena di bottoni dorati, nastrini, mollettine per capelli e tante stagnole
colorate dei cioccolatini mangiati da altri e poi regalatemi. Avevo poi un
barattolo di corallini e perline, che avevo barattato con la mia bambola di
lana; era una bella bambola, aveva i capelli di lana gialli, un fiocco rosa, un
vestitino anch’esso di lana, di tanti colori e indossava delle piccole
scarpine. A Graziella, la mia amica, piaceva molto quella bambola, mentre io
ero affascinata dai corallini, quante collanine, braccialetti e anelli avrei
potuto fare! Così barattai la bambola, anche se a quel punto la bambola non
l’avevo più! Pazienza, mi dissi, la mamma me ne farà un’altra, ancora più
bella. Tra una fantasticheria ed un’altra giunse il momento di mangiare e, come
aveva detto la mamma, si mangiarono anche i granchi.
Io dalla paura scappai e non volevo
avvicinarmi a nessuno, ma alla fine la fame mi diede coraggio e una bella fetta
di pane con la frittata mi gratificò.
Arrivarono altre persone, anche alcuni ragazzetti e da quel momento cominciammo
a giocare con scorribande e risate fino all’ora del tramonto, l’ora del ritorno
a casa, a casa al caldo e dal mio tesoro.
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PRESENTE E PASSATO
di Millene Lazzoni Puglia
Dalla finestra “sul mondo” in quella stanza ad est della casa che è diventata la mia
camera da quando, purtroppo, sono sola, si apre un panorama non da poco. Da una
delle tante colline toscane riesco a vedere l’ultimo scorcio di Liguria di
Levante, con tanto mare.
Quando al mattino mi ritrovo seduta sul
letto, vicinissimo alla finestra, mi perdo a guardare il mare e la pianura del
Magra, con il promontorio sul quale si distende il paese di Monte Marcello che da
sempre domina mare e territorio. Sì, dalla mia finestra si gode un vero
spettacolo che raggiunge il massimo quando di notte si accendono le luci in
quella pianura che fino alla metà del ‘900 era buia di notte, mentre di giorno,
soltanto in estate, il giallo del grano maturo interrompeva il verde totale.
In quella pianura che sta diventando pian piano una città, anche l’eliporto dà
un bel contributo di luci, alle quali si aggiungono quelle degli elicotteri
quando la sera rientrano alla base. Tutto
questo è bello per chi sa apprezzarlo, ed io fortunatamente mi sento fra
questi. Amo anche il resto del paesaggio più vicino a me, dove è passata la
storia di tante famiglie del secolo scorso compresa la mia, sia la famiglia
materna che paterna. L’antico palazzo di Paganetto che sovrasta la collina boscosa sopra il torrente
Isolone è dominante, proprio lì dove passa il confine tra Liguria e Toscana e
nella sua storia c’è stato un pittore di talento che abitava lassù
nell’ottocento. Ma non è meno importante la storia antica di altre case sparse
fra il verde della Val d’Isolone , ormai inselvatichita e deserta. La villa
Malaspina era un “pezzo forte” del mio paesaggio, peccato che ormai riesco a
vederne soltanto un piccolo scorcio, causa gli alberi molto cresciuti, fra
questi alcuni altissimi cipressi. Questi alberi sono soprattutto quelli
dell’antico “boschetto” che sta qui vicino a noi, che era chiamato così perché
formato da piccoli cespugli. Detto boschetto mi ha “rubato” la visuale di Caniparola e sta invadendo anche
quella del paese di Ameglia che una volta si vedeva benissimo. I tempi sono
cambiati, oggi non ci sono persone in cerca di legna da ardere nel camino per
scaldarsi, oppure per cucinare durante tutto l’anno; questo impediva agli
alberi di crescere e diventare grandi e frondosi. Fino a metà del ‘900, nelle
aree boschive “senza padrone” raccogliere la legna non era considerato “rubare,”
ma soltanto arrangiarsi per sopravvivere. Torniamo al paesaggio verde e silenzioso della Val d’Isolone, dove fino agli anni
’50 e ’60 c’era un brulicare di vita e attività contadine, con molti sentieri
che s’incrociavano anche con il torrente Isolone, che era meta di numerose
persone per motivi diversi: c’era chi andava al torrente con il carro agricolo
per caricare sabbia e sassi, molte donne per lavare i panni specialmente in
estate, ma c’era anche chi faceva il bagno e lì si lavava o più semplicemente
per rimediare un pasto d’erba fresca per le bestie, ma anche per le persone
perché era facile trovare anguille e granchi spostando le pietre immerse
nell’acqua. Quell’acqua allora era pulitissima e permetteva la vita a molte
specie, compreso le rane che ci allietavano in estate con i loro “concerti”. Per qualche decennio soltanto il belare del gregge ha rotto il silenzio di quel
luogo dove la natura è ritornata sovrana, ma il gregge è stato sfrattato
all’inizio dello scorso 2014 da quello stanzone sede di un antico frantoio, per
lasciare spazio ad un grande cantiere che comprende anche il resto dell’antico
fabbricato dove c’era un mulino anche quello ad acqua. Quel mulino è stato per
molti anni il “regno” del nonno materno che nel 1876, appena diciottenne, lo
aveva preso in affitto dal marchese Alfonso Malaspina, facendo il pendolare
dalla sua numerosa famiglia che risiedeva in via Novella di Sopra. Soltanto in
seguito, con l’aggiunta di una cucina e di una grande camera sopraelevata,
prese forma e si sviluppò l’abitazione della famiglia dei mei nonni, Assunta e
Angelo Tusini. Mia madre Argentina nacque e visse lì fino al 1928 quando si
sposò. Con l’attività del mulino e parzialmente del frantoio, perché legato
alla stagione delle olive, con un grande e fertilissimo orto e con l’aggiunta
di tanta saggezza e volontà di lavorare, la famiglia visse serena senza l’incubo
della fame che caratterizzava quel tempo. Infine la solitudine, il mulino e mio nonno Angelo sono morti all’inizio degli
anni ’30, l’orto con mia nonna Assunta più lentamente. Quando a metà ‘900 anche mio zio Guglielmo lasciò quel luogo, tutto rimase
libero al degrado, là dove c’era stata vita. Sì, a quel tempo i mulini e i
frantoi erano punti di ritrovo dove le persone s’incontravano e socializzavano,
non è esagerato dire che c’era vita come sulle strade di oggi. Come spesso succede anche nella vita, si deve toccare il fondo per risalire e
così è stato riguardo all’abbandono di questa zona della Val d’Isolone della
quale si sta prospettando la rinascita a nuova vita, con il restauro e
ampliamenti vari dell’antica casa-mulino-frantoio, con in più la costruzione di
nuove villette. Sicuramente poi arriveranno lì nuove persone alla ricerca di
natura verde e di silenzio, forse stanche del traffico rumoroso e inquinante;
persone che saranno in grado di apprezzare il nuovo habitat, compreso il vicino
torrente che in certi periodi dell’anno fa sentire chiaramente la sua “voce
antica”, e troveranno lì la loro vita e la terra promessa come la trovarono i
miei nonni oltre un secolo fa. All’improvviso in questa piovosa primavera 2015 anche gli ulivi che Silvano non
ha potato sono cresciuti a pochi metri dalla mia finestra al primo piano,
ostacolando la mia visuale su quel cantiere con alte gru per i restauri e il
sorgere dei nuovi immobili. Però i rumori caratteristici del lavoro degli
operai arrivano fino a me attraverso la mia finestra, mentre i miei pensieri
vagano nei ricordi di un passato che mi è stato famigliare, quando da bambina
frequentavo quel luogo. Ricordi reali, ma anche immaginari.
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Le mie disavventure lungo la via d Burla
di Romano Parodi
Correva l’anno 1949. La mia scuola
(Avviamento) ci portò in gita a Firenze.
Tornammo a Carrara a notte fonda. Io scesi a Fossola. Pioveva, ed era buio “pèsto”
(com’n t’l buz an bo’). Eppure
dovevo affrontare la salita d Burla e la via di Cérri. Avevo
l’ombrello, ma era così buio che non riuscendo a vedere dove dovevo mettere i
piedi, era solo d’intralcio. Non trovavo le scorciatoie, e non riuscivo a stare
sul sentiero finendo spesso nei rovi.
Inoltre lo scroscio della
pioggia sulle foglie era assordante, m’impediva di sentire qualsiasi eventuale
richiamo. La salita era un canale. Camminavo con l’acqua che mi veniva addosso
con forza. Con borsa, arbusti e ombrello era arduo avanzare. Cadevo, e spesso
procedevo a quattro zampe. A una scivolata più rovinosa delle altre persi degli
indumenti. Alcuni lì ripresi al volo, ma uno, l’acqua se lo portò via. Giunsi a
casa senza. Cos’era? Chi lo indovina avrà il mio libretto “Un groviglio di
rovi” in regalo. (Per inciso devo dire che improvvisamente una luce apparve
davanti a me. Era mio padre con la lanterna).
Sempre nel ’49, di notte, misero
una bomba nel palazzo Aurelio Saffi, la mia scuola. Per quella bomba, portarono
in caserma anche il nostro grande preside, Giuseppe Franciosi.
Solo per interrogarlo, beninteso. (Col quale, poi, assieme a Walter, ci facemmo
un sacco di risate, di questa mia disavventura). Tutta la tromba delle scale
era sparita. Ci trasferirono nel palazzo delle medie, ma il pomeriggio.
Immaginatevi le conseguenze.
Sempre rientri notturni e quasi sempre solo.
Una sera, era già buio, arrivato
davanti al cancello del cimitero di Fossola (allora si passava dall’altra
parte), vidi una luce fiocca che veniva da sotto terra. Guardai meglio: era una
testa quella che emergeva fuori dal terreno. Rimasi paralizzato. Ho pensato che
fosse un morto che ritornava alla vita. Ma niente, la testa ritornava sotto
terra e poi ritornava su. Via a gambe levate. Credo che feci la mia salita
record. Cos’era?
Quella volta che mi ricoverarono
nella farmacia di Fossola
Al termine delle lezioni, le
tredici, vie di corsa in Piazza Farini. I tram erano tutti ad aspettarci, ma
era il primo ad essere assalito, e quel giorno era già stipato. Non mi arresi,
ed assieme ad altri mi aggrappai all’esterno, alla maniglia, come un
pipistrello. Giunti a Fossola ebbi la
bella idea di saltare giù prima che si fermasse. Risultato : finii a terra
rovinosamente. Battei il ginocchio destro. Mi portarono nella vicina farmacia e
fui medicato, ma il ginocchio si gonfiò subito. Non riuscivo più a camminare.
Mandarono a chiamare mio padre ed assieme affrontammo la durissima salita.
Ancora oggi la ricordo come un incubo, ancora oggi il ricordo di mio padre, che
mi prendeva a cavalcioni, mi commuove, e ancora oggi il ginocchio ogni tanto mi
fa male.
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Fuga della Morte
di Giuseppe
Fuga della Morte
[‘Fuga’ è in senso musicale, una prima
versione era intitolata Tango della Morte]
Negro latte dell’alba noi lo beviamo
la sera
noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte
noi beviamo e beviamo
noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto.
Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete
egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano
egli aduna i mastini con un fischio
con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare. Negro latte dell’alba noi ti beviamo
la notte noi ti beviamo al mattino come al meriggio ti beviamo la sera noi beviamo e beviamo. Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace
non sta stretto. Egli grida puntate più a fondo nel cuor
della terra e voialtri cantate e suonate
egli trae dalla cintola il ferro lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
voi puntate più fondo le zappe e voi ancora suonate perché si deve ballare. Negro latte dell’alba noi ti beviamo
la notte noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera noi beviamo e beviamo nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca colle serpi. Egli grida suonate più dolce la morte la morte è un Maestro di Germania grida cavate ai violini suono più oscuro così andrete come fumo nell’aria così avrete nelle nubi una tomba chi vi giace non sta stretto. Negro latte dell’alba noi ti beviamo
la notte
noi ti beviamo al meriggio la morte è un Maestro di Germania
noi ti beviamo la sera come al mattino noi beviamo e beviamo
la morte è un Maestro di Germania il suo occhio è azzurro
egli ti coglie col piombo ti coglie con mira precisa
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
egli aizza i mastini su di noi fa dono di una tomba nell’aria
egli gioca colle serpi e sogna la morte è un Maestro di Germania i tuoi capelli d’oro Margarete i tuoi capelli di cenere Sulamith
(Traduzione di Giuseppe Bevilacqua) Elena mi ha chiesto di scrivere qualcosa per la giornata
della memoria ma non sa quanto mi è faticoso scrivere e non immagina quanto
poco ne sappia del 27 gennaio, in senso storiografico ecc. tuttavia mi è
difficile rifiutarle qualcosa e ho pensato di proporre una poesia e ricordare
alcuni nomi legati fra loro in qualche modo. La poesia che si può leggere in queste pagine è fra le più
tremende e struggenti mai scritte sullo sterminio. Di essa non dico, basta
leggerla per capire con che cosa si ha a che fare, per comprendere come anche
le incongruenze, le ripetizioni e le oscurità abbiano una loro intrinseca
necessità e forza. L’autore è Paul Celan, forse il più importante poeta di
lingua tedesca del ‘900. Paul Celan però non era tedesco e neppure era nato in
un paese dove il tedesco era moneta corrente, come la Praga di Kafka, per
esempio. Paul Celan, il cui vero nome era Paul Antschel, era nato a Cernauti,
nella Bukovina rumena, ed era ebreo. Chi legge le poesie in italiano può immaginare soltanto in
parte l’effetto che i versi in tedesco possono avere su un ebreo o su chiunque
abbia perso dei cari nei campi di sterminio, lo strazio che l’eco di quei
comandi di assassinio e scherno procurano prima di tutti a chi, scrivendoli, si
costringe a udirli di nuovo. Per comporre quelle poesie Celan aveva a disposizione
il rumeno e l’ebraico, e più tardi il francese, perché dunque in tedesco?
Sicuramente per una esigenza di verità, perché la verità dovrebbe rendere
liberi o almeno liberare un po’. La lingua tedesca però aveva per Celan un
valore del tutto particolare e più profondo. Era stata la madre a volere che il
figlio frequentasse un istituto dove si insegnava in lingua tedesca; aveva
scelto il tedesco come lingua di elezione ed elevazione perché era la lingua
della filosofia di Kant e Hegel, della poesia di Holderlin e Goethe. La madre
di Celan in tedesco parlava con il figlio e in quella lingua si esprimeva la
loro complicità. E c’era un’ulteriore ragione per la scelta del tedesco, forse
la più nobile, la più folle: quella di dare a quella lingua una possibilità di
redenzione. Anche nella psicoanalisi una qualche forma di guarigione è
possibile soltanto ripercorrendo le proprie lacerazioni, recuperando il
rimosso. Celan ha scelto quella strada dolorosa anche per riabilitare la cosa
che più di ogni altra lo legava alla madre morta in un campo di
concentramento in Ucraina, dopo che il
padre era morto di tifo in un altro campo. Una dinamica simile a quella che aveva determinato la
scelta del tedesco per la poesia doveva, nel 1948, avere avvicinato Celan alla
giovane poetessa tedesca Ingeborg Bachmann, figlia di un nazista della prima
ora. Per Ingeborg, Celan scrisse “noi ci diciamo cose oscure, / noi ci amiamo
come papavero e memoria”, forse per lui
Ingeborg cambiò il proprio nome in Ruth
Keller, e non c’è nome più ebraico di Ruth. Paul Celan si è suicidato nel 1970 gettandosi nella Senna a
Parigi; Ingeborg ha riassunto tutta la sua vicenda umana in due righe “la mia
vita finisce qui, perché lui è annegato nel fiume durante la deportazione”.
Dopo tre anni di afflizione Ruth muore a Roma. Le bellissime lettere tra i due
sono state raccolte da Ginevra Bompiani e pubblicate dalla casa editrice
Nottetempo. Sul cambio del nome da parte di Celan e di altri, non è il caso di dilungarsi. Una sola
congettura, forse fin troppo facile, può muovere dal nome come identità
individuale e dal cognome come identità di gente. Il rifiuto del cognome
sarebbe dunque una contestazione del proprio essere ebreo e, in qualche modo,
la rimessa in discussione di un legame con un onnipotente impotente a fermare
il massacro o sciaguratamente distratto. Sul peso della propria identità
ebraica ha riflettuto a lungo il filosofo Jean Amery -nome originario Hans,
diminuitivo di Johans, Chaim Meyer- in opere come "Intellettuale ad
Auschwitz", "Oltre la Colpa e l'Espiazione"e "Necessità e
Impossibilità di Essere Ebreo", ha riflettuto sulle proprie lacerazioni
come Celan con la necessità di vivere di poesia in un mondo che, come sosteneva
Adorno, dopo Auschwitz non ammetteva più la possibilità di fare poesia. Ho
parlato di rifiuto del cognome ma forse si tratta soltanto di una
dissimulazione o una rivendicazione enigmatica di esso, dal momento che sia
Celan che Amery altro non sono che l'anagramma dei cognomi originari. Jean
Amery si è suicidato a 66 anni, nel 1978. Tra le pagine più belle che abbia letto sui campi di
sterminio, ce ne sono anche di tono del tutto diverso perché vi si racconta di
una piccola, parziale ma importante vittoria. Ne “Le Radici del Cielo”, di
Romain Gary, alcuni internati sfidano i loro aguzzini e si chinano sotto il
peso dei sacchi di sabbia e delle botte, per soccorrere dei coleotteri caduti
sul dorso. Romain Gary era ebreo originario di Vilnius in Lituania; il suo
primo nome era Roma Kacew e ha cambiato nome più volte. E’ stato l’unico
scrittore a vincere due volte il premio Goncourt che non può essere vinto più
di una volta. Quando i giurati lo assegnarono a Emile Ajar per “La Vita Davanti
a Sé” (un libro meraviglioso e che raccomando vivamente a tutti i ragazzi), non
sapevano che dietro quello pseudonimo si nascondeva l’autore di “Le Radici del
Cielo”. Anche Romain Gary si è suicidato,
anch’egli a Parigi, probabilmente per motivi diversi da quelli di Celan, forse
per seguire, in quel terribile percorso, l’amata Jean Seberg. Anche Romain Gary adorava la madre e al suo rapporto con
lei ha dedicato un altro libro imperdibile "La Promessa dell'Alba".
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LA RECITA
di G. F. C. Una nonna
Vigilia
dell’Epifania, 5 gennaio 2017
Nella
Chiesa parrocchiale del Preziosissimo Sangue in Luni, c’è la recita dei bimbi,
che nel periodo natalizio, hanno frequentato l’oratorio. Guidati con pazienza e
lodevole impegno dai ragazzi delle varie comunità parrocchiali, i bimbi
presentano una simpatica storia: “I Re Magi”.
Raccontano
che i Magi perdono la stella cometa e si ritrovano nel mondo di oggi, lo
trovano arido, privo di sentimenti, di valori, triste e grigio nonostante le
luci colorate per le strade. Non è ciò che avrebbero dovuto trovare, non è ciò
che si aspettavano di vedere.
Sono confusi, ma pieni di speranza scrutano ancora il cielo e… vedono una forte
luce: è la stella cometa, che li riporta nel loro tempo e li conduce a Betlemme
da Gesù, Re di pace e amore, di cui avevano letto nei libri.
Come finale della recita è stato proiettato un video che ci ha portati in ogni
parte della terra dove c’è sofferenza, povertà, guerra, abbandono, dove c’è
Gesù che chiede a ognuno di noi, secondo le proprie capacità e possibilità, di
essere presenti, di operare, di aiutare chi è in difficoltà.
Bravi! Bravi bambini, siete stati grandi! Bravi ragazzi siete stati
meravigliosi. Continuate così.
Il messaggio che ci avete inviato è chiaro: cercate tutti la stella cometa,
la luce che è in ognuno di noi per trovare Gesù nostra salvezza.
MESSAGGIO
I
ragazzi dell’oratorio hanno lanciato un messaggio che non ha limiti né di tempo
né di spazio, allora…, che fare? Purtroppo non c’è molta folla in chiesa, però
abbiamo una grande opportunità offertaci dalla tecnologia: “messaggiare” col
telefonino! Basta un clic e arrivi dove vuoi! MI rivolgo ai genitori a
frequentare l’oratorio ogni sabato pomeriggio. E
noi nonni? Non possiamo stare con le mani in mano. Non dobbiamo arrenderci a
questo affannoso e triste modo di vivere. Dobbiamo anche noi inviare il
messaggio, come? Raccontare ai bimbi del nostro Natale, del suo profumo, del calore che portava
nelle case, nelle famiglie, non c’erano regali, quei pochi e miseri li portava
la befana; si percepiva però che quel Bambino nasceva per tutti, per donare un
sorriso e un po’ di felicità. Il presepe, quasi esclusivamente, era nelle chiese. Tutti partecipavano alla
sua realizzazione: si raccoglieva l’erba “presepina”, si cercavano sassi,
legnetti, paglia, carta dei sacchi della farina e la “pula “per il deserto, si
costruivano la grotta, le casette, le stalle dei pastori, il castello di Erode
e tutto ciò che avrebbe reso più vero il paesaggio. Tutto era pronto per la messa della mezzanotte. Che gioia! Che bello il suono
delle campane! Guai a chi discute il presepe! Guai! Nessuno tocchi il presepe: è la nascita di tutto. Chi offende il presepe è più ottuso di Erode ho letto una volta, ed è vero. Oggi il Natale è molto consumistico e poco cristiano, per questo ben vengano
queste semplici ma molto significative recite, che richiamano sentimenti di
bontà e fratellanza. Chissà se nel futuro gli uomini, come i Magi, troveranno ancora la strada per
Betlemme e canteranno la gloria del Re Divino, di Gesù nostra salvezza!
Speriamo di sì. Per questo non dobbiamo stancarci di “narrare” ai nostri bimbi la bellezza, il
significato del Natale e del suo presepe, esempio mite di gioiosa attesa, di
famiglia, di comunità armoniosa, di una beatitudine casereccia e perfino
musicale.
“Tu scendi dalle stelle” e vieni ad
abitare quaggiù!
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GLI ANGELI DEL 118
di Paola G. Vitale
GLI ANGELI DEL 118
Questa volta desidero ringraziare gli angeli del 118. È almeno la quarta volta che ne usufruiamo, in circostanze piuttosto drammatiche. Quest'ultimo intervento, di una giovane équipe della città di Sarzana, decisa e delicata, è stato determinante per il recupero del mio sposo. Dio li benedica ed anch'io li benedico!
Ho potuto rivedere il volto disteso e gli occhi di nuovo lucenti di mio marito, assieme al figlio minore che è "l'angelo" di casa in ognuna di queste circostanze.
E grazie ancora a tutti e ai familiari distanti!
S.Pietro Apostolo - Luni Mare
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