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I giovani incontrano l'Europa
di Millene Lazzoni Puglia
Ci
conosceremo, miei giovani coetanei d’Europa!
Ci
daremo la mano ed un bacio sulla guancia;
confideremo
le nostre gioie, ansie, timori, ambizioni,
e
progetti di un nuovo futuro insieme.
Io vi
porterò un raggio del mio sole,
un
lembo di spiaggia dorata e voglia di vita nuova.
In
cambio mi basterà un tulipano da deporre
sul
selciato che fu bagnato di sangue;
sentire
fra li dita il calcinaccio d’un muro sgretolato,
la
musica d’un violino magiaro;
spargere
sabbia sulla Ceca terra deturpata dai cingoli;
accarezzare
il volto di chi ancora giovane
ha
sofferto per rinvigorire la sua linfa di vita.
E
insieme costruire un mondo tutto nostro
di Pace e Libertà.
Silvano
e Martina Puglia (estate 1991)
Con questa poesia presentata al Concorso “I giovani incontrano l’Europa”, aperto a
tutti i ragazzi europei, Martina ha vinto una vacanza al mare a Iesolo
nell’estate 1991.
Questa poesia ricorda un periodo felice
di ben 25 anni fa, quando il ‘sogno’ europeo era una realtà per quasi tutti noi.
Io ero fra questi e avevo insistito e ‘rotto’ in famiglia perché questa poesia
fosse scritta e che Martina (allora ventenne) partecipasse a quel Concorso
indetto non solo dalla RAI ma anche dai vari movimenti politici, culturali e
varie associazioni giovanili europee, facendo così parte di un gruppo ESP
(Europa - Struttura - Progetto) come giovane ragazza europea. Ed era stata una
bellissima idea, perché dopo quella vacanza a Iesolo sono venute altre
esperienze con viaggi culturali a Torino, Roma, Orbetello con altri giovani
europei, non soltanto italiani.
A suo tempo questa poesia (scritta soprattutto da Silvano) mi aveva molto
emozionata; nel 1991 era da poco caduto il muro di Berlino e il futuro
dell’Europa si delineava meraviglioso con la libera circolazione delle persone
e delle merci e col mercato unico ormai alle porte.
Oggi che in Europa sono sorti tanti problemi riguardo alla libera circolazione
sia delle merci sia delle persone; oggi
che stanno sorgendo nuovi ‘muri’ in un’Europa martoriata, questa poesia mi
emoziona ancora di più…, però, ahimé, in un modo diverso, perché è come la fine
di un bel sogno.
L’ESP era finito da poco (per mancanza di fondi) quando è nato il ‘Progetto
Erasmus’ per far crescere insieme i nuovi giovani europei.
Però è certo che in Europa qualcosa non funziona; forse i politici dovrebbero
rivedere un po’ il loro ‘impegno’ al riguardo. Noi persone comuni possiamo
soltanto prenderne coscienza molto amaramente.
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I 'coccini' di San Lorenzo
di Paola G. Vitale
Quelle piccole terrecotte
smaltate hanno sempre esercitato un fascino speciale su di me, tanto è vero che
ne conservo ancora più di un pezzo.
Per la festa di San Lorenzo ero sempre in campagna presso i nonni materni e
sempre riuscivo a farmi regalare tre o quattro ‘coccini’, cioè la pentolina, la
piccola padella e almeno una brocchetta.
Era sentita la festa anche laggiù fuori paese, in fondo ai campi ben tenuti.
Mia nonna preparava un pranzo ricco e una panca coperta di dolci, come il Pan
degli Angeli, il ciambellone, i biscotti grandi, mentre il nonno portava su il
vin dolce. E poi arrivavano puntuali i numerosi parenti dal prospicente Pian di
Pisa.
La prima cosa per me era la Santa Messa, su in cima al paese; la nonna mi
preparava con cura e mi faceva incamminare per tempo, data la distanza. La bella
chiesa ospita l’affresco del Santo Lorenzo, nel frontone sopra la porta
centrale. Era, ed è, la chiesa in cui ho ricevuto il Battesimo e il bellissimo
attestato di affidamento al santo Angelo Custode.
Ricordo il piazzale pieno di ghiaia che ospitava, a quei tempi, la fiera del
bestiame, nonostante l’espresso disappunto del “Don” in carica. La Messa era in
latino e abbastanza prolungata nella chiesa gremita e colorata dalla luce
filtrante dai rosoni laterali.
Come era diverso e libero il tempo di quelle giornate! Alla sera, quando i parenti se ne erano
andati, la nonna indossava “il grembiule nuovo” della domenica e pian piano
sfilavamo lungo l’unica via del paese fini davanti all’emporio che esponeva
ceste piene di terrecotte e attrezzi agricoli, e poi, piano piano, su fino alla
gelateria tenuta dalle stesse persone che venivano a ritirare il latte fin da
mio nonno.
Si faceva notte e tornavamo a casa stanche e contente, ringraziando il Santo
Patrono.
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Appunti di un Pellegrino
di Gualtiero Sollazzi
Il sarchiapone
I più anziani ricorderanno una gag in TV. Due
figuri, i comici Walter Chiari e Giogio Campanini, terrorizzano i passeggeri
dello scompartimento di un treno indicando un “sarchiapone” chiuso in una
scatola sul portabagagli. Quelli scappano.
La balla serve a quei due per viaggiare indisturbati. Il terribile animale è
del tutto inventato. Sembra una parabola dedicata ai creduloni. Con un
proverbio: “Per ogni volpe in giro, c’è sempre un pollo a tiro”.
“Bevi, compagno”, scrivevano nel ‘48, accanto ai manifesti del vecchio Partito
Comunista, gli avversari. Ma ancora “si beve”. Basta che si parli di
un’apparizione e tutti non solo a curiosare, ma a credere tutto. Con risultati
deludenti, come tempo fa in una cittadina della Valdera. “Appare la Madonna, la
vede un ragazzino!” Tutti a spergiurare che Lei appariva, mandando al diavolo
Vescovo e Parroco che invitavano a un po’ di prudenza. Con beffa finale del
“veggente”: “Ho tutto inventato!”.
Non va dimenticato l’invito di Gesù sugli ultimi tempi, ma valido anche per
questi: “Se dunque vi diranno: Ecco, è nel deserto, non ci andate; o: E’ in
casa, non ci credete”.
Stop, allora, al credulismo e ripassiamo l’invito di Dante: “Siate,
cristiani, a muovervi più gravi:/ non
siate come penna ad ogne vento,/e non crediate ch’ogne acqua vi lavi./Avete il
novo e l’vecchio Testamento, /e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida;/ questo vi
basti a vostro salvamento”.
Cenacolo in piazza
Una
comunità cristiana, se vuol annunciare il Vangelo e testimoniarlo, sa di non
dover rinunciare a due “luoghi”: cenacolo e piazza. Se non rivive la scelta
degli apostoli che “al piano superiore erano assidui e concordi nella preghiera
insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù”, ogni iniziativa
pastorale, anche la più brillante, sarà vana.
Pure la scelta della sola “piazza” darà scarsi frutti. L’abbinamento, invece,
il “matrimonio” direbbe mons. Ablondi, fra due poli così significativi, è
efficace. Si realizza il Vangelo se si avrà sete di Cenacolo “un po’ di Te in
noi, mio Dio” (Etty Hillesum) e la sete di uscire sulle piazze “ma con la veste
battesimale” direbbe Tonino Bello.
Così una Chiesa unita in preghiera e in uscita verso il mondo della scuola,
della fabbrica, degli ambienti, sarà una Chiesa non ripiegata su se stessa, ma
con le vele aperte al vento dello Spirito e potrà annunciare le grandi opere di
Dio.
Sarebbe stupendo se il cristiano facesse suo, appassionatamente il “sogno” di
Romano Guardini: “Una Chiesa che guarda alle stelle e sta attenta ai vicoli”.
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Lettera a “Il Sentiero”
di Mila
Caro Sentiero,
l’ultima
volta che ti ho scritto mio marito mi ha domandato perché scrivo sempre in
forma di lettera, gli ho risposto che per me è come salutare tutte quelle
“ragazze” che leggono “Il Sentiero” e
che ho avuto occasione di conoscere più che altro nelle varie manifestazioni
religiose, ma soprattutto ai pellegrinaggi del 1° sabato del mese.
Ciao “ragazze”, grazie dell’affetto che mi avete sempre dimostrato e
dell’interesse per i miei poveri scritti. Per me sono un modo per evadere dalla
noia che a volte mi opprime, anche se ho sempre tante cose da fare. Mentre
scrivo mi sembra proprio di essere seduta da qualche parte a chiacchierare con
voi e spero tanto che anche voi proviate nei miei confronti gli stessi
sentimenti. Comunque dopo quest’ultimo scritto non più “Caro Sentiero” ma
semplici titoli secondo l’argomento.
Veramente in questo ultimo anno non ho scritto molto, quando si fa la nonna a
tempo pieno non è facile coltivare altri interessi. Per lo stesso motivo ho
potuto partecipare soltanto a pochi pellegrinaggi, e pensare che mi piace
tanto!
Nel pellegrinaggio del 1° sabato di luglio abbiamo fatto visita alla Madonna di
Caravaggio in Valgiuncata di Zignago.
Quattro case in mezzo al bosco e alla fine del paese una piccola chiesa-santuario
semplicemente meravigliosa. Dentro la chiesa c’era anche uno di quei grossi e
pesanti crocifissi che a volte si vedono nelle processioni “importanti”; era
appena stato restaurato. Io mi sono domandata com’è che una volta era questione
d’orgoglio per gli abitanti di un paese, piccolo o grande che fosse, avere una
bella chiesa, invece adesso sembra che le chiese siano diventate semplicemente
degli optional e questo non soltanto per i laici.
Noi, abitanti di Luni Mare, aspettiamo il nostro campanile da più di
trent’anni, ormai abbiamo perso le speranze e probabilmente dovremo
accontentarci di quella specie di edificio rimasto incompiuto e che ormai sta diventando
un rudere. Colpa del Comune? colpa della Curia? I fedeli sono pochi, non ci sono
soldi, non ci sono preti; io a volte mi domando ma il popolo, il popolo di Dio
cosa ne pensa? Forse non ci capisce più niente, forse pensa che non ci sia più
neanche Nostro Signore. Ormai siamo scoraggiati e stanchi e ci sentiamo anche
un po' presi in giro e questa non è una sensazione soltanto mia, ma si sente
anche parlando con la gente, sia i residenti che i villeggianti.
Scusate lo sfogo, ci sentiamo.
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Adelinde e Parzival, Una decisione importante: un sodalizio che vale più dell’oro
di Marta
Durante una gara di
equitazione in queste ultime Olimpiadi, una atleta olandese lascia le gare per
salvare il suo cavallo! (sembra una notizia inverosimile). Il cavallo si chiama
Parzival e la sua “padroncina” Adelinde Cornelissen; assieme hanno lavorato
molto e hanno ottenuto ottimi risultati; quest’anno speravano proprio in una
medaglia d’oro. E così, giorno dopo giorno,
con tanto impegno, tanto allenamento è arrivato il momento delle gare. I
presupposti ci sono tutti per arrivare al massimo traguardo. Ma il destino non
è di certo molto propizio per loro. A soli tre giorni dalla gara
il cavallo viene punto da un insetto provocando febbre alta e un gonfiore sul
muso, tanto da impedirgli una buona visuale. Rischia forse anche la morte,
dicono i medici del team olandese. La febbre alta dura due giorni, durante i
quali Adelinde non lo lascia solo neanche un momento il suo Parzival: neanche
la notte.Il giorno della gara, medici
e tecnici sostengono che può gareggiare; viene iscritto, ha il numero 349. Ma Adelinde sente che il
cavallo non è più il “suo” cavallo; non è più quello di prima, anche se
risponde agli ordini e incitamenti della sua cavallerizza. Le sfiora il dubbio
che Parzival potrebbe avere delle serie conseguenze da quella gara forzata; è
un suo personale presentimento. E così decide di non gareggiare: si ritira dal
torneo olimpico. “Il mio cavallo è il mio
compagno di una vita; il mio più caro amico; ha dato tutto per me durante la
sua vita; non merita di rischiare tutto questo. Il mio cavallo è più importante
di una medaglia d’oro”. Questo dice Adelinde Cornelissen, quattro volte
campionessa europea e campionessa mondiale. Brava, Adelinde, il legami
che si instaura col proprio animale è qualcosa di unico, di speciale. Tanta
stima e ammirazione per questa atleta, e ricordiamoci che la grandezza di un
uomo si vede anche da piccoli gesti.
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Di Cupido, ovverosia dell’Amore
di Una gentile signora che ha voluto mantenere l'anonimato
“In illo tempore” (anni
’20-’30) le cose andavano così. Cupido lanciava la sua freccia e colpiva il
cuore del malcapitato che da quel momento in poi non avrebbe avuto più pace.
Incominciava l’assalto alla conquista dell’amata. Se non si trattava di una
compagna di scuola o di un’amica di famiglia, l’incontro fatale poteva avvenire
per strada, in tram, in treno o altrove. “Permette, signorina?”, era la frase
tipica dell’approccio cui seguiva il gesto galante di togliersi il cappello con
un leggero inchino (gesto ormai quasi del tutto scomparso). Se la richiesta
veniva accettata, la prima vittoria era conseguita. Da allora cominciavano gli
incontri segreti e furtivi (i genitori non dovevano sapere) che potevano
avvenire in un parco, al cinema o in un piccolo romantico caffè. Un’altra strategia era quella della lettera,
la dichiarazione d’amore, che quasi sempre incominciava così: “Gentile
signorina, dal primo giorno che l’ho vista, non faccio che pensare a lei…” e
via frasi d’amore appassionate. Per chi non se la cavava molto in italiano,
esisteva un libro “Il segretario galante”, dove poteva trovare quello che
faceva al suo bisogno.
In questa prima fase i due colombi imparavano a conoscersi. Nelle effusioni
amorose lei non doveva mai prendere l’iniziativa perché correva il rischio di
sembrare una ragazza poco seria. Infine
veniva il giorno in cui lui si recava a casa dell’amata per chiedere la sua
mano ai genitori. Si faceva precedere, secondo il galateo, da un mazzo di fiori
(rose o garofani) e portava “l’anello di fidanzamento” (d’oro con un solo
brillante, il solitario, vero o falso, a seconda delle possibilità di lui). Da
quel momento i due erano fidanzati “ufficiali” cioè “promessi sposi”. Cominciava allora la sorveglianza dei famigliari sui due colombi perché la
sposa arrivasse illibata al matrimonio. Da piccola sono stata la “chaperon” (N.d.r. Signora di mezz'età che accompagnava le giovani non sposate) di
una mia zia per ordine della nonna. Mi conduceva in salotto dove stavano i
fidanzati e mi diceva: “Non ti muovere di qui!”. Io, nonostante i due colombi
cercassero di corrompermi con caramelle o altri dolciumi, restavo lì, fedele
alla consegna, come un soldatino, magari sfogliando il “Corriere dei piccoli” o
giocando con la mia bambola. Il fidanzamento poteva durare pochi mesi, ma alle volte anche parecchi anni.
Durante questo periodo nella casa della futura sposa si preparava il corredo,
cioè tutta la biancheria per la casa dei futuri sposi. Bisogna sapere che
allora, già da piccole, le bambine venivano mandate dalle suore per imparare a
ricamare, e già dalla scuola elementare (terza classe) c’era il voto di
economia domestica (all’esame la bambina, come prova, doveva saper cucire un
orlo). Quindi molti capi del corredo erano ricamati dalla futura sposa. Ho
ancora nel mio corredo le lenzuola e federe ricamate da me con orli a giorno,
punto smerlo, gigliuccio, ecc… . Il corredo veniva conservato in un baule ed
era esposto aperto tra i regali di nozze nei giorni precedenti la cerimonia.
Più la famiglia era abbiente, più ricco era il corredo, che comprendeva
tovaglie, asciugamani, lenzuola, tutti rigorosamente bianchi, di lino o cotone. Ed ecco arrivare il grande
giorno, preceduto, come anche oggi, dall’invio delle partecipazioni e degli
inviti. L’abito della sposa veniva cucito da una sarta (la più rinomata per
questo, nel luogo), bianco, lungo, aveva una piccola scollatura e le maniche
lunghe (oggi hanno scollature ardite inconcepibili per quei tempi in chiesa!).
Dalla modista si andava a comprare il piccolo diadema di fiori di arancio e cera che avrebbe
trattenuto il velo. Anche l’abito dello sposo veniva cucito dal suo sarto di fiducia; generalmente
blu, doppio petto, cravatta argentea. In chiesa, durante la cerimonia, in genere, i suoni dell’organo venivano
accompagnati dal canto dell’Ave Maria di Schubert. Non esisteva l’usanza del
lancio del mazzolino della sposa, mentre c’era quella del lancio del riso. Dopo il pranzo di nozze, che era preparato in casa con l’aiuto di un cuoco
specializzato (dato che gli invitati non erano così numerosi come al giorno
d’oggi e le feste venivano vissute nell’ambito della famiglia), gli sposi
distribuivano le bomboniere con i confetti già benedette nel rito religioso.
Poi, finalmente, potendolo fare (mica tutti se lo potevano permettere!), c’era la
partenza per il viaggio di nozze. Le mete erano quasi sempre Roma, Firenze,
Milano, Venezia. Da quelle città arrivavano a casa le cartoline illustrate, a
colori, con i luoghi visitati, che in casa passavano di mano in mano tra
esclamazioni di meraviglia (allora la TV non ci portava il mondo in casa!). Si concludeva così la storia cominciata con “Permette signorina?” e nasceva una
nuova famiglia italiana. Se Cupido aveva colpito nel segno con la sua freccia,
il matrimonio durava per tutta la vita (il mio è durato sessant’anni!). In caso
contrario non c’era nulla da fare (il divorzio era di là da venire). Ma
riflettendo su come vanno oggi le cose, non sarà che Cupido, così invecchiato,
non sappia più prendere la mira per scagliare nuove frecce?
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Un otto settembre un po' particolare
di Giuseppe Franciosi (1994)
Riproponiamo ai lettori questo articolo del Preside
Franciosi già pubblicato oltre 20 anni fa (1994). Vogliamo con questo tenere
vivo il ricordo di questo grande personaggio e anche rivivere la festa della
Madonna di quegli anni.
A Ortonovo ci sono tante feste: San
Martino, San Giuseppe, San Guglielmo, ecc. ecc., ma sono feste che lasciano il
tempo che trovano; ognuno di noi festeggia il suo Santo e si interessa poco o
niente degli altri Santi. C’è però una festa che è la festa di tutti, di quelli
di Ortonovo centro storico, di quelli di Casano, di Isola, di Nicola: è la
festa dell’8 settembre, ‘la festa della Madonna’.
Tutti facciamo festa quel giorno; di giorno o di notte, tutti andiamo su, al
santuario; la Madonna per me è stata sempre la festa più grande, col Natale.
Quel giorno arriva tanta gente, da Carrara, da Sarzana, da Ameglia, da tanti
paesi; c’è la processione, ci sono i fuochi d’artificio, la pesca di
beneficenza, c’è l’illuminazione, la grande illuminazione di tutto il paese, ma
soprattutto del Santuario. Oggi, dappertutto si vedono monumenti e chiese
illuminati, ma una volta l’illuminazione del Santuario era una cosa
eccezionale.
Quando ero a Piana Battola, la sera della vigilia, con altra gente, uscivamo
dal paese e raggiungevamo una località dalla quale si vedeva, lontano, una
grande luce: i grandi dicevano che era il Santuario di Ortonovo. Una volta le
gente incominciava ad arrivare già nel primo mattino della vigilia a piedi e
questo pellegrinaggio andava avanti tutta la notte e continuava la mattina
dell’8 fino a mezzogiorno. Tanta gente stava lassù tutta la notte, qualcuno
dormiva in chiesa, nelle panche, dove capitava. Oggi è tutto cambiato: il
pomeriggio della vigilia non si vede nessuno; la gente arriva dopo cena in auto
o in corriera fino alla Piazza XXIX novembre (a Casano) e poi, con un’altra
corriera, più piccola, si sale a Ortonovo. Oggi tutto si fa in fretta: si va
su, si sosta un po’ e poi si riparte.
Quando tutti andavamo su a piedi, a ogni curva della mulattiera, sistemati per
terra, vedevamo dei mendicanti che ai pellegrini chiedevano l’elemosina. “La
Madonna ve ne renda merito”, dicevano a tutti. Qualche mendicante a chi gli
faceva l’offerta consegnava un foglietto, il “Pianeta della Fortuna” che
conteneva anche i numeri del lotto: io non li ho mai giocati. Ho provato sempre
un senso di vergogna a tentare di risolvere i miei problemi col gioco. Il
mendicante sembrava, un tempo, un elemento normale nel panorama italiano; lungo
la strada, come vedevi gli alberi, così non ti meravigliavi di vedere anche i
mendicanti. Il ‘Barba’, ricordo, si era dato un regolamento: ogni giorno al
primo che passava dovevamo dare una lira, al secondo mezza lira, a tutti gli
altri dieci centesimi.
Quando andavo all’estero i mendicanti non li vedevo, sentivo ancor più viva
l’umiliazione; oggi, e da molto tempo ormai, ce ne siamo liberati anche noi
italiani: ne sia ringraziato Dio.
Ricordo i pranzi dell’8 settembre a casa di mia nonna, la Palmì; quel giorno a
casa di mia nonna c’eravamo tutti: noi di Ortonovo, i parenti di Fontia, di
Arcola, di Spezia; quel giorno (anche il giorno dei Morti) rivedevo tutti gli
zii, tutti i cugini. Il pranzo era lungo, finiva tardi; dalla sala dove erano i
grandi (noi ragazzi eravamo in cucina), giungeva un gran parlare.
Non mancava mai la torta di riso; tutti quel giorno la mangiavamo (forse non è
vero), ma la mangiavamo solo quel giorno. Di solito a capotavola sedeva mio zio
‘Milié’; gli volevo bene. Era un cacciatore fanatico, ma gli uccelletti non li
mangiava: li regalava. Nel 1940, quando incominciai a frequentare il Liceo
Classico di Carrara, mi recavo tutti giorni a scuola in bicicletta; mio zio,
per permettermi di difendermi dalla pioggia (non feci mai un giorno di assenza
ed il Preside un giorno lo rilevò davanti a tutta la classe), mi regalò il suo
impermeabile. Grazie, zio, anche se (ma che colpa ne avevi tu?) era un po’
troppo corto (mi arrivava alle ginocchia) e un po’ troppo largo (ci stavo
dentro due volte). Io ero un po’ goffo dentro quell’impermeabile; i miei
compagni, figli di banchieri, di medici, di avvocati, non me lo fecero mai
pesare: mi volevano bene.
Quando ero ragazzo mi scervellavo per capire perché il tempietto (all’interno
del santuario) lo avevano fatto né a destra né a sinistra, né al centro: è lì,
in una posizione strana: “Se fosse al centro, concludevo, l’altar maggiore non
si vedrebbe. Ecco, deve essere questa la ragione”.
Un anno, ero un ragazzo, a Ortonovo venne Cornaggia Medici, un corridore
automobilista di Milano, con un’Alfa Romeo rossa fiammante. Era un dirigente
dell’Azione cattolica; ci fece un discorso fuori, all’aperto, dalla scalinata
del Santuario. Quando, a sera, partì (era solo) si portò via anche il parroco
di Nicola che salì sicuramente senza rendersi conto della situazione. Don
Ernesto, è vero, aveva la motocicletta, quindi i motori, la velocità per lui
erano cibo quotidiano, ma qui si trattava di ben altri: si trattava di
viaggiare su un’Alfa Romeo con uno dei corridori più famosi di allora. Ricordo la partenza: l’Alfa schizzò via come
un fulmine; era appena partita e già era sparita dietro la prima curva. Di don
Ernesto mi è rimasta, indelebile, un’immagine: vedo ancora il povero prete,
spaventato, agitarsi e tenersi stretto il cappello sul capo con entrambe le
mani. Non ricordo come finì la storia; ricordo però quello che dicevano i
grandi: “Stavolta il prevosto se la fa addosso!”.
Ricordo un 8 settembre un po’ particolare, non gioioso, vissuto quando avevo
8-9 anni.
Abitavamo a Serravalle; mia madre aveva un negozietto. La notte dalla Madonna
non andava a letto, stava alzata tutta la notte a vendere le candele. Le faceva
arrivare il vecchio farmacista, Ettore Piola; mia madre le prendeva da lui.
Faceva delle striscioline di carta colorata, tagliuzzata e le avvolgeva intorno
alle candele; noi l’aiutavamo. Le candele venivano appese lungo la facciata
della casa; ce n’erano di tante misure, di tanti i prezzi.
Erano bellissime le candele di mia madre. Io e mia sorella stavamo alzati anche
noi finché il sonno non ci vinceva. Le donne che passavano si fermavano,
acquistavano le candele, qualche chiacchiera e poi si rimettevano in cammino. E
questo durava tutta la notte.
Al mattino mia madre era stanca, ma contenta; aveva ottenuto un giusta, onesta
ricompensa.
Quella notte però le cose non andarono così; le donne passavano anche
quell’anno, a piedi, ma non si fermavano, non compravano le candele. Passavano
le ore, ma le candele erano ancora tutte lì. La notte è lunga, ci dicevamo, le
cose potranno cambiare, ma non cambiarono. Un disastro. Mia madre era
distrutta. Ed ora? Il negozietto di mia madre funzionava così: si ordinava la
merce, si vendeva e poi si pagava; bastava un affare sbagliato ed era la fine.
Quel negozietto ci permetteva di vivere decorosamente; i miei amici d’estate
andavano scalzi, io avevo i sandali di cuoio. A dire la verità quei sandali li
odiavo; appena girato l’angolo li buttavo via; con quei sandali mi sentivo
‘diverso’ e poi i miei compagni mi prendevano in giro: “Porta i sandali come i
frati”, dicevano.
“Le candele non le ho vendute (quell’anno avevano incominciato a venderle al
Santuario), ma al farmacista le devo pagare lo stesso - diceva mia madre - e il
denaro non c’è”.
La nostra sorte era nelle mani del
farmacista; mia madre decise di andare da lui subito.
Ci andò con la disperazione addosso; che cosa disse, che cosa fece, io non lo
so.
Eravamo sicuri che sarebbe ritornata con gli occhi pieni di lacrime; le lacrime
c’erano, ma erano lacrime gioia. Il farmacista si riprendeva tutte le candele,
e non pretendeva niente.
Si ritornava a vivere. Il farmacista mi sembrava austero, severo, da quel
giorno diventò per me la persona più brava del mondo. Fu quello un 8 settembre
di immenso dolore prima, di incontenibile gioia poi. La Madonna del Mirteto,
alla quale tutti (mia madre in particolare) eravamo devoti, ci tese la mano e
ci salvò.
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Attesa
di Paola G: Vitale
C’è
un sole che spacca. Un volo di cornacchie segna l’orizzonte in fondo ai campi
del fieno. I platani muovono appena le loro fronde esuberanti e lasciano cadere
le prime foglie ingiallite. Sembrerebbe un momento ideale, e allora mi rimetto
davanti alla bianca tela, da giorni sul cavalletto, messa lì con entusiasmo e
chi sa con quali idee.
Il bianco della tela spacca come il sole. So bene che il segno resterà nel
pennello, inutile alla mia mano. Il cuore ha perso il filo e non lo ritrova. Il
filo del sogno resta nel cuore, prigioniero come la speranza impaurita,
sbattuta dall’arroganza dei giorni duri.
Duri. Mi ritrovo a seguire la realtà, tutto qui. Ma non è questa la realtà
serena del filo ideale a cui avevo avvolto la mia vita. I giorni hanno preso
strade diverse, quella dei miei giovani figli in cerca della loro vita.
Così, l’ansia che non può agire più di tanto, l’amore che più di tanto non può
aiutare, si trasformano in uno strano bagliore, interminabile come l’attesa di
un sospiro liberatore.
Mi ritrovo più vicina agli stretti doveri della giornata, come in offerta
silenziosa, quasi essa fosse un riscatto alla fantasia gioiosa che accompagna
la mia vita. Ritornerà… Forse la ritroverò la mia spensierata fantasia.
Ora è proprio un bianco silenzio. Momenti e momenti di trepidante silenzio,
cuciti uno all’altro dalla volontà di farcela.
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