N° 1 - Gennaio 2017
Storie dei lettori
  Ortonovo, il paese dai tetti fumanti
di Romano Parodi



          Da alcuni mesi c’è una simpatica gara sui social, ripresa il mese scorso dal “Sentiero”: Decretare la parola più bella del nostro dialetto; della più antica e storica; della più curiosa. Per la più bella ha vinto Arman, oramai è ufficiale: è stata la più votata, oltre venti preferenze. La più curiosa, per me, è skacin. (Era la persona addetta a scacciare i cani dalla chiesa, “g’iè malvisto com i can ‘n k’iesha”).
La più antica? Io non ho dubbi: canapug’io. (se qualcuno conosce un altro significato me lo faccia sapere). Questo vocabolo dice in maniera inequivocabile in che modo vivevano i nostri antenati ortonovesi; anzi, corficianesi, perché come saprete, prima del 1200 Ortonovo si chiamava Corficiano (dell’antico toponimo è rimasto Scorpaciano, il borgo per antonomasia del nostro paese).
Canapug’io è una parola che viene da molto lontano, Alto Medioevo. Cos’era un canapug’io? Era un locale tutto affumicato; “G’iè nero com’n canapug’io” si dice ancora oggi. Era il locale dove c’era il canicio, e come oramai sapete, il canicio era un pianale di canne, legate fra di loro, che poggiavano su una impalcatura, sopra il quale si mettevano le castagne, “il pane dei poveri”, ad essiccare. Uno strato anche di trenta, quaranta cm di spessore, che veniva rivoltato saltuariamente con un grosso rastrello. Delle volte le canne anche se legate e monitorate di continuo, cedevano al minimo movimento, e allora… si doveva interrompere la frola e rifare tutto: “top, ric, ric ricio, g’iè montà sunt ’l  canicio, ‘l canicio g’iè ato a volta, a t d’arcont n’altra vota”. Generalmente era in mezzo alla stanza. Sotto, per un mese e più, anche quaranta giorni, il fuoco restava sempre acceso: “fok vio”, si diceva. La legna era grossa e, una volta ardente, durava anche tutto il giorno, senza fare molto fumo. A me succede spesso anche adesso. La sera, quando vado a letto il fuoco è spento, al mattino il grosso ciocco continua ad essere rovente, vivo. Una volta mi è rimasto più giorni. Ma la singolarità di questi locali era la mancanza del camino. Il fumo, seppur poco, si spargeva per tutta la casa ed usciva dai tetti. Credo che servisse anche per riscaldare la casa e disinfettarla. Questa pratica è durata centinaia di anni.
(Questa era la tecnica usata nel paese di Ortonovo. In altri luoghi invece era proprio il fumo stesso, caldo, ha essiccare le castagne, ma generalmente in capanni fuori dalla casa. In questo caso si usava anche legna minuta e bucce secche, conservata dall’anno prima).
Le castagne secche poi venivano messe, da cinque a dieci kg alla volta, dentro un lungo sacco che due uomini facevano roteare e sbattevano sopra un ceppo, per dividerle dalla buccia; poi le donne con la soreta, eliminavano le scorie.
Oggi, ad Ortonovo, nelle pareti interne delle case, i sassi, sotto l’intonaco sono neri; e il nero per anni è rispuntato dall’intonaco, per la disperazione dei muratori. (Una volta non si intonacavano le pareti). Quindi nei mesi invernali, dove bisognava fare i cuscion da portare ai mulini della Jara, e ricavarne la ciana (la farina), tutte le case avevano i tetti fumanti. Non solo ad Ortonovo beninteso. Alcuni anni or sono ho parlato con una castelpogina anziana che me lo ha confermato, e mi ha detto anche: “Quante volte, da ragazza ho fatto quella strada (d’l Bianchin) con il sacco di cuscioni in testa. Delle volte era una vera processione”. Eravamo negli anni trenta. Uno l’ho visto anch’io in funzione. Era nella casa della Maria d Vincè, ed era già cadente: eravamo negli anni quaranta (l’ho fatto disegnare da Albé).
Ma i canapug’i erano anche un ritrovo dove passare la serata. Come dice anche il nostro Ceccardo, la sera gli ortonovesi vi andavano a veglia…..

 

Al ceppo che in rossor fosco balena,

convien la veglia che umile grandeggia

di rocche e fusi, e di ricordi echeggia

con un sussurro di continua vena/. Il veglio parla….

 

P.S.   La strada, verso Castelpoggio e Volpiglione, e quella che portava a Carrara passando dalla Foce, e quella della Bancola che portava a san Martino, sono le più antiche del comune. Quella verso Ortonovo partiva da Ca’ d Luco, e saliva su, dietro il cimitero di Saroco, per poi congiungersi al sentiero che portava a Carrara. Adesso sono impraticabili.


  RITORNO AL PADRE
di Anna Maria Tarolla



Sono passati nove anni da quel mattino in cui Fabio lasciò la casa paterna in cerca di fortuna. Soffrì come un cane nell'allontanarsi dal vecchio genitore. Un contadino semplice, talvolta severo, ma tollerante, che amava immensamente il suo ragazzo, unico legame al mondo che gli restava e per il quale avrebbe dato la vita. Fabio sapeva quanto fosse stato arduo crescergli accanto, superare le ostinazioni, contro le quali era stato difficile lottare quand'anche avesse voluto fare di testa sua. Quel mattino il sole era già alto tra i rami della quercia: segno di buon augurio. Erano i primi giorni dell'autunno ovattato dalla nebbia incombente. Fabio lanciò un ultimo sguardo alla campagna, splendida coi suoi filari di vitigni, ordinati come tanti soldati. Sfiorò con la mano l'altalena sotto la pergola di rubizzo che si mise a cigolare. Gli tornarono alla mente i pomeriggi domenicali trascorsi coi cugini che venivano a trovarlo e si divertivano a darsi spinte su...su sempre più in alto.
Urtò con lo zaino la panca sotto il muro di edera ed all'istante si sollevò un lieve venticello che rimosse le foglie secche. Quella panca costruita assieme a suo padre coi tronchi d'ulivo, Fabio l'amava come una creatura; era lì che sedeva spesso a riordinare i suoi pensieri. Il cancello si aprì subito al lieve tocco della mano. Non era chiuso a chiave, del resto non ve n'era bisogno, perché nessuno si sarebbe mai intrufolato furtivamente nella casa. Non si voltò per l'ultimo saluto. Non lo fece di proposito: aveva gli occhi pieni di lacrime e non voleva darlo a vedere. La “gigia” la vecchia corriera di paese col suo clacson assordante lo stava chiamando.  < Dov'è il pa'? – chiese a Giovanna ferma sulla soglia, con lo sguardo pieno di stupore indecisa se piangere o ridere di gioia.- E voi Giovanna come state?> La buona tenera Giovanna, amica da sempre, l'unica che si era presa cura del suo genitore in tutti quegli anni. < Fabio, che gioia, sei tornato a casa...non mi sembra vero. Tuo padre ha faticato tutto il giorno, poi, stanco, si è ritirato in camera.>
Finalmente lo vide. Era disteso sul grande letto dalla spalliera in ferro battuto; uno splendido pezzo d' antiquariato che allora nessuno apprezzava e considerava roba vecchia da buttare. Quel vecchio genitore che il tempo aveva appena sfiorato, riposava, la testa reclinata e la faccia distesa che eccezionalmente abbozzava un sorriso.  Si destò subito al tatto del bacio sulla fronte.< Fabio,sei tu ...ti aspettavo questa sera. Sai c'è da radunare il fieno nella stalla e poi il campo novello da arare. In cantina troverai le zucche per gli scherzi di carnevale.> Il caro vecchio contadino, caparbio come al solito, non riusciva a rinnegare neppure per un attimo il suo attaccamento alla terra. Quasi sperso in quel letto enorme sotto il peso dell'imbottita, quel vecchio sembrava un bambino indifeso a cui tenere la mano e raccontare la favola del lupo cattivo. E Fabio aveva tante favole da raccontare al vecchio genitore: i suoi successi, la sua ragazza e quel treno che tante volte avrebbe voluto rincorrere per fare ritorno a casa e che era sempre in ritardo.
Soprattutto avrebbe voluto gridargli il suo amore e quanto gli fossero mancati quegli occhi burberi, quelle mani forti che la sera gli rimboccavano le coperte. Ma le parole erano ferme lì, a mezza gola e pesavano come un macigno. La cena davanti al camino, in quella vigilia di Natale, parve a Fabio un “convivio regale” immerso in un religioso silenzio, intervallato appena dallo scoppiettio della legna. Quel silenzio portava fragranza di dolcezze, velava un amore grande tra un padre ed un figlio che, per diffidenza o vergogna, non sapevano dirselo.


  La befana
di Romano Parodi



 

Questa figura di vecchia vestita di cenci, ha un’origine antica e pagana, legata al mondo contadino (“ a s’ vest da contadina, a s’ met i frabalà”) e rappresenta l’anno vecchio da buttare.
In certi paesi un fantoccio vestito di logori cenci e scarpe rotte (“ la p’fana al ven di nota con la scarpa tuta rota”), veniva bruciato su un’alta catasta di legna. “ Brusc la vekia”, si diceva.
Una versione cristianizzata, racconta che i Re Magi diretti a Betlemme con i doni per il Bambinello, si fermarono ad un vecchio casolare per informarsi sulla via da seguire.

“Non so indicarvi la strada perché non so nulla di questo Salvatore del mondo” risponde una impertinente vecchietta. A sua volta la pettegola si mette a far domande ; cosa portavano, da dove venivano, ecc; e poi, malgrado fosse invitata insistentemente a seguirli, li derise e rifiutò.
In seguito però si pentì amaramente della sua scortesia e pensò a come farsi perdonare. Fece una cesta di dolci e si mise in cammino. Sperava di raggiungerli, ma invece non li rivide mai più.

Nel suo lungo andare si fermava ad ogni casolare a chiedere di loro e del Bambinello, e naturalmente donava del dolciumi ai bambini che incontrava.
Da allora ancora oggi raggiunge ogni casa portando regali a tutti i bambini nella speranza che uno di loro possa essere Gesù Bambino, il Salvatore del mondo.

IRe Magi nel frattempo procedevano spediti. Una stella cometa, ben visibile anche nelle notti più buie, indicava loro la giusta direzione di marcia.
Siamo nel cuore della notte. Un pastorello dorme profondamente. Qualcosa lo disturba; si sveglia. Fuori dalla capanna, c’è una luce nuova. Esce, e vede una stella cometa che, alta nel cielo, avanza verso di lui; la seguono tre Re Magi e una piccola folla.

“Dove andate ? “ chiede.- “Non lo sai? E’ nato il Figlio di Dio; portiamo oro, incenso e mirra “- rispondono i Magi.
Il pastorello vorrebbe unirsi a loro, ma si vergogna; non ha nulla, nemmeno un fiore: è inverno.

Torna triste all’ovile; ma ecco, degli spini pungono i suoi piedi. Si ferma, guarda e vede un arbusto con le foglie lucide e spinose, di un bel verde vivo.
“ Porterò al Figlio di Dio un bel rametto di agrifoglio”, decide.

Ed eccolo alla grotta. Felice e confuso si avvicina al Bambinello che ammicca sorridente; sembrava lo stesse aspettando.
Ma cosa succede? Dalle sue mani (ferite dalle spine ), cadono alcune gocce di sangue, che subito si trasformano in rosse perline sui verdi rametti.

Il Bambinello gli sorride, complice e felice.
La Madonna prende i rametti di agrifoglio e li espone sulla mangiatoia: la grotta è tutta una festa.

Al ritorno nel bosco, un’altra sorpresa attende il pastorello: tra le lucenti foglie dell’agrifoglio è tutto un rosseggiare di bacche vermiglie.
Da quella notte di mistero, l’agrifoglio viene offerto in segno di augurio alle persone care; ed è col ginepro, un albero sacro, raro e protetto.

Non tagliateli!.

 

P.S

Nella fuga verso l’Egitto, dove resterà quattro anni, la Sacra Famiglia, per salvarsi dai soldati di Erode, si nascose fra le fronde di un ginepro.


  Un pomeriggio d’agosto
di Millene Lazzoni Puglia




Le nostre vacanze estive degli anni settanta si svolgevano abitualmente a lavorare tra la costruzione della nostra seconda casa, l’orto e altre case, ma non mancavano le uscite verso il mare con la “500” e la nostra barca che ci aspettava a Bocca di Magra.
Quel pomeriggio d’agosto del 1973 è stato molto diverso dal solito, anche se inizialmente sembrava identico. Come consuetudine siamo arrivati con la “500” azzurra e i nostri figli che nel sedile posteriore erano “sommersi” dai classici giochi da mare, dato che nel portabagagli c’erano le attrezzature per la pesca subacquea di Silvano, comprese le pesanti bombole di ossigeno, che venivano trasbordate insieme a noi nella piccola barca di legno “Brucella”, della quale Silvano non solo era il valido “capitano”, ma l’aveva anche costruita con le proprie mani. Dimenticavo che c’era anche il “fuoribordo”, motore indispensabile per “solcare il mare” che non si poteva lasciare incustodito, il che faceva diventare il tutto molto laborioso e faticoso. Ripensandoci il nome che Silvano aveva dato alla barca, “Tenace”, non poteva essere più appropriato.
Finalmente si partiva e la nostra rotta era sempre la stessa, Punta Bianca, dopo aver costeggiato la base del monte dove si trova la “tana del serpente” e dopo il parco del castello di Fabbricotti che si erge più in alto in posizione dominante con la splendida vista sulle Apuane. Dopo aver superato Punta Bianca e alcune piccole spiagge, eccoci alla “nostra” spiaggia, molto più grande ma divisa a metà da una piccola scogliera. Da lì guardando a ponente si stagliava un grande scoglio detto “Cruacin” per un’antica croce di ferro arrugginita murata sulla sommità, famoso allora per i prelibati “datteri”, molluschi che si trovavano nella parte sommersa dello scoglio. Ed era proprio quella l’irresistibile attrazione per Silvano, che era un maestro nel tirarli fuori dalla roccia dello scoglio con un lavoro certosino di “mazzetta” per rompere e di “pinzetta” per estrarli. Se aggiungiamo che il tutto era fatto sott’acqua con indosso la muta e le bombole si capisce quanto fosse difficile e complicato. Silvano andava con la barca, mentre io e i bambini rimanevamo come al solito in spiaggia che si  animava con l’arrivo di altre persone. Anche quel pomeriggio stava trascorrendo serenamente, finché il sole non ha iniziato ad oscurarsi per l’arrivo di nuvoloni che promettevano pioggia, con conseguente spopolamento della spiaggia.
Anche le barche una dopo l’altra lasciavano l’arenile. A quel punto era inevitabile che subentrasse una certa inquietudine, soprattutto per il fatto che Silvano non stava ancora tornando dalla pesca, nonostante fossero già passate tre ore. Quando era rimasta una sola barca nella spiaggia a fianco, ho deciso con i bambini di fare i bagagli e di andare a chiedere aiuto a quel pescatore. Federico, che aveva otto anni, portava la borsa dei giocattoli, io tenevo la borsa grande e con l’altra mano Martina che aveva appena tre anni e mezzo. E’ stato un sollievo arrivare dal pescatore e dirgli che ero preoccupata per il ritardo di mio marito che era andato a fare pesca subacquea al “Cruacin”.
 Avuta la conferma che quel signore era veramente un pescatore di Bocca di Magra e che conosceva benissimo il luogo, con la solidarietà che caratterizza la gente di mare, si dirige velocemente  con la sua barca verso il Cruacin.
All’arrivo dei “soccorsi” Silvano si stava preparando al rientro, ma, ancora una volta, aveva sfidato i rischi di tale pesca in solitaria. E’ stato così che di lì a poco i nostri occhi puntati verso il grande scoglio con la luce sempre più debole, hanno visto stagliarsi le sagome delle due barche ed è stata una sensazione  bellissima. Nel frattempo Silvano e il pescatore avevano scoperto di conoscersi molto bene (Silvano a Bocca di Magra conosceva tutti) e tutto stava andando nel migliore dei modi.
Dopo aver toccato terra i convenevoli sono stati brevissimi a causa del  brutto tempo che incombeva, però  un altro colpo di scena era in agguato: il motore della nostra barca non andava più in moto.
Come in ogni barca che si rispetti non poteva mancare una robusta cima che in quel caso è stata preziosissima per far rimorchiare la nostra barca al “gozo” del pescatore che ci ha portato alla foce del fiume Magra, con il divertimento di Federico e Martina per il fatto di arrivare in porto trainati da un’altra barca.
L’attesa dei pregiati datteri da parte di Ciccio per i clienti del suo ristorante non era andata delusa, mentre noi il giorno dopo abbiamo gustato la squisita zuppa di datteri, piatto veramente speciale.
Soltanto da pochi decenni si è capito che quel tipo di pesca è dannosa per l’ambiente come alcune forme di caccia.
Però quelle scampagnate al mare sono  state una parentesi molto bella della nostra vita, com’era stato bello quel ritorno a casa con la pioggia che, ormai, non faceva più paura.

                                                                   


  Una vecchia filastrocca
di Marta



 

Da tantissimi anni, quando si avvicinava Capo d’anno, come di consuetudine, recito sempre questa filastrocca, che oggi voglio commentare:
“L’anno vecchio se ne va e mai più ritornerà!”.
Meno male che non tornerà, con tutte le brutture che abbiamo vissuto, in questo 2016, è totalmente da dimenticare: i profughi, il terremoto, l’alluvione, gli attacchi terroristici…
“Gli abbiamo dato una valigia di cattiverie e di impertinenze e gli abbiamo detto: porta via, è tutta roba mia!!!”.
Ora che siamo giunti alla fine di questo anno, noi italiani abbiamo anche problemi con il nostro Governo.
“Anno nuovo, avanti avanti, ti fan festa tutti quanti!”.
Tutti quanti noi, rimettiamo nel prossimo anno tutte le speranze. Giovani che trovino un lavoro, il Governo che sappia guidarci con onestà e con occhio benevolo verso le classi sociali più deboli.
“Tu! La gioia e la salute porta ai cari genitori”.
Noi anziani siamo come eterni bambini. Ci aspettiamo che coloro che ci tutelano abbiano per noi un occhio di riguardo, soprattutto per la nostra salute, per l’acquisto dei farmaci e per le visite mediche.
“Di essere buono ti prometto!”.
Ognuno di noi, nel bilancio del proprio animo, ci proponiamo di essere migliori o, almeno, ci proviamo…. Perché, solo così, possiamo trasmettere la positività e far funzionare tutte le nostre buone intenzioni.
“Anno nuovo benedetto”.
Sì, benedetto! Se sarai un Anno dove tutte le guerre cesseranno, le ostilità, le cattiverie, la forza del potere. Sarai benedetto se ci sarà dialogo tra Nazioni, armonia per vivere in convivenza con tutti i popoli della Terra.
Buon 2017 e che queste nostre speranze possano diventare realtà. Buon anno a tutti e tanta felicità.

                                                                                      

  Davanti al presepe
di Giuliana Rossini



 

Fin da piccola, fare il presepe per me è sempre stato un momento importante e pieno di fascino. Ultima di quattro fratelli, allestire il presepe era un mio preciso e piacevole compito, benché mio fratello e le mie due sorelle mi aiutassero e collaborassero con me.
Ricordo ancora quando la mia nonna paterna, Petronilla, mi regalò la mia prima statuina di gesso: un pastore che lei chiamava Zelindo. Non mi rammento, invece, come acquistai i primi importanti personaggi: Gesù, Maria e Giuseppe (me li regalarono i miei fratelli?), fatto sta che cominciò così il mio presepe. Monti e capanna fatti con legna da ardere, ricoperta di muschio, fiume e laghetto con specchi e vetri (della carta stagnola non si aveva ancora notizia), alcuni rami di abete a costituire boschi lussureggianti. La mangiatoia, all’inizio, era una semplice manciata di paglia tra aria e Giuseppe in attesa della nascita del Bambinello. Il tutto ricoperto di abbondante farina a simulare la neve, che serviva anche per tracciare le vie verso la capanna. Ero così orgogliosa di quel misero e semplice presepe! Cresceva piano piano, anno dopo anno. I miei fratelli ogni tanto rinunciando alla loro merenda, arrivavano a casa da scuola con un pacchettino per me che conteneva una nuova statuina. Grande era la mia gioia e la mia riconoscenza.
Ho continuato a fare il presepe anche dopo sposata, ricostruendolo nella mia nuova casa, personaggio dopo personaggio, mi sembrava così incantevole, per le mie due bambine, che aspettavano con gioia che aprissi i miei scatoloni. Oggi lo realizzo per i miei tre nipoti:
senza presepe mancherebbe qualcosa al Natale! Loro se lo aspettano e quando arrivano accorrono meravigliati e felici della capanna e io lascio che spostino e giochino liberamente con i vari personaggi, specialmente Ines, seduta su una seggiolina lì di fronte, e mostro loro gli eventuali nuovi acquisti. Anch’io, passando davanti a quel luogo magico, provo le stesse emozioni di quando ero bambina e talvolta mi soffermo ad osservarlo.
Ora ho un’ampia capanna acquistata ai grandi magazzini (anche se il presepe è piccolo e modesto) con una mangiatoia più consona di quella manciata di paglia di prima.
Ma, a proposito, Gesù dov’è veramente nato? In una stalla, come suggerisce l’evangelista Luca (“Gesù venne deposto in una mangiatoia”) o in una casa, come sostiene Matteo, quando ci racconta che i Magi entrarono in una casa per adorare Gesù?
Alcuni anni fa ebbi la fortuna di compiere un bel viaggio verso la Puglia che si rivelò, per me, anche molto interessante. Inizialmente volli passare per il Santuario di Loreto per visitare la Santa casetta di Nazareth lì custodita, dove, secondo la tradizione, vissero Gesù, Maria e Giuseppe. Si tratta di una stanzetta angusta, annerita dal tempo, un focolare dove Gesù crebbe in sapienza, età e grazie e Giuseppe e Maria si affaccendavano sereni nelle loro attività, ma pensosi verso il futuro di quel Figlio così diverso, con un destino che si prefigurava grandioso, ma anche carico di dolore!
Fu un momento speciale per me, di profonda commozione. Di fronte alla casetta, una bacheca raccontava, fra l’altro, come probabilmente essa fosse, in origine, appoggiata alla roccia, scavata per ottenere un altro ambiente, in modo simile, si diceva, ai sassi di Matera. (Recenti scavi hanno portato alla luce, a Nazareth, antiche costruzioni di questo tipo).
Proseguendo nel viaggio, giunti in prossimità di Bari, abbiamo preso la via di Matera per visitare i preziosi e bellissimi “sassi”: uno spettacolo straordinario, di una bellezza indicibile, un vero presepe scavato nella roccia, arroccato su una collina e rimasto intatto nei secoli, in cui ogni pietra racconta una storia, affacciato su una pianura brumosa dove sembravano risuonare le voci di antichi personaggi. Con la guida entrammo in una casa arredata poveramente dove, in un unico locale, vi erano un tavolino, qualche sedia, alcune suppellettili, un letto in ferro altissimo (sotto vi razzolavano le galline), un canterano nei cui cassetti aperti dormivano i più piccini, una cassapanca che serviva anche come giaciglio…
Un’apertura nella parete introduceva in un altro locale scavato nella roccia (veniva alla mente la parabola del Vangelo sulla casa costruita sulla roccia!) dove trovava posto una stalla: qui c’erano le sagome di un bue, un asino, una capretta…
Una improvvisa intuizione mi balena nella mente. E se…e se anche le antiche case di Betlemme fossero state costruite così? E se Maria e Giuseppe fossero stati accolti in una di queste misere costruzioni? Fra gente povera ma generosa? Certo occorrerebbe capovolgere l’idea dei due rifiutati da tutti, ma Maria era sul punto di partorire e per gli Ebrei accogliere i forestieri era un obbligo di primaria importanza. Ma poiché non c’era altro posto per loro, furono alloggiati in quella parte della casa disponibile, la stalla, per altro anche la più calda.
Luca lo dice chiaramente: “(Maria) diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2,7).
Sono giunta alla fine di questa lunga digressione volta a dimostrare che, se le cose stanno così, non c’è discrepanza fra i due evangelisti: Gesù è nato realmente in una stalla, come dice Luca, ma ha ragione anche Matteo quando ci comunica che i Magi entrarono in una casa per adorare Gesù, perché di una vera e propria casa si trattava. Se ben ricordo, questo stesso interrogativo fu sollevato proprio l’anno scorso, sulle pagine di questo giornalino.
Naturalmente quella che ho esposto è una pure e semplice intuizione, senza vere e proprie basi scientifiche, che ho voluto condividere con voi lettori. Del resto il fatto che Gesù sia nato in un luogo o in un altro nulla toglie alla grandiosità di un Dio che per amore, e solo per amore, si fa uomo, bambino indifeso, povero fra i poveri e dà la propria vita per noi. Solo un Dio poteva giungere a tanto! Rallegriamoci: Dio ci ama immensamente, uno ad uno e ci ha donato se stesso, il Verbo, la Luce vera, quella che illumina ogni uomo, come dice Giovanni; vivendo il Vangelo, la sua parola, anche noi possiamo diventare luci per dare luce e gioia non limitati al solo periodo natalizio, al presepe appena smantellato, ma doni perenni e preziosi per amare e condividere con chi ci sta accanto sia i momenti felici che quelli dolorosi della vita.

                                                                                               

  Caro Walter
di Paola g. Vitale



 

Caro Walter, puoi essere contento di tutti noi. Sabato 3, il pullman era abbastanza pieno e soprattutto era in perfetto orario. Avevo calcolato dieci minuti dopo la partenza da Casano e, scesa di casa, ho trovato il pullman già in attesa! Ero da sola a causa di importanti impedimenti per le altre tre persone che di solito partecipano.
È stato molto bello il giro panoramico della costa spezzina ed è stata molto prolungata la processione attraverso Portovenere. Lungo la passeggiata a mare, fino a sfiorare la Chiesetta di S.Pietro, la processione era una vera ordinata processione, data la dimensione della passeggiata lungomare, poi, come al solito si è allargata in dispersione. Due cose mi hanno sorpresa ed una in particolare e cioè la mancata sosta alla grotta di Maria SS. che si trova in fondo al sagrato di S.Lorenzo. Infatti, la Confraternita che apriva la processione si è diretta subito all'entrata in S.Lorenzo.
Io ho potuto pregare intensamente Maria SS. volgendo con commozione lo sguardo sul grande dipinto alla mia sinistra, dipinto in cui Maria porge Gesù Bambino penso a S.Antonio fino a sfiorare la fronte del Santo.
Tutto bene: S.Confessione, Santa Comunione e preghiera intensa per noi, per il mondo, per l'universo e per le vocazioni.
Deo gratis e tanti auguri al nostro Vescovo, al clero e a tutti .

                                                                       Paola G. Vitale - Luni Mare

Fervidi auguri al Paese, al Santuario e a Il Sentiero da Paola G.Vitale -

Da Luni Mare 3 Dicembre 2016

 


  LA MESSA DELLA SCUOLA
di Claudia




Stamani, ultimo giorno di scuola, si è celebrata la Santa Messa per gli alunni delle  nostre scuole. Dopo la parentesi dello scorso anno, quando la Messa si è svolta nella palestra delle Scuole Medie, quest’anno gli alunni sono tornati nella chiesa di Caffaggiola come di tradizione.
Avevo già negli anni passati partecipato a questo evento; devo dire che quando stamani sono entrata in chiesa ho provato un po’ di nostalgia per le messe  precedenti. Gli altri anni persino gli scalini dell’altare accoglievano i bimbi e il coro era composto dai ragazzi che fanno il musicale alle Medie. Quest’anno niente di tutto ciò… delle scuole elementari vi era solo la scuola di Isola, mentre delle Medie vi era un numero esiguo di alunni.
Domandando in giro ho capito il motivo: gli altri anni la Messa si celebrava all’interno dell’orario scolastico, mentre oggi le lezione terminavano alle 11,35 e i ragazzi potevano scegliere se andare a casa o alla Messa. Beh! Sono stata ragazza anch’io e quell’ora di Messa mi sembrava un’eternità – oggi è durata 30 minuti  - e sicuramente di fronte al bivio “Messa” o casa davanti alla TV, forse avrei scelto la seconda. Perché? Colpa dei ragazzi o di chi li dovrebbe educare? Il Catechismo  ci dovrebbe introdurre alla fede come scelta di vita, eppure la fede stenta non poco a farsi spazio nei pensieri dei nostri ragazzi. Non dovremmo dimenticare le nostre belle tradizioni  e la nostra cultura: l’Italia  è un paese, per tradizione e storia, cattolico. Purtroppo la corsa tecnologica mette in soffitta tradizione e fede. In occasione delle Cresime e delle Comunioni le nostre chiese sono gremite: per convinzione e partecipazione vera? Se stiamo due settimana in vacanza da scuola è grazie alla nascita di Gesù; stessa ragione, se sotto l’albero troviamo mille regali.
Se i nostri ragazzi fossero educati a riflettere prima di decidere, forse saprebbero rinunciare a 30 minuti di Play Station o di TV per vivere un momento particolare con i compagni, perché ci può solo arricchire. Comunque, GRAZIE ugualmente alle Maestre,  ad alcuni Professori e a don Andrea se anche quest’anno vi è stata questa cerimonia religiosa, nella speranza che nei prossimi anni scolastici si possa riscontrare maggiore sensibilità da parte dei “grandi” e rivedere la chiesa stracolma del passato con la partecipazione attiva e sentita di grandi e ragazzi.

                                                                                    

 


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