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Ortonovo, il paese dai tetti fumanti
di Romano Parodi
Da alcuni mesi c’è una simpatica gara sui social, ripresa
il mese scorso dal “Sentiero”: Decretare la parola più bella del nostro
dialetto; della più antica e storica; della più curiosa. Per la più bella ha
vinto Arman, oramai è ufficiale: è stata la più votata, oltre
venti preferenze. La più curiosa, per me, è skacin. (Era
la persona addetta a scacciare i cani dalla chiesa, “g’iè malvisto com i can
‘n k’iesha”).
La
più antica? Io non ho dubbi: canapug’io. (se qualcuno
conosce un altro significato me lo faccia sapere). Questo vocabolo dice in
maniera inequivocabile in che modo vivevano i nostri antenati ortonovesi; anzi,
corficianesi, perché come saprete, prima del 1200 Ortonovo si chiamava
Corficiano (dell’antico toponimo è rimasto Scorpaciano, il borgo per
antonomasia del nostro paese).
Canapug’io è
una parola che viene da molto lontano, Alto Medioevo. Cos’era un canapug’io?
Era un locale tutto affumicato; “G’iè nero com’n canapug’io” si dice
ancora oggi. Era il locale dove c’era il canicio, e come oramai
sapete, il canicio era un pianale di canne, legate fra di loro, che
poggiavano su una impalcatura, sopra il quale si mettevano le castagne, “il
pane dei poveri”, ad essiccare. Uno strato anche di trenta, quaranta cm di
spessore, che veniva rivoltato saltuariamente con un grosso rastrello. Delle
volte le canne anche se legate e monitorate di continuo, cedevano al minimo
movimento, e allora… si doveva interrompere la frola e rifare tutto: “top, ric, ric ricio, g’iè montà sunt ’l
canicio, ‘l canicio g’iè ato a volta,
a t d’arcont n’altra vota”. Generalmente era in mezzo alla stanza. Sotto,
per un mese e più, anche quaranta giorni, il fuoco restava sempre acceso: “fok
vio”, si diceva. La legna era grossa e, una volta ardente, durava anche
tutto il giorno, senza fare molto fumo. A me succede spesso anche adesso. La
sera, quando vado a letto il fuoco è spento, al mattino il grosso ciocco
continua ad essere rovente, vivo. Una volta mi è rimasto più giorni. Ma la
singolarità di questi locali era la mancanza del camino. Il fumo, seppur poco,
si spargeva per tutta la casa ed usciva dai tetti. Credo che servisse anche per
riscaldare la casa e disinfettarla. Questa pratica è durata centinaia di anni.
(Questa
era la tecnica usata nel paese di Ortonovo. In altri luoghi invece era proprio
il fumo stesso, caldo, ha essiccare le castagne, ma generalmente in capanni
fuori dalla casa. In questo caso si usava anche legna minuta e bucce secche,
conservata dall’anno prima).
Le
castagne secche poi venivano messe, da cinque a dieci kg alla volta, dentro un
lungo sacco che due uomini facevano roteare e sbattevano sopra un ceppo, per
dividerle dalla buccia; poi le donne con la soreta, eliminavano le
scorie.
Oggi,
ad Ortonovo, nelle pareti interne delle case, i sassi, sotto l’intonaco sono
neri; e il nero per anni è rispuntato dall’intonaco, per la disperazione dei
muratori. (Una volta non si intonacavano le pareti). Quindi nei mesi invernali,
dove bisognava fare i cuscion da portare ai mulini della Jara, e
ricavarne la ciana (la farina), tutte le case avevano i tetti fumanti.
Non solo ad Ortonovo beninteso. Alcuni anni or sono ho parlato con una
castelpogina anziana che me lo ha confermato, e mi ha detto anche: “Quante
volte, da ragazza ho fatto quella strada (d’l
Bianchin) con il sacco di cuscioni in testa. Delle volte era una
vera processione”. Eravamo negli anni trenta. Uno l’ho visto anch’io in
funzione. Era nella casa della Maria d Vincè, ed era già cadente:
eravamo negli anni quaranta (l’ho
fatto disegnare da Albé).
Ma
i canapug’i erano anche un ritrovo dove passare la serata. Come dice
anche il nostro Ceccardo, la sera gli ortonovesi vi andavano a veglia…..
Al
ceppo che in rossor fosco balena,
convien
la veglia che umile grandeggia
di
rocche e fusi, e di ricordi echeggia
con
un sussurro di continua vena/. Il veglio parla….
P.S. La strada, verso Castelpoggio e Volpiglione, e quella che portava
a Carrara passando dalla Foce, e quella della Bancola che portava a san
Martino, sono le più antiche del comune. Quella verso Ortonovo partiva da Ca’
d Luco, e saliva su, dietro il cimitero di Saroco, per poi congiungersi al
sentiero che portava a Carrara. Adesso sono impraticabili.
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RITORNO AL PADRE
di Anna Maria Tarolla
Sono passati nove anni da
quel mattino in cui Fabio lasciò la casa paterna in cerca di fortuna. Soffrì
come un cane nell'allontanarsi dal vecchio genitore. Un contadino semplice, talvolta
severo, ma tollerante, che amava immensamente il suo ragazzo, unico legame al
mondo che gli restava e per il quale avrebbe dato la vita. Fabio sapeva quanto
fosse stato arduo crescergli accanto, superare le ostinazioni, contro le quali
era stato difficile lottare quand'anche avesse voluto fare di testa sua. Quel
mattino il sole era già alto tra i rami della quercia: segno di buon augurio.
Erano i primi giorni dell'autunno ovattato dalla nebbia incombente. Fabio
lanciò un ultimo sguardo alla campagna, splendida coi suoi filari di vitigni,
ordinati come tanti soldati. Sfiorò con la mano l'altalena sotto la pergola di
rubizzo che si mise a cigolare. Gli tornarono alla mente i pomeriggi domenicali
trascorsi coi cugini che venivano a trovarlo e si divertivano a darsi spinte
su...su sempre più in alto.
Urtò con lo zaino la panca sotto il muro di edera ed all'istante si sollevò un
lieve venticello che rimosse le foglie secche. Quella panca costruita assieme a
suo padre coi tronchi d'ulivo, Fabio l'amava come una creatura; era lì che
sedeva spesso a riordinare i suoi pensieri. Il cancello si aprì subito al lieve
tocco della mano. Non era chiuso a chiave, del resto non ve n'era bisogno,
perché nessuno si sarebbe mai intrufolato furtivamente nella casa. Non si voltò
per l'ultimo saluto. Non lo fece di proposito: aveva gli occhi pieni di lacrime
e non voleva darlo a vedere. La “gigia” la vecchia corriera di paese col suo
clacson assordante lo stava chiamando.
< Dov'è il pa'? – chiese a Giovanna ferma sulla soglia, con lo
sguardo pieno di stupore indecisa se piangere o ridere di gioia.- E voi
Giovanna come state?> La buona tenera Giovanna, amica da sempre, l'unica che
si era presa cura del suo genitore in tutti quegli anni. < Fabio, che gioia,
sei tornato a casa...non mi sembra vero. Tuo padre ha faticato tutto il giorno,
poi, stanco, si è ritirato in camera.>
Finalmente lo vide. Era disteso sul grande letto dalla spalliera in ferro
battuto; uno splendido pezzo d' antiquariato che allora nessuno apprezzava e
considerava roba vecchia da buttare. Quel vecchio genitore che il tempo aveva
appena sfiorato, riposava, la testa reclinata e la faccia distesa che
eccezionalmente abbozzava un sorriso. Si
destò subito al tatto del bacio sulla fronte.< Fabio,sei tu ...ti aspettavo
questa sera. Sai c'è da radunare il fieno nella stalla e poi il campo novello
da arare. In cantina troverai le zucche per gli scherzi di carnevale.> Il
caro vecchio contadino, caparbio come al solito, non riusciva a rinnegare
neppure per un attimo il suo attaccamento alla terra. Quasi sperso in quel
letto enorme sotto il peso dell'imbottita, quel vecchio sembrava un bambino
indifeso a cui tenere la mano e raccontare la favola del lupo cattivo. E Fabio
aveva tante favole da raccontare al vecchio genitore: i suoi successi, la sua
ragazza e quel treno che tante volte avrebbe voluto rincorrere per fare ritorno
a casa e che era sempre in ritardo.
Soprattutto avrebbe voluto gridargli il suo amore e quanto gli fossero mancati
quegli occhi burberi, quelle mani forti che la sera gli rimboccavano le
coperte. Ma le parole erano ferme lì, a mezza gola e pesavano come un macigno.
La cena davanti al camino, in quella vigilia di Natale, parve a Fabio un
“convivio regale” immerso in un religioso silenzio, intervallato appena dallo
scoppiettio della legna. Quel silenzio portava fragranza di dolcezze, velava un
amore grande tra un padre ed un figlio che, per diffidenza o vergogna, non
sapevano dirselo.
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La befana
di Romano Parodi
Questa figura di
vecchia vestita di cenci, ha un’origine antica e pagana, legata al mondo
contadino (“ a s’ vest da contadina, a s’ met i frabalà”) e rappresenta l’anno
vecchio da buttare. In certi paesi un
fantoccio vestito di logori cenci e scarpe rotte (“ la p’fana al ven di nota
con la scarpa tuta rota”), veniva bruciato su un’alta catasta di legna. “ Brusc
la vekia”, si diceva. Una versione
cristianizzata, racconta che i Re Magi diretti a Betlemme con i doni per il
Bambinello, si fermarono ad un vecchio casolare per informarsi sulla via da
seguire. “Non so indicarvi la
strada perché non so nulla di questo Salvatore del mondo” risponde una
impertinente vecchietta. A sua volta la pettegola si mette a far domande ; cosa
portavano, da dove venivano, ecc; e poi, malgrado fosse invitata
insistentemente a seguirli, li derise e rifiutò. In seguito però si
pentì amaramente della sua scortesia e pensò a come farsi perdonare. Fece una
cesta di dolci e si mise in cammino. Sperava di raggiungerli, ma invece non li
rivide mai più. Nel suo lungo andare
si fermava ad ogni casolare a chiedere di loro e del Bambinello, e naturalmente
donava del dolciumi ai bambini che incontrava. Da allora ancora oggi
raggiunge ogni casa portando regali a tutti i bambini nella speranza che uno di
loro possa essere Gesù Bambino, il Salvatore del mondo. IRe Magi nel
frattempo procedevano spediti. Una stella cometa, ben visibile anche nelle
notti più buie, indicava loro la giusta direzione di marcia. Siamo nel cuore della
notte. Un pastorello dorme profondamente. Qualcosa lo disturba; si sveglia.
Fuori dalla capanna, c’è una luce nuova. Esce, e vede una stella cometa che,
alta nel cielo, avanza verso di lui; la seguono tre Re Magi e una piccola
folla. “Dove andate ? “
chiede.- “Non lo sai? E’ nato il Figlio di Dio; portiamo oro, incenso e mirra
“- rispondono i Magi. Il pastorello
vorrebbe unirsi a loro, ma si vergogna; non ha nulla, nemmeno un fiore: è
inverno. Torna triste all’ovile;
ma ecco, degli spini pungono i suoi piedi. Si ferma, guarda e vede un arbusto
con le foglie lucide e spinose, di un bel verde vivo. “ Porterò al Figlio
di Dio un bel rametto di agrifoglio”, decide. Ed eccolo alla
grotta. Felice e confuso si avvicina al Bambinello che ammicca sorridente;
sembrava lo stesse aspettando. Ma cosa succede?
Dalle sue mani (ferite dalle spine ), cadono alcune gocce di sangue, che subito
si trasformano in rosse perline sui verdi rametti. Il Bambinello gli
sorride, complice e felice. La Madonna prende i
rametti di agrifoglio e li espone sulla mangiatoia: la grotta è tutta una
festa. Al ritorno nel bosco,
un’altra sorpresa attende il pastorello: tra le lucenti foglie dell’agrifoglio
è tutto un rosseggiare di bacche vermiglie. Da quella notte di
mistero, l’agrifoglio viene offerto in segno di augurio alle persone care; ed è
col ginepro, un albero sacro, raro e protetto. Non tagliateli!.
P.S
Nella fuga verso
l’Egitto, dove resterà quattro anni, la Sacra Famiglia, per salvarsi dai
soldati di Erode, si nascose fra le fronde di un ginepro.
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Un pomeriggio d’agosto
di Millene Lazzoni Puglia
Le nostre vacanze estive
degli anni settanta si svolgevano abitualmente a lavorare tra la costruzione
della nostra seconda casa, l’orto e altre case, ma non mancavano le uscite
verso il mare con la “500” e la nostra barca che ci aspettava a Bocca di Magra.
Quel pomeriggio d’agosto del 1973 è stato molto diverso dal solito, anche se
inizialmente sembrava identico. Come consuetudine siamo arrivati con la “500”
azzurra e i nostri figli che nel sedile posteriore erano “sommersi” dai
classici giochi da mare, dato che nel portabagagli c’erano le attrezzature per
la pesca subacquea di Silvano, comprese le pesanti bombole di ossigeno, che
venivano trasbordate insieme a noi nella piccola barca di legno “Brucella”,
della quale Silvano non solo era il valido “capitano”, ma l’aveva anche
costruita con le proprie mani. Dimenticavo che c’era anche il “fuoribordo”,
motore indispensabile per “solcare il mare” che non si poteva lasciare
incustodito, il che faceva diventare il tutto molto laborioso e faticoso. Ripensandoci
il nome che Silvano aveva dato alla barca, “Tenace”, non poteva essere più
appropriato.
Finalmente si partiva e la nostra rotta era sempre la stessa, Punta Bianca,
dopo aver costeggiato la base del monte dove si trova la “tana del serpente” e
dopo il parco del castello di Fabbricotti che si erge più in alto in posizione
dominante con la splendida vista sulle Apuane. Dopo aver superato Punta Bianca
e alcune piccole spiagge, eccoci alla “nostra” spiaggia, molto più grande ma
divisa a metà da una piccola scogliera. Da lì guardando a ponente si stagliava
un grande scoglio detto “Cruacin” per un’antica croce di ferro arrugginita
murata sulla sommità, famoso allora per i prelibati “datteri”, molluschi che si
trovavano nella parte sommersa dello scoglio. Ed era proprio quella l’irresistibile
attrazione per Silvano, che era un maestro nel tirarli fuori dalla roccia dello
scoglio con un lavoro certosino di “mazzetta” per rompere e di “pinzetta” per
estrarli. Se aggiungiamo che il tutto era fatto sott’acqua con indosso la muta
e le bombole si capisce quanto fosse difficile e complicato. Silvano andava con
la barca, mentre io e i bambini rimanevamo come al solito in spiaggia che
si animava con l’arrivo di altre
persone. Anche quel pomeriggio stava trascorrendo serenamente, finché il sole
non ha iniziato ad oscurarsi per l’arrivo di nuvoloni che promettevano pioggia,
con conseguente spopolamento della spiaggia.
Anche le barche una dopo l’altra lasciavano l’arenile. A quel punto era
inevitabile che subentrasse una certa inquietudine, soprattutto per il fatto
che Silvano non stava ancora tornando dalla pesca, nonostante fossero già
passate tre ore. Quando era rimasta una sola barca nella spiaggia a fianco, ho
deciso con i bambini di fare i bagagli e di andare a chiedere aiuto a quel
pescatore. Federico, che aveva otto anni, portava la borsa dei giocattoli, io
tenevo la borsa grande e con l’altra mano Martina che aveva appena tre anni e
mezzo. E’ stato un sollievo arrivare dal pescatore e dirgli che ero preoccupata
per il ritardo di mio marito che era andato a fare pesca subacquea al
“Cruacin”.
Avuta la conferma che quel signore era
veramente un pescatore di Bocca di Magra e che conosceva benissimo il luogo,
con la solidarietà che caratterizza la gente di mare, si dirige velocemente con la sua barca verso il Cruacin.
All’arrivo dei “soccorsi” Silvano si stava preparando al rientro, ma, ancora
una volta, aveva sfidato i rischi di tale pesca in solitaria. E’ stato così che
di lì a poco i nostri occhi puntati verso il grande scoglio con la luce sempre più
debole, hanno visto stagliarsi le sagome delle due barche ed è stata una
sensazione bellissima. Nel frattempo
Silvano e il pescatore avevano scoperto di conoscersi molto bene (Silvano a
Bocca di Magra conosceva tutti) e tutto stava andando nel migliore dei modi.
Dopo aver toccato terra i convenevoli sono stati brevissimi a causa del brutto tempo che incombeva, però un altro colpo di scena era in agguato: il
motore della nostra barca non andava più in moto.
Come in ogni barca che si rispetti non poteva mancare una robusta cima che in
quel caso è stata preziosissima per far rimorchiare la nostra barca al “gozo”
del pescatore che ci ha portato alla foce del fiume Magra, con il divertimento
di Federico e Martina per il fatto di arrivare in porto trainati da un’altra
barca.
L’attesa dei pregiati datteri da parte di Ciccio per i clienti del suo
ristorante non era andata delusa, mentre noi il giorno dopo abbiamo gustato la
squisita zuppa di datteri, piatto veramente speciale.
Soltanto da pochi decenni si è capito che quel tipo di pesca è dannosa per
l’ambiente come alcune forme di caccia.
Però quelle scampagnate al mare sono state
una parentesi molto bella della nostra vita, com’era stato bello quel ritorno a
casa con la pioggia che, ormai, non faceva più paura.
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Una vecchia filastrocca
di Marta
Da tantissimi anni, quando
si avvicinava Capo d’anno, come di consuetudine, recito sempre questa
filastrocca, che oggi voglio commentare:
“L’anno vecchio se ne va e mai più
ritornerà!”.
Meno male che non tornerà, con tutte le brutture che abbiamo vissuto, in questo
2016, è totalmente da dimenticare: i profughi, il terremoto, l’alluvione, gli
attacchi terroristici…
“Gli abbiamo dato una valigia di
cattiverie e di impertinenze e gli abbiamo detto: porta via, è tutta roba
mia!!!”.
Ora che siamo giunti alla fine di questo anno, noi italiani abbiamo anche
problemi con il nostro Governo.
“Anno nuovo, avanti avanti, ti fan festa
tutti quanti!”.
Tutti quanti noi, rimettiamo nel prossimo anno tutte le speranze. Giovani che
trovino un lavoro, il Governo che sappia guidarci con onestà e con occhio
benevolo verso le classi sociali più deboli.
“Tu! La gioia e la salute porta ai cari
genitori”.
Noi anziani siamo come eterni bambini. Ci aspettiamo che coloro che ci tutelano
abbiano per noi un occhio di riguardo, soprattutto per la nostra salute, per
l’acquisto dei farmaci e per le visite mediche.
“Di essere buono ti prometto!”.
Ognuno di noi, nel bilancio del proprio animo, ci proponiamo di essere migliori
o, almeno, ci proviamo…. Perché, solo così, possiamo trasmettere la positività
e far funzionare tutte le nostre buone intenzioni.
“Anno nuovo benedetto”.
Sì, benedetto! Se sarai un Anno dove tutte le guerre cesseranno, le ostilità,
le cattiverie, la forza del potere. Sarai benedetto se ci sarà dialogo tra
Nazioni, armonia per vivere in convivenza con tutti i popoli della Terra.
Buon 2017 e che queste nostre speranze possano diventare realtà. Buon anno a
tutti e tanta felicità.
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Davanti al presepe
di Giuliana Rossini
Fin da piccola, fare il
presepe per me è sempre stato un momento importante e pieno di fascino. Ultima
di quattro fratelli, allestire il presepe era un mio preciso e piacevole
compito, benché mio fratello e le mie due sorelle mi aiutassero e
collaborassero con me.
Ricordo ancora quando la mia nonna paterna, Petronilla, mi regalò la mia prima
statuina di gesso: un pastore che lei chiamava Zelindo. Non mi rammento,
invece, come acquistai i primi importanti personaggi: Gesù, Maria e Giuseppe
(me li regalarono i miei fratelli?), fatto sta che cominciò così il mio
presepe. Monti e capanna fatti con legna da ardere, ricoperta di muschio, fiume
e laghetto con specchi e vetri (della carta stagnola non si aveva ancora
notizia), alcuni rami di abete a costituire boschi lussureggianti. La
mangiatoia, all’inizio, era una semplice manciata di paglia tra aria e Giuseppe
in attesa della nascita del Bambinello. Il tutto ricoperto di abbondante farina
a simulare la neve, che serviva anche per tracciare le vie verso la capanna.
Ero così orgogliosa di quel misero e semplice presepe! Cresceva piano piano,
anno dopo anno. I miei fratelli ogni tanto rinunciando alla loro merenda,
arrivavano a casa da scuola con un pacchettino per me che conteneva una nuova
statuina. Grande era la mia gioia e la mia riconoscenza.
Ho continuato a fare il presepe anche dopo sposata, ricostruendolo nella mia
nuova casa, personaggio dopo personaggio, mi sembrava così incantevole, per le
mie due bambine, che aspettavano con gioia che aprissi i miei scatoloni. Oggi
lo realizzo per i miei tre nipoti:
senza presepe mancherebbe qualcosa al Natale! Loro se lo aspettano e quando
arrivano accorrono meravigliati e felici della capanna e io lascio che spostino
e giochino liberamente con i vari personaggi, specialmente Ines, seduta su una
seggiolina lì di fronte, e mostro loro gli eventuali nuovi acquisti. Anch’io,
passando davanti a quel luogo magico, provo le stesse emozioni di quando ero
bambina e talvolta mi soffermo ad osservarlo.
Ora ho un’ampia capanna acquistata ai grandi magazzini (anche se il presepe è
piccolo e modesto) con una mangiatoia più consona di quella manciata di paglia
di prima.
Ma, a proposito, Gesù dov’è veramente nato? In una stalla, come suggerisce
l’evangelista Luca (“Gesù venne deposto
in una mangiatoia”) o in una casa, come sostiene Matteo, quando ci racconta
che i Magi entrarono in una casa per adorare Gesù?
Alcuni anni fa ebbi la fortuna di compiere un bel viaggio verso la Puglia che
si rivelò, per me, anche molto interessante. Inizialmente volli passare per il
Santuario di Loreto per visitare la Santa casetta di Nazareth lì custodita,
dove, secondo la tradizione, vissero Gesù, Maria e Giuseppe. Si tratta di una
stanzetta angusta, annerita dal tempo, un focolare dove Gesù crebbe in
sapienza, età e grazie e Giuseppe e Maria si affaccendavano sereni nelle loro
attività, ma pensosi verso il futuro di quel Figlio così diverso, con un
destino che si prefigurava grandioso, ma anche carico di dolore!
Fu un momento speciale per me, di profonda commozione. Di fronte alla casetta,
una bacheca raccontava, fra l’altro, come probabilmente essa fosse, in origine,
appoggiata alla roccia, scavata per ottenere un altro ambiente, in modo simile,
si diceva, ai sassi di Matera. (Recenti scavi hanno portato alla luce, a
Nazareth, antiche costruzioni di questo tipo).
Proseguendo nel viaggio, giunti in prossimità di Bari, abbiamo preso la via di
Matera per visitare i preziosi e bellissimi “sassi”: uno spettacolo
straordinario, di una bellezza indicibile, un vero presepe scavato nella
roccia, arroccato su una collina e rimasto intatto nei secoli, in cui ogni
pietra racconta una storia, affacciato su una pianura brumosa dove sembravano
risuonare le voci di antichi personaggi. Con la guida entrammo in una casa
arredata poveramente dove, in un unico locale, vi erano un tavolino, qualche
sedia, alcune suppellettili, un letto in ferro altissimo (sotto vi razzolavano
le galline), un canterano nei cui cassetti aperti dormivano i più piccini, una
cassapanca che serviva anche come giaciglio…
Un’apertura nella parete introduceva in un altro locale scavato nella roccia
(veniva alla mente la parabola del Vangelo sulla casa costruita sulla roccia!)
dove trovava posto una stalla: qui c’erano le sagome di un bue, un asino, una
capretta…
Una improvvisa intuizione mi balena nella mente. E se…e se anche le antiche
case di Betlemme fossero state costruite così? E se Maria e Giuseppe fossero
stati accolti in una di queste misere costruzioni? Fra gente povera ma
generosa? Certo occorrerebbe capovolgere l’idea dei due rifiutati da tutti, ma
Maria era sul punto di partorire e per gli Ebrei accogliere i forestieri era un
obbligo di primaria importanza. Ma poiché non c’era altro posto per loro,
furono alloggiati in quella parte della casa disponibile, la stalla, per altro
anche la più calda.
Luca lo dice chiaramente: “(Maria) diede alla luce il suo figlio primogenito,
lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2,7).
Sono giunta alla fine di questa lunga digressione volta a dimostrare che, se le
cose stanno così, non c’è discrepanza fra i due evangelisti: Gesù è nato
realmente in una stalla, come dice Luca, ma ha ragione anche Matteo quando ci
comunica che i Magi entrarono in una casa per adorare Gesù, perché di una vera
e propria casa si trattava. Se ben ricordo, questo stesso interrogativo fu
sollevato proprio l’anno scorso, sulle pagine di questo giornalino.
Naturalmente quella che ho esposto è una pure e semplice intuizione, senza vere
e proprie basi scientifiche, che ho voluto condividere con voi lettori. Del
resto il fatto che Gesù sia nato in un luogo o in un altro nulla toglie alla
grandiosità di un Dio che per amore, e solo per amore, si fa uomo, bambino indifeso,
povero fra i poveri e dà la propria vita per noi. Solo un Dio poteva giungere a
tanto! Rallegriamoci: Dio ci ama immensamente, uno ad uno e ci ha donato se
stesso, il Verbo, la Luce vera, quella che illumina ogni uomo, come dice
Giovanni; vivendo il Vangelo, la sua parola, anche noi possiamo diventare luci
per dare luce e gioia non limitati al solo periodo natalizio, al presepe appena
smantellato, ma doni perenni e preziosi per amare e condividere con chi ci sta
accanto sia i momenti felici che quelli dolorosi della vita.
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Caro Walter
di Paola g. Vitale
Caro Walter, puoi essere
contento di tutti noi. Sabato 3, il pullman era abbastanza pieno e soprattutto
era in perfetto orario. Avevo calcolato dieci minuti dopo la partenza da Casano
e, scesa di casa, ho trovato il pullman già in attesa! Ero da sola a causa di
importanti impedimenti per le altre tre persone che di solito partecipano.
È stato molto bello il giro panoramico della costa spezzina ed è stata molto
prolungata la processione attraverso Portovenere. Lungo la passeggiata a mare,
fino a sfiorare la Chiesetta di S.Pietro, la processione era una vera ordinata
processione, data la dimensione della passeggiata lungomare, poi, come al
solito si è allargata in dispersione. Due cose mi hanno sorpresa ed una in
particolare e cioè la mancata sosta alla grotta di Maria SS. che si trova in
fondo al sagrato di S.Lorenzo. Infatti, la Confraternita che apriva la
processione si è diretta subito all'entrata in S.Lorenzo.
Io ho potuto pregare intensamente Maria SS. volgendo con commozione lo sguardo
sul grande dipinto alla mia sinistra, dipinto in cui Maria porge Gesù Bambino
penso a S.Antonio fino a sfiorare la fronte del Santo.
Tutto bene: S.Confessione, Santa Comunione e preghiera intensa per noi, per il
mondo, per l'universo e per le vocazioni.
Deo gratis e tanti auguri al nostro Vescovo, al clero e a tutti .
Paola
G. Vitale - Luni Mare
Fervidi auguri al Paese, al
Santuario e a Il Sentiero da Paola G.Vitale -
Da Luni Mare 3 Dicembre
2016
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LA MESSA DELLA SCUOLA
di Claudia
Stamani, ultimo giorno di
scuola, si è celebrata la Santa Messa per gli alunni delle nostre scuole. Dopo la parentesi dello scorso
anno, quando la Messa si è svolta nella palestra delle Scuole Medie, quest’anno
gli alunni sono tornati nella chiesa di Caffaggiola come di tradizione.
Avevo già negli anni passati partecipato a questo evento; devo dire che quando
stamani sono entrata in chiesa ho provato un po’ di nostalgia per le messe precedenti. Gli altri anni persino gli
scalini dell’altare accoglievano i bimbi e il coro era composto dai ragazzi che
fanno il musicale alle Medie. Quest’anno niente di tutto ciò… delle scuole
elementari vi era solo la scuola di Isola, mentre delle Medie vi era un numero
esiguo di alunni.
Domandando in giro ho capito il motivo: gli altri anni la Messa si celebrava
all’interno dell’orario scolastico, mentre oggi le lezione terminavano alle
11,35 e i ragazzi potevano scegliere se andare a casa o alla Messa. Beh! Sono
stata ragazza anch’io e quell’ora di Messa mi sembrava un’eternità – oggi è
durata 30 minuti - e sicuramente di
fronte al bivio “Messa” o casa davanti alla TV, forse avrei scelto la seconda.
Perché? Colpa dei ragazzi o di chi li dovrebbe educare? Il Catechismo ci dovrebbe introdurre alla fede come scelta
di vita, eppure la fede stenta non poco a farsi spazio nei pensieri dei nostri
ragazzi. Non dovremmo dimenticare le nostre belle tradizioni e la nostra cultura: l’Italia è un paese, per tradizione e storia,
cattolico. Purtroppo la corsa tecnologica mette in soffitta tradizione e fede.
In occasione delle Cresime e delle Comunioni le nostre chiese sono gremite: per
convinzione e partecipazione vera? Se stiamo due settimana in vacanza da scuola
è grazie alla nascita di Gesù; stessa ragione, se sotto l’albero troviamo mille
regali.
Se i nostri ragazzi fossero educati a riflettere prima di decidere, forse saprebbero
rinunciare a 30 minuti di Play Station o di TV per vivere un momento
particolare con i compagni, perché ci può solo arricchire. Comunque, GRAZIE
ugualmente alle Maestre, ad alcuni
Professori e a don Andrea se anche quest’anno vi è stata questa cerimonia
religiosa, nella speranza che nei prossimi anni scolastici si possa riscontrare
maggiore sensibilità da parte dei “grandi” e rivedere la chiesa stracolma del
passato con la partecipazione attiva e sentita di grandi e ragazzi.
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