N° 9 - Ottobre 2015
Storie dei lettori
  La fine ingloriosa dei miei fuseaux bianchi
di Marisa Lisia



 

Evidentemente il colore bianco mi accompagnerà fino alla fine dei miei giorni; gli anni miei sono già 84 suonati, vivo con mia nuora e con mio figlio.
Un giorno gironzolando per il nostro mercatino rionale, noto, a prezzo stracciatissimo, alcuni fuseaux (i prezzi stracciati sono la mia passione). Mi avvicino al banco con la viva intenzione di comprarli. Pantaloni così fatti non li ho mai portati in vita mia, ma sarà una nuova esperienza; li scelgo, com’è per me naturale, bianchi. Il venditore mi chiede con naturalezza se sono per me, apposta. Allora penso: certo che li posso portare, non mi passa neanche per l’anticamera del cervello che non è roba per me, ma solo per le sedicenni, quelle perfette! Non penso ad altro e vado col mio prezioso acquisto, contenta come una pasqua, verso casa. Li accorcio subito.
Mio figlio, che ha uno spiccato senso dell’umorismo, mi dice che sono alta trenta centimetri, come Alice nel paese delle meraviglie (questo lo aggiungo io, però): fortunato lui  che è altissimo. Ritornando ai miei fuseaux, sono anche un po’ divertita di me stessa e li indosso con entusiasmo, ma ho fatto i conti senza l’oste, anzi l’ostessa. Al mio rientro a casa a mia nuora, appena mi vede con i fuseaux, per di più bianchi, per poco non le viene un infarto. Con molto tatto, il più possibile direi per il suo carattere spontaneo, mi fa notare che non è il caso di rimetterli. Io cedo a malincuore.
Una sola cosa cerca dalla vita mia nuora: avere una suocera normale, fra parentesi, come tutte le altre; ma in questo non la posso accontentare, perché la mia prepotente personalità (lo dico nel senso buono) è ancora bambina e io temo d’offenderla!

P.S.) Ad onor del vero di figli spilungoni ne ho due: beati loro!

                                                                                            

 


  “Chi dice donna…”
di Gualtiero Sollazzi



 

            “Chi dice donna dice danno”, afferma un velenoso proverbio. Che ha una beffarda risposta in romanesco: “E famojelo ‘sto danno! Lasciamoli soli!”.
Per troppo tempo la donna è stata vista in negativo: Eva, perenne tentatrice. Quindi, niente cariche significative. Anche la Chiesa non è stata esente da tale mentalità.
Al massimo, la donna poteva servire per la “bassa cucina”. Papa Francesco osserva: “La donna non deve avere un ruolo di servitù nella Chiesa. La Chiesa è donna. A me piace pensare che la Chiesa non è “il“ Chiesa: è donna e madre”.
Una suora, nel 1500, scriveva parole impressionanti: “Signore, quando peregrinavi quaggiù, non aborrivi le donne, anzi, le favorivi con benevolenza e in loro trovavi tanto amore e maggior fede che negli uomini. Perché, allora, non dovremmo noi donne riuscire a fare qualcosa di valido per Te in pubblico?”. Quella donna era Santa Teresa d’Avila, dottore della Chiesa.
Del resto: chi ha acceso le guerre? Chi nella Chiesa ha seminato eresie? L’uomo soprattutto. Eppure, è quasi intoccabile. Sarebbe bello che almeno nell’ambito ecclesiale la donna avesse finalmente ruoli laddove si esercita l’autorità. Basta “il” Chiesa.
Col bisogno che c’è di sapiente tenerezza e di generosa accoglienza, occorre che emerga forte “la” Chiesa. Non è vero che chi dice donna dice danno. E’ vero il contrario: chi dice donna dice dono!

 

 

Bamboccioni

 

            Infelice dichiarazione di un ex ministro sui giovani che restano in casa anziché lavorare. Dimenticando il dolore di troppi ragazzi che trovano solo porte chiuse.
Un ministro rincara la dose: “I genitori la smettano di regalare auto ai figli laureati”. “Il ragazzo non trova lavoro? Impari un mestiere”. Una domanda: questa gente, dove vive?
Dentro le auto blu e stipendi d’oro? Tanti giovani il lavoro non l’hanno perché non c’è.
Magari con il babbo in cassa integrazione. Gente che non cerca “scorciatoie”, che crede ai diritti e non ai favori e che ha desideri di autenticità, trasparenza e onestà.
Piuttosto: si è promossa, a sinistra e a destra, una seria politica per la gioventù? Si è preso a cuore il futuro di questo popolo? Con un pro-memoria per gli adulti, della psicoterapeuta Migliarese: “Non c’è solo il mito della velina. I ragazzi cercano adulti non perfetti, ma appassionati”.
Appassionati di loro e delle loro speranze.




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  Sorella Nicola – Fratello Ortonovo
di Lido Galletto (da ‘Racconti di ieri e di oggi’)



Poco dopo Serravalle, un ponte, scavalcando il Parmignola, congiunge le terre di Ortonovo e di Nicola. La comunità di Nicola si svuota e si fonde finalmente alla maggiore, così come l’acqua contenuta nell’invaso investita dalla pioggia scivola, traboccando verso il torrente. Al di là del greto del torrente non c’è più l’arrogante impostore, ma il fratello maggiore ad aspettare la carezza e lo sguardo amorevole della sorella. Sono nati dalla medesima madre generatrice e per logica esistenziale, col rotolare delle stagioni, nella maturazione hanno inteso congiungersi, fondersi in un grande abbraccio anche se i corpi fisici che le compongono sono diversi.
Turgida e morbida, dalle sembianze eleganti, la sorella Nicola, si àncora alla grande mammella collinare che la compone, come il capezzolo di un grande seno adagiato alla terra che lo circonda. L’esuberanza che esprime è discreta, contenuta nella lievitazione quasi uniforme, senza anfrattuosità profonde, coperta da una densa vegetazione trillante di verdi smeraldo e di fragili punteggiature di ocra dorati. Quando è inverno e gli oliveti di tutta la collina di Nicola sono investiti dal sole, anche il grumo delle case, ancorate alla sommità del colle, quasi non si distingue nella luce riflessa. Una sola strada, scivolando in tornanti, congiunge il paese di Nicola alla corrente varia della piana, attraverso il ponte che scavalca il Parmignola. Questo corso d’acqua tanto rancore aveva generato fra le opposte comunità di Nicola e di Ortonovo, quando in cagnesco seguivano lo sfruttamento dell’unica fonte energetica che era l’acqua, per far muovere le grandi ruote dei frantoi e dei mulini che progressivamente andavano ad insediarsi lungo gli argini, per azzuffarsi, poi, accanitamente, quando, nei periodi di piena, il torrente allagava le terre circostanti, riversando la reciproca responsabilità per le opere di arginatura eseguite nella sponda opposta.
Il sapore agro della terra povera, sulla quale queste comunità dovevano sopravvivere, le spingeva a carpirsi gli spazi utili e le forze vitali che vi esistevano. E’ l’eterna storia dell’uomo che cerca il suo spazio vitale sottraendolo al vicino. Più è grande la concentrazione organizzativa e quindi potenziale che congiunge la tribù-famiglia, e più la medesima, come peso specifico, può incidere sulla tribù-famiglia vicina. La grande ragnatela che circoscrive lentamente il più debole, condiziona le azioni del medesimo, per essere orientato verso la servitù del più forte, il quale muovendo le funi e regolando l’appetito per la sopravvivenza, ottiene naturalmente il massimo sfruttamento della forza fisica del più debole, per utilizzarla al proprio fine.
Oggi gli orizzonti sono diversi. Il sole sorge e tramonta ancora come sempre. La pianura è tessuta di fabbriche e di laboratori. Lo sfruttamento del campo non è più sufficiente alla condizione umana concentrata, ed allora l’uomo, con le sue capacità, ha creato il mezzo di sopravvivenza nello spazio verticale: la concentrazione di tanti campi sovrapposti, che è la fabbrica, fa rodere in comunione organizzativa per assorbirne i mezzi di vita. E’ nel lento frusciare delle macchine, nei laboratori e nelle fabbriche che, secondo la volontà dell’uomo, seguendo le movenze del loro andare, si creano i prodotti concentrati nella forza-lavoro da trasformare ancora in beni di consumo. Non è il sacco di grano o la cesta di frutta, ma il piccolo pezzo di carta-moneta da trasformare ancora in beni di assorbimento.
Quando è sera il fruscio rallenta, l’uomo maschio torna alla sua tana con la preda carpita alla foresta che lo circonda, e ritrova accanto al focolare domestico l’armonia del suo esistere. C’è stato lo ieri, c’è l’oggi, ci sarà il domani, e l’uomo sarà ancora su questa crosta a roderla per assorbire la vita. Le colline staranno immobili ancora ad occupare un poco di cielo, con le loro piante verdi, le loro case sbiancate dalle stagioni e gli uomini continueranno ad andare, a consumarsi nei giorni e nelle notti, così come le acque del Parmignola continueranno a scivolare, dopo essere scese dalle sorgenti, prima lente, in piccole quantità, poi più precipitosamente nel grande mare.

                                              

Nicola, settembre 1979   



  Le nostre responsabilità come genitori,ma anche ri-opportunità come nonni
di Stefania - 27/9/2015


 

“I genitori sono per i propri figli i primi annunciatori della Parola di Dio”. Questa frase del papa emerito Benedetto XVI ci mette davanti la nostra responsabilità di fare conoscere ai nostri figli l’Essenziale che è invisibile ai nostri occhi, ma che è Essenziale per la loro vita, come per la nostra. Ma come possiamo trasferirgliela, se anche noi non l’abbiamo ben radicata dentro di noi? Purtroppo tutto questo è già da diverse generazioni che non l’abbiamo alimentato quotidianamente dentro di noi, ed è molto evidente in quanto non ci troveremmo a questo punto, infelice, nel quale ci troviamo. Il nostro papa Francesco - dono dello Spirito Santo - ci vuole ridare l’opportunità, “se l’accogliamo”, di riprendere la strada giusta con l’Anno Santo della Misericordia: anno in cui, se ci impegniamo veramente, possiamo ricostruire il nostro “cuore rosicato” che si è ammalato per esserci allontanati da Colui che ci ha creato e ci ama immensamente.
Tutto questo lo possiamo fare mettendo in pratica il Vangelo di Gesù, che ci indica come dobbiamo vivere tra noi, sue creature, e decidendoci ad abbracciare uno stile di vita da veri cristiani, attraverso la nostra quotidiana conversione (cambiamento). Non dobbiamo perdere, noi adulti, questa opportunità, specialmente in questo nuovo anno catechistico che sta per iniziare per i nostri figli o nipoti; per essere tutti insieme una vera comunità in cammino: genitori, bimbi, catechisti, sacerdoti, tutta la Chiesa, per rispolverare quello che avevamo già ascoltato e che forse abbiamo dimenticato e, forse, trovare l’occasione per scoprire quante cose utili non conosciamo e che sono molto importanti per in nostro camminare assieme, aiutandoci l’un l’altro a conoscere Gesù come deve essere conosciuto e amarlo come Lui ci ama. E questo Gesù lo possiamo incontrare in tutte le nostre relazioni, non solo all’interno della nostra famiglia e della Chiesa, ma anche durante una partita di calcio, se i giocatori sono una ‘vera squadra’, o tra gli spettatori, se sono ‘veri tifosi’.
Ieri sera mi trovavo tra gli spettatori della Carrarese -essendo da una quindicina d’anni tifosa e frequentatrice-, e mentre stavo aspettando l’inizio della partita (mancava ancora una mezz’ora) decisi, mentre mio marito parlava con i vicini, di recitare il Rosario tra me.
All’improvviso ho dovuto interrrompere la recita perché mio marito disse forte: “Se lo sa mia moglie!”, e guardandomi mi informò che un nostro giocatore, Leonardo, fa parte degli “Atleti di Cristo”. Gli chiesi cosa significasse e mi rispose che ero troppo curiosa. Ma io volevo saperne di più. Presi il cellulare per informarmi meglio attraverso internet (da circa una quindicina di giorni mi sono decisa ad usare questo mezzo di informazione e ho cambiato il cellulare). La solita cosa ho rifatto stamani andando a cercare su ‘Google’ non solo chi sono questi “Atleti di Cristo”, ma chi è questo ragazzo, e sono stata felice di leggere le cose che ho letto. Così ho deciso di non saltare questo appuntamento col “Sentiero” di questo mese per raccontare questa mia esperienza che mi ha fatto riflettere. E anche quella di ieri sera è stata un’occasione di grande gioia, quando, arrivati allo stadio, abbiamo incontrato tante famiglie al completo, come noi in mezzo al pubblico. La serata è stata piacevolissima: tra noi spettatori e giocatori c’era armonia… e abbiamo anche vinto!
Buon cammino di conversione quotidiano a ciascuno di noi. Voglio fare vostra una bella preghiera di padre Valfredo Zamparini, fondatore dei Missionari di Maria, che penso ci possa aiutare. “Tutti  ci dobbiamo impegnare a ritornare a vivere in un mondo dove ci si dovrebbe rispettare di più uno con l’altro, iniziando proprio dalla nostra famiglia”.

                                                                                             



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  L’EXPO, un evento straordinario
di Giuliana Rossini



L’occasione era di quelle particolarmente ghiotte: un soggiorno di una settimana presso mia sorella a Sarnico (BG), una ridente cittadina sul lago d’Iseo, mi ha permesso di visitare l’EXPO senza dover compiere spostamenti faticosi. Con le mie sorelle e un’amica abbiamo scelto un poco frequentato (si fa per dire) martedì e, accompagnate in auto da mia nipote, siamo partite per l’avventura.
Il colpo d’occhio è stato subito grandioso: dall’ampio decumano, gremito di visitatori brulicanti, sui cui lati si aprivano i padiglioni di tutto il mondo, ci veniva incontro l’albero della vita, un albero tecnologico sì, ma sempre albero a indicare la necessità di avere a disposizione energia pulita. Imponente e maestoso subito ci ricordava il significato di questa esposizione dal titolo: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Tutto colpiva la mia immaginazione, perfino le bancarelle di frutta e verdura, base preziosissima della piramide alimentare, che riproducevano le produzioni dei vari Paesi del mondo. In prossimità dei padiglioni, ritenuti dai visitatori più interessanti, lunghe code, ahimé, di due-tre ore. Quel giorno erano presenti circa 20.000 coldiretti provenienti da tutta Italia che trovavamo dappertutto e che (l’abbiamo appreso la sera dal telegiornale) avrebbero dovuto incontrarsi col presidente del consiglio Renzi. L’afflusso era quindi notevole, anche se molto lontano dalle cifre record del sabato e della domenica.
 Un po’ sconcertate dalle code, all’inizio abbiamo privilegiato i piccoli stand afro-asiatici, come quelli di Tunisia, Marocco, Bahrein, Burkina Faso… Sembrava di essere in un suk per le merci esposte e i profumi che emanavano thè, caffè e spezie varie. Nel padiglione dello Skri Lanca, un ragazzo molto gentile ci ha suonato uno strumento dal nome impronunciabile, simile ad un grande xilofono fatto con canne di bambù.
Piano, piano abbiamo preso confidenza e ci siamo lanciate nei padiglioni maggiori: quello della Corea, molto coreografico e raffinato, con enormi anfore per la conservazione del cibo (loro antichissima tradizione) e immagini delicate che rimandavano alle loro consuetudini culinarie; quello del Nepal, terminato con tanta fatica e aiuto degli altri Paesi, dopo il tragico recente terremoto, ricco di profumi e musiche di sottofondo che esaltavano il senso del sacro; quello della Francia, in cui, accanto agli stand dei prodotti tipici, si sfornavano profumatissime baguette, alle quali non abbiamo saputo resistere; quello dell’Inghilterra dedicato alla produzione del miele e infine il padiglione Zero dell’ONU e quello dell’Italia. Due grandi bellissime ruote di mulino ad acqua, nel primo padiglione, introducevano al tema della mostra, completato dalla ricostruzione di significativi paesaggi agricoli dell’era pre-industriale, che mostravano l’ingegno dei contadini nella lotta contro la fame. Quello italiano, il più bello in assoluto tra i pochi visitati, si sviluppava su tre piani.
Nel secondo, veramente particolare, venivano proiettate immagini di paesaggi naturali e bellezze artistiche costruite dall’uomo su pareti ricoperte di specchi che ampliavano, rimandandole da una parete all’altra, le immagini. Anche lo spettatore era rapito in questo scenario fantastico, divenendone attore. Peccato che i vari visitatori, tutti presi a riprendere le immagini, per altro affascinanti, con tablet e telefonini (per farne che?) non si siano quasi accorti dell’opportunità loro offerta di entrare in gioco. Luci intermittenti e sottofondo musicale sottolineavano il riuscito connubio tra bellezza e tecnologia.
Lo scorrere inarrestabile del tempo, le lunghe code, la fatica degli spostamenti, purtroppo, non ci hanno permesso di vedere altro. Sono perciò ben consapevole di non poter dare un giudizio, ma non dico completo, ma neppure che si avvicini alla complessità di questo evento veramente eccezionale e di portata planetaria. Posso solo riportare le mie personali impressioni e alcune riflessioni che le immagini mi hanno suscitato. Ci si trova davanti a qualcosa di assolutamente grandioso che pare impossibile (sia pure con migliaia di addetti) di essere riusciti a completare nei tempi stabiliti. Ogni Paese si è impegnato a mostrare ciò che lo rende unico, ciò che di più bello e importante produce nel campo dell’alimentazione: chi suggerendo metodi naturali di conservazione, chi l’uso di energia non inquinante, chi ricordandoci che la tecnologia può essere anche bella…
C’è veramente da rimanere stupiti e da imparare molto. Non è certo cosa di tutti i giorni una manifestazione che affronti il problema del cibo a livello mondiale preoccupata di riuscire a trovare sistemi che garantiscano cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti, senza deturpare e rovinare irrimediabilmente il pianeta.
Mi sembra interessante notare come questa istanza, fondamentale ai nostri giorni, di risolvere il problema della fame e dalla povertà, avendo cura della casa comune, si collochi accanto ai grandi temi che papa Francesco affronta nella bellissima enciclica “Laudato si’”, sia pure con toni meno intensi e drammatici di quelli usati dal Pontefice.
C’è da sottolineare anche il desiderio molto forte di dover compiere, in questa grande impresa, uno sforzo comunitario che veda artefici e collaborativi tutti i Paesi grandi e piccoli del mondo. La mascotte Foody, costituita da undici elementi, rappresenta appunto questa voglia comune di risolvere pacificamente le sfide legate all’alimentazione. Non si può negare che si tratti di un ideale grande, vero, positivo che unisce e non divide e che può allontanare lo spettro delle guerre e delle violenze dei potenti contro i più deboli e indifesi e la cui trasposizione in progetti, anche se solo in fase di ideazione e studio, non può non portare risultati di bellezza, armonia e genialità.

                                                                               


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  L’eccidio del Cornocchio -2 Maggio 1945
di Romeo Rossetti – già Parroco di S. Martino di Casano



L’attacco del 2 maggio, tristemente noto come “strage del Cornocchio” che causò la morte di 60 persone, colpì a Parma la stazione della ferrovia e l’area compresa tra Viale Piacenza e Via Reggio, mentre l’azione del 22 giugno fu il quinto e ultimo bombardamento subito dalla città nel giro di pochi mesi. Naturalmente le incursioni aeree non risparmiarono i civili. Seicento circa i morti nel solo comune di Parma. Non tutti infatti avevano il tempo o la possibilità di scampare ai bombardamenti nascondendosi in uno dei 12 ricoveri pubblici della città con la tragica eccezione del ricordato eccidio del Cornocchio, riguardo al quale la stampa riportava: “Improvvisamente una squadriglia di caccia bombardieri comparve tra la nuvolaglia, puntò come un segugio sul treno in transito che fece appena in tempo a fermarsi, quindi dopo un rapido cerchio nell’azzurro del cielo, scese lasciando cadere in picchiata il suo micidiale carico di bombe, piccole e medie sui binari, sul treno e sul rifugio ormai pieno zeppo di persone. Normalmente esso accoglieva gli abitanti del piccolo gruppo di case del Cornocchio tutte le volte che suonava la sirena. In questa occasione però vi erano corsi disperatamente anche moltissimi viaggiatori del treno in transito ed alcuni operai che lavoravano per le ferrovie: il disastro fu enorme”.
Io persi in quel bombardamento gli amici più cari. Ciò che avvenne in quel periodo ha inesorabilmente cambiato me stesso e la mia vita per sempre, recandomi quel dolore che avrebbe poi accompagnato ogni scelta che avrei intrapreso in seguito. Ho abbracciato infatti, da lì a poco, la vita religiosa in particolare quella del missionario.
In quel tempo mi trovavo in Germania, ero internato, anche se abbastanza libero, presso la fabbrica di dinamite a Norimberga dove vivevo come operatore in un particolare ufficio. Avvenne proprio in quel periodo la tragedia che mi venne comunicata da un amico del Cornocchio; in quel terribile evento perse la vita anche colei che allora era la mia fidanzata, promessa sposa; il dolore fu così intenso che persi perfino conoscenza.
Ogni anno mi reco presso la lapide commemorativa costruita proprio nel luogo dell’eccidio e prego per lei e per ognuno di loro.

 

                     Varano De’ Melegari 16 settembre 2015

                    

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