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Appunti di un Pellegrino
di Gualtiero Sollazzi
Ma sono buoni…
Sosteneva quel babbo a proposito di figli, ricevendo una risposta beffarda:
“Buoni? A nulla!”.
Abbiamo visto i Black Bloc devastare una città con ogni mezzo. Fabio Fazio ha
notato (buonismo strano...) che è stato “tutto misurato e circoscritto.) Forse
le macchine da bruciare o i negozi da distruggere dovevano essere di più? Il
padre di un ragazzo che si definiva appagato nello sfasciare tutto, lo ha
definito “un pirla”. Non c’è che dire: un genitore garbato, ma sicuro di ben
educare? In ogni caso, il fenomeno di giovani scatenati per ogni evento, dal G8
all’EXPO, è inquietante. Si dovrebbe riflettere sulle cause.
Certamente, c’è l’influsso di cattivi maestri. Si pensi al ‘68: giovani gettati
allo sbaraglio, affascinati da un cambiare tutto fino a giungere al terrorismo
armato e finiti male, i più; mentre i “maestri” si sono poi sistemati in
cattedre universitarie o in ben rimunerate presidenze di Enti pubblici o a
pontificare sui giornaloni. Ieri e oggi.
Come cristiani, il problema “giovani con la voglia di spaccare”, dovremmo
metterlo in agenda. Parlarne a tutti i livelli e cercare con fatica e passione
lo snodo per dare luce a chi brancola così nella vita. Ha ragione De Balzac:
“Ogni ora perduta durante la giovinezza, è una possibilità di infelicità per
l’avvenire”.
Unitade!
Impressionante, la folla
sulla piazza di Bucarest.
Di fronte a Giovanni Paolo II in visita; a tanti esponenti della Chiesa
ortodossa gridava insistentemente: “Unitade, unitade!”. Quei cristiani
sentivano vive le ferite della divisione.
“Ferite” non ancora rimarginate.
La divisione è un brutto segno anche per evangelizzare. Ne sanno qualcosa i
missionari, talvolta derisi per questo. Ma quanto il problema interessa alle nostre
parrocchie? In soldoni: quanto si prega per l’unità dei cristiani? Quanto si
opera perché sia fatto qualche passo in più? Forse non ci tocca abbastanza la
preghiera di Cristo nel Cenacolo “Fa’ che siano una cosa sola…”.
Una giovanissima suora di clausura, suor Gabriella, offrì la sua vita per la
causa dell’unità.
Aveva capito tutto, e donò tutta se stessa. Se ogni cristiano si impegnasse
davvero per la veste lacerata dell’unità, forse qualcosa succederebbe.
Scrive don Mazzolari: “La primavera incomincia con il primo fiore!”.
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Coro di animali intorno alla grotta di Betlemme
di Sconosciuto
L’ape,
che la notte di
Natale stava nel suo bugno nel cavo del tronco d’una quercia, sentì tutto il
viavai che c’era lungo il viottolo e s’affacciò per chiedere cosa fosse
successo. Le risposero che in una capanna vicina era nato il Redentore del
mondo e tutti correvano ad adorarlo e ringraziarlo. L’ape voleva uscire, ma si
accorse che il freddo l’avrebbe fatta morire, per cui si ritirò nella sua
celletta, ma promise che da allora avrebbe fatto più miele per i bambini e più
cera per illuminare gli altari. Così fa ancora e, se si ascolta bene, la si
sente che mentre lavora recita continuamente le preghiere.
Il
ragno era
dentro il buco d’un travicello, assistendo allo splendore di luci nella stalla
non si rendeva conto di cosa stesse succedendo e vide che tutti arrivavano
portando doni al Bambino che vagiva sulla paglia. Si accorse che dalla finestra
rotta entrava il vento gelido della notte e andò a chiudere le aperture delle
imposte tessendo la tela e così fornì di tende la stanza, e il Bambino non ebbe
più freddo. La Madonna lo benedisse e disse che da quel giorno la fortuna
sarebbe stata nella casa dove si trovasse il ragno e da quel giorno nessuno lo
scaccia più dalla propria abitazione.
La
lepre stava
girando per i boschi quando vide la grande luce che usciva dalla grotta di
Betlemme e corse a vedere cosa accadeva unendosi agli altri animali e alla
gente che s’affrettava verso i canti che si sentivano lontano. Quando giunse
alla grotta adorò anch’essa il Bambino ma, quando si volse per tornare alla sua
tana, ecco che vide tra le altre bestie gli occhi rossi della volpe che
l’aspettava per divorarsela, e allora prese a tremare di paura avvicinandosi
alla Madonna. La Vergine comprese il suo terrore e, presala in collo, le
allungò le zampe posteriori e per bilanciarla le fece scendere le orecchie a
collana. La lepre si sentì forte e sicura: prese la strada di casa e, quando la
volpe cominciò a ricorrerla, con quattro salti sulle nuove zampe corse come il
vento e s’eclissò nel bosco lasciando la volpe a denti asciutti.
Il
grillo, che
si trovava dentro il suo buco dormendo vicino alla capanna di Betlemme,
ridestato dai canti e dai passi di uomini e animali che andavano e venivano
nella notte, s’affacciò incuriosito al pertugio. Rimase stordito dalla luce
sfolgorante che usciva dalla porta della stalla, poi a saltelli s’avvicinò ed
entrò andando fin sotto la mangiatoia presso la quale i visitatori lasciavano i
doni. Non sapendo cosa offrire si mise a cantare facendo divertire il Bambino.
Per questo la Madonna gli sorrise e gli disse di restare accanto al focherello
acceso e divenne così il Grillo del focolare.
Il
bue, l’asino e il cavallo si
trovavano nella notte nella stalla quando entrarono Giuseppe e la Madonna, la
quale diede alla luce il Bambino che fu posto sulla paglia della greppia.
Commossi, il bue e l’asino si misero a scaldare col loro alito il neonato che
piangeva per il freddo, ma il cavallo rimase tranquillo sullo strame a dormire.
La mattina la Madonna guardando quei tre animali disse: “Voglio che questo sia
sempre ricordato”. Fece una croce sulla groppa dell’una e dell’altra bestia e
li preservò per sempre da qualunque malia e da qualunque maleficio, come dalle
arti delle streghe e dei demoni. Per questo l’asino e il bue tengono lontani
ogni sorta di maledizioni e di spiriti impuri. Il cavallo, invece, è preda
della paura, teme la propria ombra ed è spaventato dai fantasmi e dai folletti
che gli intrecciano la criniera e lo fanno imbizzarrire.
La
pecora, quando
l’Angelo annunciò la buona novella, andò con tutti gli altri animali alla
grotta di Betlemme, lasciando solo l’agnellino natole da pochi giorni. Quando
fece ritorno si accorse che il lupo gliel’aveva portato via e, belando
pietosamente, corse di nuovo verso la capanna pensando: “A che serve
disperarsi? Il mio agnellino non tornerà e la mia lana non gli servirà: la
lascerò a quel Bambino che è nato stanotte, e non soffrirà il freddo nella
grotta”. Arrivata davanti alla Vergine che teneva in collo Gesù, la pecora
depose il suo fardellino di lana insieme agli altri doni e si guardò intorno. Dio, che luce c’era dentro quella caverna e
come tutti stavano incantati davanti al Signore! Sentì un belato flebile: si
volse e vide il suo agnellino che si reggeva appena sulle gambe e accanto a lui
c’era il lupo. La Madonna, deposto Gesù nella culla, prese l’agnello e lo
ridette alla pecorella; quindi, accennando il lupo, le disse: “Perdonalo. Te
l’aveva rubato per offrirlo al Signore perché non aveva altro da dargli,
poveretto!”. La pecora allora, consolando il suo agnellino, gli perdonò e,
tornando verso il suo ovile, pensò d’aver capito quella notte che solo il
Signore sa cosa c’è nel cuore delle sue creature.
Il
corvo, svolazzando
nella notte, vide la processione di gente che andava a visitare il santo
Bambino, per cui scese giù a basso e con sua sorpresa vide che una pastora
portava sul capo una gerla piena di formaggi, di cui questo animale è assai
ghiotto.
“Guarda, guarda, che ben di Dio! Che formaggio fresco ha quella donna nella
cesta! Ma con tutta questa roba avranno da sfamarsi quei tre chi sa per quanto
tempo. Non sarà male se si toglie la fame anche un povero corvo!”. Detto
questo, scese a picco alla gerla della pastora e ne prese una bella caciotta e
si risollevò in aria. In quel mentre lo vide San Giuseppe che stava attingendo
a una fonte e disse: “Per la fame, tieni la caciotta, ma per la tua malizia
sarai sempre nero, e ogni volta che canterai dovrai ricordarti questa tua
marachella. Da allora il corvo che era tutto di bei colori è diventato nero e
quando canta fa solo cra-cra.
La
formica si
trovava ad avere il proprio buco lungo il viottolo da cui passavano i contadini
e i pastori per andare alla capanna la notte di Natale. Uscì fuori e sentendo
quello che era successo disse: “Cosa m’importa se è nato un bambino? Ne nascono
tanti! Se si dovesse fare tutta questa confusione tutte le volte che nasce un
bambino si starebbe freschi!
Piuttosto diamoci da fare a raccogliere le briciole che lasciano cadere questi
viandanti che mangiano lungo il cammino! Aumentiamo le provviste, che l’inverno
può essere lungo, e lasciamo che questi citrulli se ne vadano a spasso!”. Così
si mise a raccogliere le briciole e a portarle nel suo buco, ma un angelo passò
nel buio e la vide. Disse due parole misteriose e da allora la formica vive
sotto terra ed esce fuori soltanto per lavorare e rompersi le ossa dalla
fatica.
Il
tarlo era
in fondo al suo foro che si era scavato nell’architrave della capanna di
Betlemme e sentì nella stanza il trambusto di gente che andava e veniva. Gli
venne curiosità di sapere cosa succedesse, ma s’era accomodato da poco tanto
bene nella segatura che gli parve fatica e si girò dall’altra parte dormendo
della grossa quasi fino a mezzogiorno. Quando seppe che quella notte era nato
il Messia, si pentì amaramente di non essersi alzato a onorare anche lui il
Salvatore e ancora, quando ci ripensa, piagnucola dentro il suo buco: iuc iuc
iuc…
Gli
animali, quando
venne l’alba dopo la notte in cui nacque Gesù, parlarono chi sa perché in
latino. Il gallo fu il primo a destarsi e s’informò dai passanti perché vi
fosse tanta gente per le strade e quando lo seppe salì in cima a una pianta e
cominciò a cantare: “Puer natus est…Puer natus est…”. Il bove che lo sentì
cominciò subito a mugliare: “Ubi?... Ubi?...”. L’agnello, che l’aveva saputo
dal pastore, rispose belando: “Bee-tlemme… Bee-tlemme…”. Allora l’asino che
passava di là mandò un sonoro raglio: Andemus…Andemus…”. E tutti gli animali
corsero e andarono a trovare Gesù Bambino.
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Caro don Romeo Rossetti,
di Marta
Caro don Romeo Rossetti,
ci è pervenuta la notizia
che il 30 novembre (festa di sant’Andrea) lei è tornato alla Casa del Padre.
Certamente in quel giorno sarà stato accompagnato amorevolmente da questo
grande Santo nell’ultimo viaggio. E io torno con la memoria indietro nel tempo,
molto indietro: al tempo che io la conobbi. Io ero una ragazza, eravamo negli
anni ’50, lei un giovane sacerdote nella parrocchia di San Martino, a Casano. Diversi
giovani frequentavano la parrocchia e tra questi anche Doretto. Tra voi due
nacque subito una bella intesa. Lui militava politicamente nella sinistra ma
aveva sempre avuto rispetto per la Chiesa, ma la sua fede era molto tiepida.
Con lei, con le sue parole, Doretto ha cominciato a lasciarsi coinvolgere e a
leggere il Vangelo; poi diventaste veri amici. Con la sua potente moto, una
Mondial 250, avete percorso le strade di San Francesco: Assisi, La Verna,
Camaldoli… Doretto era veramente trasformato e San Francesco lo ha poi
accompagnato per tutta la vita. E’ stata poi memorabile quella volta che
partiste per Roma in udienza da papa Giovanni XXIII, il ‘Papa Buono’, ora
Santo. Sempre in sella alla sua moto, col pieno di benzina fatto con tanto
sacrificio; Doretto alla guida col suo casco in testa, lei dietro con la tonaca
che svolazzava.
Mi raccontò che il Vescovo la convocò in Curia e le disse: “E’ vero che è stato
a Roma in sole cinque ore?”. E lei rispose: “Eccellenza, la notizia che le
hanno dato non è del tutto esatta: ci siamo arrivati in sole quattro ore,
compreso le soste!”.
Nel 1961 io e Doretto ci siamo sposati nella mia parrocchia, a Marina di
Carrara, nella chiesa dedicata alla Sacra Famiglia. Fu proprio lei, caro don
Romeo, a celebrare il nostro matrimonio. Poi, non ricordo per quale motivo, lei
fu trasferito a Valletti, un piccolo borgo vicino a Varese Ligure. Doretto, con
la sua moto, veniva spesso a trovarla. Una domenica volle farle
un’improvvisata. Arrivò all’ora della Messa; entrò in chiesa, la salutò con un
cenno ed uscì. Andò nella cucina della canonica e vide che non aveva niente di
pronto da mangiare. Doretto non si scoraggiò; scese giù nell’orto e raccolse
quel che abbisognava; poi, nel pollaio, prese un bel pollastrello, tornò in
cucina e in quattro e quattr’otto preparò
un bel pranzetto: pollo alla cacciatora con patate fritte, il tutto annaffiato
con vino nero offerto da un parrocchiano. Peccato però che sia l’orto che il
pollaio non erano di proprietà del parroco!
Poi sono trascorsi tanti anni e, malgrado le tante peripezie della vita, avete
sempre mantenuto un legame forte di benevolenza e amicizia, prima con lettere,
poi, negli ultimi anni, per telefono e con l’ invio di articoli da pubblicare
sul nostro bollettino “Il Sentiero” nei quali ha ricordato il tempo trascorso
qui e che mai ha dimenticato.
Che dire ancora, don Romeo! I ricordi sono tanti e tante persone, come me, la
ricordano, ognuno con la propria storia di vita. Io ora amo pensare che lei e
Doretto scorazzate ancora in sella ad una moto per le vie del Cielo.
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Pane burro e marmellata
di Paola G. Vitale
Vanna mi raccontava volentieri le sue straordinarie
avventure notturne; io l’ascoltavo stupita e, alla fine, ci lasciavo su un
sorriso, senza commenti. Non avrei proprio saputo cosa dire, tanto era diversa
la mia notte, immersa nel sonno, dopo l’ultima occhiata alla lezione del
giorno. Non potevo davvero permettermi di trascurare lo studio, all’ultimo anno
delle magistrali, con mio nonno paterno che pagava i libri e attendeva
impaziente il mio diploma. Non che la mia vita fosse facile, con la mia mamma
da aiutare in tanti modi, in tante incombenze e l’impegno di lavoro preso con
gli artigiani della paglia, al piano basso dello stesso palazzo. Tuttavia, mi
buttavo con coraggio in ciò che ritenevo possibile alle mie capacità.
Le ore di scuola erano la realtà più piacevole, pure se capitava di affrontare
qualche ora con il batticuore nel timore di una interrogazione non
perfettamente preparata. E poi c’era l’intervallo! Le più ostinate si
affacciavano alle finestrelle che davano sull’Arno, per fumare la sospirata
sigaretta, mentre io scappavo nel corridoio, perché l’odore della sigaretta mi
faceva tossire con troppa facilità. Vanna, però, veniva subito da me e
chiedeva: “Che hai portato di merenda?”. Al che, immancabilmente rispondevo:
“Pane con burro e marmellata!”. Alla fine lei mi convinceva a fare a cambio con
il suo “maritozzo”. In fondo, qualche volta, non mi dispiaceva cambiare
merenda. Non sempre, però, perché io tornavo a casa in treno, dopo le quindici,
e l’appetito era ben desto! Tuttavia c’era di mezzo quell’affetto che provavo
per Vanna, così diversa, così disinvolta, e così sprovvista… di pane, burro e
marmellata; e, in fondo, mi incuriosiva quella sua vita così diversa dalla mia.
Non ci siamo più incontrate dopo il diploma e ognuna di noi ha seguito la sua
strada, ma ringrazio di cuore la mia famiglia e nostro Signore per quel periodo
di vita.
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PRESENTAZIONE
di LA REDAZIONE
Abbiamo
ricevuto dagli amici e collaboratori Carlo Lorenzini e Maria Giovanna
Perroni l’ultima ‘fatica’ di Maria
Giovanna, questa volta in prosa, dal titolo “Salvare il cuore” (Ed.
Golden Press). In questo numero pubblichiamo la ‘presentazione’ a cura del
marito, Carlo, in seguito pubblicheremo i racconti.
LA
REDAZIONE
PRESENTAZIONE
“E
allora (la gigantessa) decise di morire. E volle, ancor piena di forze e
inconsunta, donare la ricchezza del suo immenso corpo per la fecondità degli
sterili monti. E quando fu pronta si sdraiò dove ancora la vedi e cominciò a
fissare il sole, la luce. E dagli occhi, anche per il dolore di dover morire,
le spuntarono molte lacrime, che formarono numerosi ruscelli d’acqua dolce (le
sue lacrime infatti non erano salate come quelle di noi uomini); ed i ruscelli,
riunendosi, divennero fiumi che inumidirono il suolo, ormai fecondo degli umori
del suo corpo. Nacquero così alberi ed erbe, intere foreste. Un giardino per
gli animali che presto sarebbero venuti ad abitarlo. Intanto lo scheletro della
gigantessa si fondeva con la terra, fossilizzandosi e producendo le ricche
miniere da cui, ora, traiamo tesori.
Questa divenne presto la regione più ricca della terra. Ed i monti,
riconoscenti, vollero conservare per sempre il ricordo della bella gigantessa e
del suo nobile profilo”. (Dal
racconto “La Gigantessa”).
Qui, in una visione apocalittica della storia della terra, sulla scomparsa
dei giganti che abitarono il nostro pianeta in epoche preistoriche, abbiamo un
racconto che è una specie di metafora della filosofia che è alla base della
poetica di Maria Giovanna. Questa gigantessa che morendo vuol dare tutta se
stessa alla continuazione della vita su questo nostro pianeta, esprimendo la
volontà che il suo sacrificio serva alla fecondazione di una terra brulla e
inabitabile per farla diventare feconda e vivibile, è la metafora del concetto
filosofico-religioso che anima tutta l’attività di Maria Giovanna, scrittrice e
poetessa.
I suoi libri di poesie, da Diamante (1991) a Preghiera di un
Poeta (2014) e i suoi libri di prosa, La pace delle bambole (2002) e
La casa sepolta (2011), si svolgono tutti, guidati da un unico motivo
conduttore che è l’amore. Quell’amore che ha come regista il cuore, cioè
l’amore che vuol dire buoni sentimenti, morigeratezza, equilibrio spirituale,
vuol dire umiltà, sobrietà, vuol dire castità, operosità e ottimismo, e che
tutto insieme vuol dire educazione e aspirazione al concetto di quell’armonia
interiore che, secondo il Foscolo, le Grazie hanno elargito all’uomo, per la
costruzione della civiltà. Il cuore creatore e regista dei buoni sentimenti è
l’ispiratore di questo nuovo libro di Maria Giovanna, un cuore cullato
nell’armonia dei sentimenti, in una visione della vita che vuole essere equilibrio
e serenità, dove non esistono dissonanze, dove il male e il bene non sono mai
causa di distruttive disperazioni o di smisurato orgoglio. Sono racconti in cui
la vita è vista con gli occhi del saggio che tutto comprende ed è narrata con
lo stile del poeta che ha in sé il dono del divino equilibrio. Vi è in ciascun
racconto una pacata e serena visione delle cose.
In armonia con il contenuto è anche
lo stile del libro. I racconti non sono mai dei fiumi in piena che, lutulenti e
rapinosi, straripano e distruggono, ma il loro stile è simile a ruscelli di
un’acqua limpida, fresca e profumata, un’acqua che disseta e ristora, racconto
dopo racconto. Ognuno un pezzo di vita che, come una favola, ha la sua brava
morale, che è sempre all’insegna della vittoria del cuore, un cuore semplice,
un cuore d’altri tempi, capace di farti amare la vita anche nel negativo, anche
nelle sconfitte.
Carlo
Lorenzini
Questo
libro, presentato al premio editoriale l’Incontro, edizione XIX (2014),
promosso dalla casa editrice Golden Press di Genova, è stato segnalato dalla
Giuria presieduta dallo scrittore Alessandro Mancuso, con la seguente
motivazione:
“Una corona di racconti
edificanti, morali, di pieno sentimento. La prosa, scolpita ed impeccabile,
tratteggia personaggi di grande umanità e spessore, immersi in una realtà che
non scalfisce la forza d’animo, anzi irrobustisce la fede, la fiducia negli
altri, lo scambio reciproco”.
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