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Appunti di un Pellegrino
di Gualtiero Sollazzi
Beate
inquietudini!
M’è
venuta in mente questa folgorante espressione dell’indimenticato mons. Tonino
Bello a proposito di certi ‘temi caldi’, quando il ”Corso di formazione sulla
pastorale nel territorio” si è chiuso in quel di Fiuggi. Si sono dette tante
parole importanti, non inutili,; sono stati fatti balenare dei cammini
suggestivi ma assai esigenti; le conseguenze sono state messe nelle coscienze
più che nelle mani. Tutto questo ha suscitato un po’ di subbuglio dentro; ha
costretto, e costringe, a rivedere molte impostazioni e scelte pastorali e
l’inquietudine ha preso corpo, inevitabilmente, in parecchi di noi.
Beata, però; perché potrebbe spazzar via sicurezze vuote, arroccamenti al
proprio ‘campanile’ ormai datati, un lavoro pastorale isolato che oggi, ma
forse anche ieri, non ha più senso. A insegnarci, preti e laici, con qualche
mitria a completamento. I vescovi (2) sono stati esemplarmente fraterni e
soprattutto capaci di ‘dirci cose’. I preti erano Franco Brambilla e Antonio
Stagnanò: chi li conosce sa quanto siano
bravi a suscitare domande, anche in forma provocatoria, con l’esigenza di
personali risposte. Il prof. Savagnone e la prof.ssa Sarcià sono stati i due
laici che non hanno esitato a gettare sale su parecchie ‘piaghe’ per farci
pensare e possibilmente decidere: basterà leggere in seguito le loro relazioni.
In questi giorni di lavoro anche duro su mete, strade, mezzi e modelli che sono
stati “l’impianto” del Corso, non potendo raccontare, provo a rubare alcune
battute dei ‘maestri’. Su la cultura: “Oggi, noi cristiani, si rischia di
essere spettatori di tutto e protagonisti di niente”. “Davvero la nostra
cultura è senza parole?”. “Il rapporto fra fede e cultura diventa un problema
urgente e irrinunciabile”. Un flash sulla parrocchia: “La parrocchia dovrebbe
somigliare all’antica abbazia benedettina: romani e barbari, schiavi e liberi,
analfabeti e sapienti, tutti fratelli”. Sulla comunicazione:: “La comunicazione
non è solo qualcosa di verbale; la vera comunicazione è la reciprocità”.
“Parliamo con franchezza anche all’interno della Chiesa e ricominciamo a
discutere”. Sull’uomo: “Ogni uomo che viene al mondo porta il segno
cristologico”. “Cristo è l’uomo vero, e la verità dell’uomo non si trova
nell’uomo ma in Lui”. “Le nostre
parrocchie dovrebbero essere il luogo dove l’umano è custodito”. Infine, sulla
carità: “La Chiesa è dalla carità perché generata dall’amore di Cristo”. “La
Chiesa, quindi, è il corpo della carità”. “Getta il tuo cuore in faccia
all’altro…”.
“Il cristianesimo non è una religione, ma una missione”. “E la missione, non
solo è portare Gesù, ma trovare Gesù
nell’altro”. “Aiutare i bisogni non solo per strappare dai bisogni, ma per
ri-creare un uomo libero”.
Frammenti sparsi, questi; forse confusi ma che sono circolati all’interno di
relazioni serie, appassionate, col fuoco del Vangelo dentro. Darne un assaggio
potrà servire ad immaginarne i ‘sapori’.
In ultimo, la gente. Tanta, 300 persone, a prevalenza laicale, venute da
tutt’Italia. Ho pensato d’istinto a quanti sacrifici nascosti per una presenza,
alla fatica di viaggi anche estenuanti, alla voglia di esserci per portare
ventate di freschezza nelle proprie parrocchie. Infine, quante ‘parlate’:
l’emiliana, con quelle vocali slargate; la meridionale, inconfondibile; la
toscana (s’era pochi, purtroppo), simpaticamente brillante. Quanti volti: il
bel vecchio con la barba bianca, il prete giovane con giubbotto d’ordinanza e
il colletto a far capolino, sempre a scrivere tutto; giovani genitori con
bambini piccoli, mascotte inevitabili del popolo corsista. Tessere di un unico
mosaico, verrebbe voglia di dire, che componevano un desiderio, che costruivano
una speranza, che si richiamavano a un unico Volto.
Ricetta consigliata
Tempo di oroscopi, per lo
più inventati. Seguiti avidamente in TV o letti su decine di riviste. Se
“profetizzano” quello che si spera, “bel sorriso Durban’s” si diceva una volta;
altrimenti la giornata va a traverso e, talvolta, la si fa andare anche a chi
ci sta vicino. C’è un sarcastico motto latino, con fondo di verità, che dice:
“Vulgus vult decipi, ergo decipiatur” che, in soldoni, significa: “Il popolo
vuole essere ingannato, e allora lo sia!”.
Tommaso Moro, un politico inglese, fine umanista, condannato a morte perché
volle rimanere fedele alla Chiesa cattolica e da questa proclamato santo,
faceva un’orazione ricca di fede e di intelligente umorismo: “Signore, donami
una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Donami la salute del corpo e
il buon umore necessario per mantenerla. Dammi un’anima che non conosca la
noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti, e non permettere che mi crucci
eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama “io”.
Se facessimo nostra questa preghiera così realistica, scopriremmo una ricetta
sicura per vivere con dignità e serenità.
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Considerazioni su ‘Morte di un cerro’’ di Romano Parodi
di Carlo Lorenzini
Io il cerro di Romano Parodi
(vedi Il Sentiero dicembre 2015) non l’avrei intitolato ‘Morte di un cerro’, ma
‘La morte del cerro’. E questo perché il cerro del racconto non era un cerro
qualunque, ma era il cerro, era lui, l’individuo che aveva una sua età, che
abitava in una certa via, che con la sua ombra offriva al faticoso cammino del
viandante un momento di ristoro e, nella sua bontà, aveva ghiande per maiali e per galline e, per
il loro riposo notturno, offriva riparo agli uccelli, che, sul far del
tramonto, convenivano a lui in canora e festosa baraonda; inoltre era fresco
palcoscenico al canto delle cicale; era, dunque, il cerro individuo, col suo
DNA, che nella sua lunga esistenza (anni e secoli) era stato testimone della
vita del paese, delle gioie e dei dolori, delle nascite e delle morti, come un
biblico patriarca nei suoi non numerabili anni.
Comunque sia, questa morte di un cerro, di Romano è una pagina piena di poesia
e di umanità. Qui il cerro è una persona, con un’anima, un pensiero, una
coscienza, è un vegliardo di antica venerabilità. E si capisce che lo
scrittore, nel rievocare la vicenda che lo riguarda, non parla di un essere
inanimato, ma di una creatura viva che sente e pensa e si capisce anche che
quelle di Romano sono parole che vengono su da una ancestrale coralità, nascono da un sentimento che è
patrimonio di tutta una Comunità: è il genio ortonovese che parla; parla l’Ortonovese che da antiche generazioni si
sente fratello dei suoi castagneti, dei suoi oliveti, dei suoi boschi, della
sua Natura. L’Ortonovese fratello delle sue piante e dei suoi animali. Basta
osservare il sentimento con cui l’Autore descrive l’incendio che un giorno
investì il cerro, assieme alle piante attorno: il Parodi tutto coinvolge nella
medesima simpatia, uomini, piante animali.
Leggiamo: la pagina ha una sua epica grandezza che nasce dal senso di
solidarietà. Che nasce dall’amore.
“Un giorno un grande incendio partì dalla selva, l’aria si oscurò di pulviscolo
e le piante stridevano di dolore. Frammiste al crepitìo delle fiamme, urla
d’animali e grida concitate di persone… Sospinto dal vento il fuoco aveva deviato
verso il paese e gli uomini in forza battevano le vampe con frasche e bastoni,
sollevando cenere e faville che in gran quantità si posavano sul cerro:
un’incipiente canizie l’aveva imbiancato. Sembrava gravemente malato e
pencolava mesto. Sentiva la terra bollire e gli insetti correre al riparo delle
sue radici, e scoiattoli e topi arrampicarsi spaventati, e nell’aria un forte
odore di bruciato che sapeva di morte. Aveva passato un brutto quarto
d’ora!Tornata infine la quiete, tutto era nero, gli alberi scheletriti e morti;
tutto il bosco era morto. Solo il grande cerro continuava a svettare arrogante
e superbo.”
E la sua pagina ci fa venire in mente ‘La quercia caduta’, che leggiamo nelle
poesie del Pascoli. E, in particolare, riportano alla mia memoria le parole che
dedico alla ‘cacia’ nicolese nella chiusa di un mio racconto inedito.
“L’acacia era lì, priva delle sue foglie,nella sua immobilità, nel suo
meditabondo silenzio; e sembrava guardare dall'alto, come un vegliardo di
biblica saggezza, il trascorrere degli uomini; la fragilità delle loro vicende,
e della loro Storia; e la vanità della loro vita e delle loro passioni”.
Ma nel Pascoli la morte dell’albero è
dovuta a vicende naturali (la quercia è morta perché è caduta),
qui invece il cerro è morto
perché abbattuto per volontà dell’uomo. L’acacia nicolese è ancora in vita,
ma,decrepita com’è, è tenuta su da una elaborata ortopedia di sostegni di
ferro.
Comunque sia, le tre piante sono metafora di un unico sentimento e direi di una
medesima concezione esistenziale: che la Natura è viva e che le piante e gli
animali, al pari degli uomini, nascono, vivono, invecchiano e muoiono, e, al pari degli uomini, sentono, gioiscono e
soffrono.
(Montepulciano, gennaio 2016)
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Il figlio prodigo e il buon samaritano
di Maria Vittoria
Anche
quest'anno, nella notte fra il cinque e il sei gennaio, i bambini che
frequentano l'oratorio “Don Lodovico Capellini”, a Luni, hanno festeggiato
l'Epifania con una rappresentazione teatrale e musicale, con la collaborazione
del gruppo interparrocchiale dei giovani educatori di Casano e Cafaggiola, con
la super-visione del seminarista Stefano Ricci e la partecipazione del parroco,
Don Andrea.
L'anno della Misericordia, indetto da Papa Francesco, ha ispirato la trama
della recita. Con personaggi e situazioni del giorno d'oggi, i giovanissimi protagonisti
hanno attualizzato due fra le più belle e significative parabole evangeliche:
“Il figlio prodigo” e “Il buon Samaritano”.
In una famiglia, composta da padre, madre e due figli, il minore, scontento del
tran-tran quotidiano, chiede ai genitori di finanziare un suo capriccio.
Desidera uscire da Ortonovo, per affrontare la sua vita nella grande città, la
sua “vera vita” fatta di novità e di spensieratezza. Il babbo e la mamma, pur
con mille riserve, lo accontentano, sopportando le proteste del fratello
maggiore. A questo punto, per sottolineare l'episodio, la voce fuori campo (don
Andrea) racconta la prima parte della parabola del figlio prodigo.
Nel frattempo, con veloci cambi di scena, Giacomino, il nostro protagonista, arriva
nella metropoli e comincia a dissipare i soldi, comprandosi abiti nuovi di gran
marca, facendosi persuadere dalle commesse del lussuoso negozio in cui è
entrato. In un secondo momento, aggirandosi per la fiera, si lascia coinvolgere
da due venditori abili e scaltri; si dedica al gioco, perdendo altre somme di
denaro, senza vincere niente d'importante.
Successivamente, il giovane si reca in un famoso ristorante e si fa servire
tutte le specialità della casa, dissipando gli ultimi denari in suo possesso.
Nel frattempo un ladro si introduce nel ristorante, deruba una signora e
sparisce nel nulla. Nessuno aiuta la povera donna disperata. Solo un mendicante
si offre per portarle soccorso e per accompagnarla.
La voce fuori campo racconta ora la parabola del “Buon Samaritano” per
commentare l'increscioso episodio.
A questo punto Giacomino comincia a riflettere. La vita, lontano dalla
famiglia, non è poi così attraente: è stato raggirato, imbrogliato, ha perso
tutti i suoi soldi. E' meglio fare ritorno a casa, nella pace e nella sicurezza
delle mura domestiche.
Avventuroso è il suo ritorno; deve arrangiarsi, in molti modi. Alla fine, riesce
ad arrivare vicino a casa sua. Il padre lo vede arrivare da lontano: chiama la
mamma, il figlio maggiore e tutti insieme gli corrono incontro e lo
abbracciano.
Il fratello maggiore vorrebbe che i genitori mettessero in punizione Giacomino,
ma il papà perdona tutto; è felice per aver ritrovato il figlio e ordina di fare
una grande festa con tutti i loro amici. Sarà il più bel Natale della loro vita
per questa famiglia, che aveva perso un figlio e l'ha ritrovato. Mentre tutti festeggiano, la voce fuori campo
termina il racconto della parabola del ”Figlio prodigo”, perdonato e ricevuto
con immensa gioia.
Nella notte dell'Epifania, questa moderna interpretazione viene accolta con
grandi applausi da tutti i presenti: i giovanissimi attori, tutti molto bravi e
impegnati, si inchinano ripetutamente ai genitori, ai nonni, al pubblico
presente. Complimenti ed Auguri per tutti!!
Durante la recita gli attori in erba hanno inoltre eseguito, in coro, canti
famosi, per sottolineare momenti particolari del racconto: ‘Aereoplano? degli
883, ‘Il gatto e la volpe’ di Bennato, ‘Buon Natale’ di Giuliano e i Baroni, ‘Aggiungi
un posto a tavola’ (con balletto).
La festa parrocchiale ha poi vissuto il momento centrale della serata con
l'arrivo dei Re Magi, che si è svolto nel mistero della semi-oscurità. I tre Re,
nei loro costumi sfarzosi, si sono inginocchiati davanti a Gesù Bambino
deponendo con solennità i loro doni: oro, incenso e mirra. Altri doni hanno
ricevuto tutti i bambini, vincitori del “Concorso Presepi”.
Una nonna ha poi distribuito calze piene di dolci a tutti i bambini presenti.
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Lettera a “Il Sentiero”
di Carlo e Maria Giovanna
Caro Walter e Amici tutti
della Redazione,
la morte di un cerro mi ha
commosso e, a margine del racconto di Romano, ortonovese doc, mi sono permesso
alcune considerazioni, che, spero, faranno piacere.
Nello scritto di Parodi si sente palpitare il genio ortonovese, che consiste
nel suo amore per la Natura. Gli oliveti del monte di Ortonovo, gli
appezzamenti di castagni, i suoi boschi.
Come camminare attraverso giardini amorosamente curati. Un viaggio, ogni
giorno, alla scoperta dello stupore e della poesia.
A questo proposito, un ricordo personale (ne ho già parlato in ‘Com’eravamo’).
Ci fu un periodo nella attività di portalettere di mio padre in cui per sua
indisposizione fui incaricato io di venire su a Ortonovo paese a distribuire la
posta. E io, venendo, facevo, a piedi,
la montata che partendo dalla piazza del municipio saliva su attraverso olivi e
vigneti sino al paese; mentre, al ritorno, sempre a piedi, prendevo la carrozzabile fino al ‘Tornante’ e
poi di lì, attraverso ulivi castagni e bosco, scendevo giù fino in località
detta del ‘Cisternin’, per poi risalire il colle di Nicola fino al paese: un
viaggio nella natura, tra colori, profumi, canto di cicale, voli e cinguettii
di uccelli. E andando ammiravo quei terreni (specialmente gli oliveti), che
erano curati come giardini di ville signorili. Le piante, sapientemente potate
concimate, erano sane e vigorose, il terreno pulito e diserbato, le piane,
vangate e adeguate, erano morbide e cedevoli come soffici cuscini. Ricordo (eravamo
in piena estate ed era sul mezzogiorno), io spesso, giunto al Cisternino, mi
fermavo a rinfrescare il caldo e a riposare la fatica. Un luogo, questo,
deserto e silenzioso. Solo fruscii di
animali negli anfratti, solo il canto delle cicale fra gli ulivi e voli e
cinguettii di uccelli, solo alitare di fronde per lievi brezze marine, solo
profumi di terra riarsa. Attorno una vegetazione immobile e assorta. E io,
prima di riprendere la salita verso Nicola, seduto all’ombra sotto un olivo,
guardavo in giro. E ascoltavo le voci: che erano le voci della Natura. E, a
quel tempo, io ero un ragazzo ginnasiale e avevo la fantasia piena delle favole
antiche, che erano favole di ninfe, di Pan e di Diane boscherecce. E in quel
luogo io le sentivo queste invisibili presenze; e ne stavo in ascolto. Perché
esse mi parlavano, in un loro linguaggio muto, fatto di luci, di colori e di
profumi. E nel mio cuore, che avevo in gola e mi batteva forte, c’erano
esaltazione e sgomento. Come di fronte alla manifestazione della divinità.
E devo dire che quei viaggi quotidiani attraverso la vostra campagna mi hanno
educato in modo irreversibile all’amore e al rispetto per la Natura. Per questo
divino Creato in cui un filo d’erba, dalla vita fragile ed effimera ha la
stessa importanza del grande cerro, che nella sua vita sfida i secoli e le
generazioni. E che, dopo ogni batosta, si erge su più arrogante e superbo di
prima.
Sia io che mia moglie vi ringraziamo per l’attenzione che dimostrate nei nostri
confronti, ed auguriamo a voi tutti della Redazione un felice 2016 e per il
Sentiero un sempre più vasto e meritato successo.
Un abbraccio, Carlo e Maria Giovanna.
Montepulciano, 07-01- 2016
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Via del Forte S. Pietro
di Paola G. Vitale
Veramente abitavamo alla base del Forte S. Pietro, ove
erano collocate le abitazioni dei vari addetti ai lavori. La nostra casetta,
sulle colline pisane, era crollata sotto i bombardamenti delle truppe americane
che venivano dal mare. Allora nonno Sirio, guardia municipale e custode del
“cancello grande”, ci aveva ospitato a Livorno, dove mio papà avrebbe avuto
migliori prospettive di lavoro e, in attesa del posto ”statale”, insegnava
greco e latino, che erano la sua passione.
Mi affollano la mente ricordi gioiosi, ma anche di vario disagio, il tutto
“condito” dagli affetti condivisi, che superavano di gran lunga i momenti
difficili.
Il Forte S. Pietro era il Forte “vecchio”, mentre la Fortezza Nuova, circondata
da un fosso grande, era di fronte alla grande Piazza della Repubblica. Proprio come
qua, penso io, a Luni Mare! La nostra vita era ricca di relazione con tante
zie, cugini, conoscenti, sparsi in città e dintorni, così che giravamo a piedi
sia verso Porta S. Marco, via Palestro, Stazione Centrale, sia fino al Porto
Vecchio. Le mamme chiacchieravano, ma noi bambini, lì al Porto, riuscivamo
sempre a sporcarci di “morchia”, come diceva la mia mamma. Al ritorno, poi, mi
lamentavo un po’ per la stanchezza dovuta al tanto cammino.
Ora il Forte S. Pietro è conservato, ma riadattato ad ospitare attività sociali
e di pubblica utilità. Dal satellite, su internet (beata tecnologia!), mio
fratello Paolo mi ha mostrato le foto dei luoghi in cui si è svolta la sua
primissima infanzia, e per me, la mia prima adolescenza, dato che io sono
maggiore di sei anni. Non sbaglio davvero a ringraziare Dio di tutto ciò che
Lui mi ha donato, nella semplicità di una vita più che modesta. Anche a Signa e
a Firenze è stato bello: allora l’ambiente era ricco di attività commerciali e
negozi con altrettante relazioni umane che rendevano “viva” la vita.
Ora abbiamo un altro tipo di vita, ma più faticosa e più impegnativa, da vivere
bene.
Eh, sì, tutto si trasforma, non solo il Vecchio Forte S. Pietro! Ora sono qua e
mi curo il nostro “archetto”, dedicato, guarda caso, a S. Pietro apostolo! E la
vita continua… E di tutto ciò che mi dona, ringrazio ancora il Signore proprio
ogni giorno!
I
Santi patroni
Mercoledì 20 gennaio, dei
Santi Fabiano e Sebastiano, è stata festa partecipata e sentita in Falcinello,
antico borgo sopra Sarzana. La presenza del vescovo Luigi Ernesto ha onorato la
festa che ha visto l’inaugurazione della fontanella dedicata a don Livio
Beatini, tornato da circa due anni alla Casa del Padre.
Ho provato vera emozione perché don Livio è ancora vivissimo nel mio cuore e
nel mio pensiero, così come lo è nel paese che lo ha avuto parroco per
moltissimi anni. La sua costante preghiera per tutti e per ciascuno ci
accompagnerà sempre, come l’acqua viva che ora scende dalla fontanella a lui
dedicata. Deo gratias!
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Pensiero della prima domenica del 2016
di Marino
Mi piace assistere ad una
celebrazione solenne,vedervi utilizzare paramenti sacri sontuosi, sentire la
possente voce dell’organo che fa tremare i vetri della chiesa e la voce del
coro che con la sua armonica
potenza sovrasta su chiunque
non ne faccia parte; ma…, nel Catechismo
della Chiesa Cattolica, si
legge che la parola “liturgia” significa originariamente «servizio da parte del
popolo e in favore del popolo». Nella tradizione cristiana vuole significare
che il Popolo di Dio partecipa all'«opera di Dio».
Allora… penso che il
pericolo, soprattutto per il mio orgoglioso desiderio di appagamento
superficiale, , sia quello, puramente sensoriale, di dare importanza a questo
insieme di gesti,visioni ed azioni fermandomi sull’esteriorità, perdendo così
di vista il vero significato che invece ogni agire deve avere per indirizzare
ogni uomo verso l’essenza interiore del culto dovuto al nostro Creatore, addirittura
rischiando una grave malattia dell’anima…, il formalismo religioso.
Bellissimo da osservarsi ma pericoloso per la mia salute spirituale.
Esiste cura? Certamente si! E questa è presente nel tabernacolo: una visita
quotidiana al Santissimo Sacramento, un pensiero al cielo, un gesto semplice
nel segno della croce appena svegli ed appena prima di coricarci, forse potranno aiutarmi a coltivare nel mio
quotidiano la mia partecipazione “all’opera di Dio”: perché non iniziare a
farlo?
Un grande augurio per questo anno 2016 appena iniziato "nel nome del
Signore"!
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Cara ‘ricetta’ rosa
di Marta
Il colore rosa è ‘mistico’,
aperto alle cose da intraprendere con positività; predispone a cose liete come,
ad esempio, la nascita di una nuova creatura. Rosei sono i sogni di chi inizia
una nuova attività: un lavoro, il primo giorno di scuola o anche l’affrontare i
primi esami con trepidazione, ma con la rosea speranza di un buon esito. Rosa
era il primo foglio che rilasciavano le ‘scuole guida’ per iniziare il corso e
poi la stessa patente di guida che ci ha accompagnato per molti anni della
nostra vita. Era un documento veramente importante (valeva anche come documento
d’identità); questo tesserino di un tessuto quasi indistruttibile con foto,
timbro della Prefettura che l’aveva rilasciato e scadenza; poi lo spazio per le
convalide con le relative marche da bollo annuali… Questo pezzo di carta ci ha
accompagnato per oltre cinquant’anni finché ora è stato sostituito con un semplice
pezzo di plastica che contiene anch’esso tutte le informazioni necessarie.
Stessa sorte ha fatto (o sta facendo) le ‘ricetta’, anch’essa rosa, delle
prescrizioni mediche, anche questa con tutte le varie indicazioni personali:
codice fiscale, esenzioni e altri numeri indicativi; poi lo spazio per la
descrizione dei medicinali e, in fondo, il bel timbro del medico con l’apposita
firma. Con questo importante documento si andava a ritirare i farmaci. Ora la
‘ricetta’ è più o meno la stessa, ma in bianco e nero, quasi anonima; bisogna
focalizzare bene quel che c’è scritto per capirci: ha perso, insomma, senza il
colore rosa, la sua anima, la sua importanza.
Una precisazione: è rimasta ancora rosa quella per la prescrizioni di esami
diagnostici e specialistici, però, in un prossimo futuro, spariranno tutte
queste richieste cartacee.
Cara ‘ricetta’ rosa, anche tu andrai tra non molto a far parte della storia,
così com’è stato anche per le care, vecchie banconote rosa della lira. Questi
cambiamenti ci fanno ricordare la nostra vita trascorsa e questo è il…
progresso. Chissà cosa ci riserverà ancora il futuro!
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