Quando
il tempo dipingerà
di
rughe il mio viso,
intingerà
di neve i capelli,
e la
mente che sfugge alla ragione,
e le
membra stanche da lavoro
faranno
di me figura di vecchio,
vorrei,
come eremita, volgere altrove
il mio
ultimo destino.
Lasciare
a chi vicino ho vissuto
l’immagine
d’un uomo vigoroso
come
ritratto che orna la parete.
Ed
emigrare non lungi dalla mia terra,
ma
lassù, dove possa abbracciarla
con lo
sguardo dal sommo d’un monte.
Per
poter beatificarmi lo spirto e la mente
d’immagini
e ricordi a me cari.
Così,
seduto a meditar sul mio tempo
passato,
vedere al piano verdi prati
punteggiati
dal rosso della lupinella,
campi
ilari di peschi in fiore
che
schiariscono le rilucenti zolle
appena
divelte.
Udir
belato di giovine agnello
sacrificato,
poi, alla precoce Pasqua;
sentire
il muggito della bigia
mentre
è munta;
il
batter di lama per falciar
l’ancor
tenera erba;
il
chiocciar che par appello,
risate
di bimbi, abbaiar di cani,
cigolio
di carri.
Veder
aie piene di vita,
donne
chine sul rivo a sciacquar panni,
fumo di
fascine che bruciano.
Mentre
nell’aria soave di primavera
si
diffonde la mescolanza dei fiori;
l’odor
dei pani che la massaia sforna;
l’olezzare
del fieno, della menta,
dei
pini, delle ginestre in fiore.
E
allora sentire un vigore di gioventù
che si
diffonde nel sangue:
l’anima
si commuove e l’impronta
della
vecchia età svanisce.
Ed
invoglia il cuore a maneggiar
le
briglie della giovenca
che
traina l’aratro di legno.
Ma in
quel momento non resta
che
stringere i pugni fino a dolerne;
alzare
gli occhi al cielo per vedere
nel
tramonto, dopo il temporale,
l’iride
dell’arcobaleno
che ha
fermato nell’occhio
l’ultimo
raggio di sole.
E
mentre la notte cala a ghermir il cuore
nei
suoi ultimi ricordi,
con le
lacrime che offuscano le pupille,
reclinare
lentamente il capo a terra
fino a
sentir salire alle nari
l’odor
di muschio,
mentre
alla mente giunge
affievolito
fino a spegnersi,
dal
lontano campanile
il
suono dell’Ave Maria.