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“Se guardi il comportamento degli altri non incontrerai mai Gesù”
di Stefania
Questa
frase mi fu detta 7/8 anni fa da un sacerdote. Allora non potevo ancora capire
il significato pieno di questa frase, stavo passando un periodo di
allontanamento dalla Chiesa e, di conseguenza, non mi nutrivo di ciò che è
sostentamento per l’anima e per lo spirito (la Parola di Dio, l’Eucaristia, la
Confessione…), ma, grazie ai Sacramenti fino allora ricevuti, in me rimaneva la
Sua presenza e la mia fede, anche se tiepida, mi spingeva quasi ogni giorno a
recarmi nella solita chiesa per parlare con Gesù e Maria.
Una meravigliosa mattina entrò in quella chiesa il parroco e mi chiese se
potevo dargli un aiuto nell’insegnamento del catechismo ai bambini. Gli risposi
subito di no, anche perché, oltre alla mia poca conoscenza della materia, erano
già diversi mesi che non partecipavo neppure alla Santa Messa. Mi chiese il perché di quel distacco e io gli
risposi che era dovuto, principalmente, al comportamento incoerente di persone
che frequentavano assiduamente la chiesa. Il parroco in maniera decisa ma anche
sorridente mi disse allora quella “salvifica frase”: frase che rimase impressa
nella mia mente, ma che non arrivò nel profondo del mio cuore, in quanto non
avevo ancora la consapevolezza e la certezza di ciò che mi stavo privando non
partecipando alla Messa.
Non mi ero ancora messa in discussione e quindi non sapevo, come mi dice il mio
padre spirituale, che ogni Messa, se vissuta, è per ciascuno di noi una “Messa
di guarigione” per la nostra anima e, di conseguenza, non avevo ancora la
consapevolezza che ero, o potevo essere, caduta nella trappola di Colui che ci
vuole allontanare dal nostro Creatore e, come ha detto ieri all’Angelus papa
Francesco, “ogni giorno ci tenta…”. E
come non ricordare quella frase pronunciata l’estate scorsa dal Santo Padre:
“Chi non prega Dio, prega il diavolo”?
I giorni passavano e io continuavo a non alimentarmi di quello che la Chiesa
con i suoi ministri ci offre fino a quel benedetto giorno quando, in occasione della visita pasquale, don
Andrea mi chiese come mai non partecipavo più alla Santa Messa e se ne sentivo
la mancanza. Gli risposi che quello che mi mancava era l’Eucaristia perché
avevo la sensazione (non ancora la consapevolezza) che quel nutrimento mi
faceva stare meglio. Il parroco mi spronò e convinse a riprendere quel cammino,
e così dopo qualche settimana di battaglie interiori, ripresi.
Ora posso con convinzione affermare e ripetere (proprio perché ci sono caduta
in quella trappola) che è verissimo quello che ha detto il Papa l’otto febbraio
scorso: “Chi non va a Messa è uno scemo!”, che non voleva essere un’offesa o un
obbligo, ma solo il consiglio di un Padre amoroso e premuroso verso i suoi
figli; Egli ci ama tanto ma ci lascia la libertà di scegliere su quale strada
camminare. Ad oggi (e mi ripeto) ho la consapevolezza e la certezza che se non
avessi voluto fare quella benedetta inversione di marcia, mi sarei sempre più
assopita e sempre più allontanata da quel senso cristiano della vita che avevo.
Ed ora vedo che riesco con serenità a non giudicare e a non guardare più quello
che fanno coloro che sono fuori o dentro la Chiesa: penso solo al mio
comportamento sincero e leale con Dio e con il prossimo, cercando di mettere
veramente in pratica tutti i suoi comandamenti e gli insegnamenti del Vangelo.
Buona e Santa Pasqua a tutti voi, lettori di questo bollettino e buon cammino
quotidiano di conversione a ciascuno di noi: se rimaniamo uniti alla Chiesa in
maniera cristiana, non ci possiamo perdere.
“Si
entra in chiesa per amare Dio, si esce per amare il prossimo”
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Una cognata un po’ rara
di Marisa Lisia
Spesso
mi domando di che pasta io sia fatta, e lo domando anche al Padreterno, sapete?
Ed ecco l’illuminazione: sono un genio (si fa per dire) nello scoprire le
persone con una marcia in più. Un esempio: mia cognata Fedora. Oh, sapete? Nel
suo paese tutti, proprio tutti, la conoscono come una bravissima ragazza,
ancora giovanissima è andata a lavorare per sostenere i suoi genitori anziani;
per le sue innate capacità e buona volontà è stata trattata con affetto e
rispetto. Sposatasi, la cicogna le ha portato tre bei piccolini, due maschietti
e una femminuccia bionda e ricciolina: ora sono tutti grandi e sposati.
Ho un solo rammarico, quello di non esserle vicina, perché da lei avrei avuto
tanto da imparare.
Abita in una località di mare e in estate mi ospita in casa sua… e che
mangiarini sa fare!
Al mattino colazione alle otto in punto, caffelatte pronto sul tavolo con tazza
e piattino, come una signora: bisogna ammetterlo, è proprio perfetta. Mai
sentito un pettegolezzo malevolo, mai; sempre calma anche col marito che,
purtroppo da circa un anno non c’è più, ma non è proprio esatto dire così,
perché le sue ceneri le custodisce dentro un’urna di marmo, sul comò, nella
sua camera. Quand’era più giovane aveva
accolto insieme al suo sposo una giovane ragazza senza un tetto che poi si è
sposata, e credo che siano stati i loro testimoni di nozze. Che dire poi dei
quattro nipoti di mia cognata? Li ha avuti sempre per casa, si può dire quasi
che li ha cresciuti lei, perché le nuore e la figlia lavoravano.
Penso proprio che tutte le persone che la circondano nutrano per lei una vera e
propria ammirazione. Un giorno, io presente, il genero ha detto queste testuali
parole: “Se tutti fossero come la Fedora, il mondo sarebbe migliore”. Ha
custodito e assistito i suoi genitori che sono morti entrambi nel loro letto.
Da parte mia le auguro tutto il bene del mondo e grazie per tutto ciò che ha
saputo fare intorno a lei.
Non farei una bella cosa semi dimenticassi di ricordare la mia nipote ricciolina;
ricordo sempre il suo sorriso così comunicativo: è proprio una rarità. Non so
se quest’anno mi inviterà ancora e se io stessa, vista la mia età, potrò vivere
ancora quei deliziosi giorni, per ora lo spero.
P.S.
Anche sua nuora ha una marcia in più, forse anche due: me ne compiaccio con mia
cognata. Sono in molti in famiglia e non
posso nominarli tutti, ma li tengo tutti stretti nel mio cuore.
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Ricordare è continuare a vivere…
di Romano Parodi
Albero = pé - g’ià ‘mbocià ‘l pé: come
antifurto si mettevano le spine agli alberi da frutto; quand ’l pé g‘ià ‘l nodo, in t‘l piegh pù:
quando la pianta ha i nodi non si piega più.
Amico - s’ t’vo’ k’ d’akordo i stà;
‘na man al pi’g’ia e una al dà: se
vuoi che l‘amicizia regge, una mano piglia e una dà.
-aprile - aprilo ;
«tut i dì ‘n barilo» (piovoso);
«marz asciuto, april bagnà, biato ‘l vilan k’ g’ià s’m’nà» marzo asciutto, aprile bagnato, fortunato il
contadino che ha già seminato.
-acqua - «p’r San Lorenz akua
‘n tempo, p’r Santa Maria a dè p’r la via, p’r San Roko a dè stà tropo» per
salvare la raccolta delle olive.
-ammucchiare - arunara,
amuk’iara, arguag’iara, armanik’iara; «p’r San Pietro amuk’ia apieto, p’r San Gioàn arun ‘n
kà» (il fieno); (per S. Pietro
ammucchia ad essiccare alla rinfusa, per s. Giovanni riunisci nel fienile); «koi pe’ g’iarguag’ia e con la man
g’iarmanik’ia» raccoglie il fieno con
piedi e mani.
-aria - «se d’aria a dè rosa
o ki piscia o ki sofia» (o piove o tira vento).
-b’stento - «a m’ par la frola del b’stento», o «d’l m’n’stento»
(cose che vanno per le lunghe)
-blagon, mafioso - borioso, elegantone «i para ‘l pot d’ Mod’na» persona effeminata «i s‘apresha kom‘l gadeto ‘n t’l podaro», si
pavoneggia.
-batoreda, pik’iareda - tavoletta con un batacchio (nella settimana
santa si legavano le campane, quindi per avvisare delle funzioni religiose
e del mezzogiorno, si usava la batoreda e la gra gra andando per le vie del paese); «g’iè na batoreda», uno che parla
velocemente.
-b’shik’io - germoglio; «‘l
b’sh’k’io d kastagna i fa v’nir i piok’i». I butti delle castagne fanno
venire i pidocchi.
-burro - butiro; «fash’oli
dal butiro» (fagiolini di cui si lessano
i baccelli); minestra al burro: «‘l
past d’l kornon» (la cena della moglie infedele).
- kacialà –
polentina di castagna.
-kaldana – “la
pecora a dè ‘n kaldana”, in calore “a dè a d’agnedo”.
-cesso – “lok com’do”
- candido – arbo- I
fichi arbaceri sono quelli bianchi
-caldo – “San’Antonio
gran fredura, san Lorenzo gran caldura, pogh i dura” (il gran freddo di
sant’Antonio e il gran caldo di san Lorenzo non durano.)
-Casano – “da già ke
me a so, che tut i san che me a son d
Casan, a m’n lau la man” (menefreghisti)
-cavallina (gioco) – si saltava sopra un compagno penalizzato
dalla conta e si diceva: “luna, luna;
do ‘l bò; tre la fig’iola d’l re; quatro,
spazatera, rumenta e cicoria; cinqui, il nips (e dopo il salto si
intrecciavano i piedi); sé, pata e
culata (si dava una pata nella schiena e nello scendere una culata, sermpre
nella schiena); séta, lo spigoleto
(saltando si dava una calcagnata nel sedere); oto, un bel cinghiotto (un pizzicotto sulla schiena); nove, la Mariolina fa le prove sul leto
sofà; deshi, m’nestra e ceci; ond’sha, l’appunto (finito il salto si
alzava un dito al cielo); dod’sha spara
canon bron bron; tredisha, ai lascio d’mpegno (si lasciava qualcosa sulla schiena); quatord’sha, a m’ d’arpig’io (ognuno si riprendeva il suo); quind’sha, la bela statuina…. e vintun, ‘n k’iodo ‘n t’l kulo e n’l dir a
nisciun”.
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Agnese non abita più qui
di Carlo Lorenzini
Io
Agnese l’avevo lasciata all’età di quasi nove anni. Era alta, snella, capelli
castani, occhi vivi, allegra; pronta al gioco, pronta ai lavori domestici, che
nel podere che conducevano non molto lontano dal piccolo borgo erano molti e
pesanti; giocavamo insieme; tutti gli spazi di quella vasta campagna erano
nostri; e così tutti gli ambienti della casa; eccetto che entrando lei in
camera sua, mi diceva sorridendo: “Tu sei un maschio, tu non puoi entrare nella
camera di una ragazza”. Era casta nel modo più semplice e naturale. Ed era
sensibile e contemplativa. Si incantava e restava molto tempo come assorta di
fronte alle albe e ai tramonti in quella bella e aperta campagna poliziana. Ed
era curiosa. Le piaceva recarsi sul mezzogiorno nella modesta locanda su in
paese a dare una mano al gestore.
Lì si fermavano a mangiare mercanti dall’Umbria, dalla Toscana e dal Lazio.
Raccontavano di Assisi, di Todi, di Siena, di Firenze e di Roma.; e a volte,
cantori oltre che mercanti, recitavano le Lodi delle creature di Francesco, un
tipo originale di Assisi, morto in odore di santità una cinquantina d’anni
prima; oppure alcune delle più infiammate poesie religiose di quel pazzo di
Iacopone, fustigatore di papi e cardinali; oppure delicati sonetti d’un certo
Dante, fiorentino, che, ancora del tutto ragazzo, già scriveva poesie per una
fanciulla che si chiamava Beatrice. E Agnese si abbandonava ad ascoltare e
scordava anche di servire.
Poi io partii e andai in città a frequentare le scuole. E prima di partire
dissi ad Agnese: “Io parto, ma tornerò e tu sarai qui; e noi…”. E lei non
diceva niente e aveva le lacrime agli occhi… E io partii con nella mente quel
volto e quella campagna e nel cuore la speranza…
E, lontano, nei miei quaderni incominciarono a fiorire sonetti per lei, per
quella fanciulla novenne che, a volte, guardando alle sue albe e ai suoi
tramonti, sembrava avere nel volto il soffio del divino.
Ricordo che io e Dante (io ero ospite nella sua città e Dante era il mio
compagno di studi) facevamo a gara a scriverne: lui per Beatrice: “Oh, se
sapessi!”, mi diceva spesso; e ogni volta aveva l’aria di informarmi di una
novità, “Se sapessi! L’ho conosciuta alcuni anni fa: era il primo maggio. Mi
apparve improvvisamente. Aveva poco più di otto anni; io ne avevo nove. Mi
apparve improvvisamente in una via della città, sola. Era vestita di rosso. Era
come una fiamma di luce. Oltrepassandomi mi guardò ed io, sotto quello sguardo
stavo per morire, io dissi: “Ecco, questa fanciulla mi dominerà per tutta la
vita”; e dissi: “Oh, miei occhi, è apparsa la vostra beatitudine”; e dissi
ancora: “Da qui in avanti non sarò più padrone di me”. Oh, aveva ragione il
povero Dante: l’aveva presa la sbandata! Non era più se stesso. E scriveva
versi per questa sua Beatrice, che aveva press’a poco l’età di Agnese. E
anch’io ne scrivevo per la mia Agnese, lontana e non vestita splendidamente di
rosso come la raffinata Beatrice qui, la quale non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Deo. E poi questi nostri
versi li leggevamo fra noi amici della schiera dei cantori d’amore; e li
facevamo leggere a ser Brunetto che era il nostro maestro; il quale,
leggendoli, sorrideva di noi e delle nostre stilnovistiche passioni.
Poi passarono gli anni ed io, nella città di Dante, fui amico di tanti poeti,
una lunga serie. Era il luogo dove prima o poi capitavano tutti… E passò molto,
molto tempo… Infine ritornai al paese… Per prima cosa andai alla cascina di
Agnese, dove pensavo che l’avrei trovata. Trovai, invece, il deserto. La casa in
abbandono. Erbaccia e rovi dappertutto.
Il tetto semi crollato, le porte spalancate, le finestre, alcune divelte.
Entrai nella cucina e nelle stalle a livello dell’aia: un fuggi fuggi di topi,
lucertole, sporcizia ovunque, scatolette aperte , consumate e gettate qua e là,
cartoni di latte svuotati e abbandonati, bottiglie di birra e di coca pure
vuote, dove capitava, siringhe un po’ dovunque. Uscii di nuovo fuori… Guardai
in giro… Oh, dov’era quella verde campagna estiva, fertile e ombrosa di grano,
di viti e di ulivi, di quando Agnese era adolescente di circa nove anni?
Tornai angosciato verso il paese.
Andando vidi che in un podere accanto stavano lavorando. Chiesi notizie dei
signori Segni con la figlia Agnese. Essi alla mia voce alzarono la testa; mi
videro; mi guardarono; e, invece di rispondermi, si diedero fra loro
un’occhiata di meraviglia; poi notai che uno, rivolto verso di me, parlò; ma
non potei percepire cosa: due reattori improvvisamente sfrecciarono nel cielo,
impedendomi con il loro boato di udire ogni possibile voce. Lasciai perdere.
Proseguii verso il borgo. Poco più oltre incontrai il portalettere che veniva
in bicicletta. Gli feci segno di fermarsi. Si fermò. Anche lui mi guardò come
se fossi un essere strano. “Ah, i Segni. Ma è da tanto tempo che non ci sono
più; il babbo ha trovato lavoro in città e se ne sono andati. Qui ormai abbiamo
poderi abbandonati oppure occupati da immigrati… Comunque mi hanno lasciato
l’indirizzo, per l’invio della posta. Tirò fuori un taccuino. Vi scrisse qualcosa
sopra. “Lo so a memoria”, disse. Poi ne strappò il foglio e me lo diede.
Il giorno dopo ero presto in città, in via Petrarca, al numero… Mi appostai in
vista del portone. Volevo farle una sorpresa, alla mia Agnese. Attesi alquanto.
Non succedeva niente. Finalmente vidi uscire un uomo. Era il padre. Allora è
qui che abitano. Il cuore mi batteva forte. Io che prendevo in giro Dante per i
suoi tremebondi atteggiamenti in presenza di Beatrice. Povero Dante! Era lui
solo a vedere nella sua Beatrice una fiamma di luce. Io l’avevo conosciuta la
bambina. Sempre inappuntabile. Labbra
strette. Occhi fermi. Non rideva mai. Sorrideva. Chissà che fuoco di calore da
quella personcina sempre rigida e composta, senza mai un fremito, senza mai uno
slancio! E da quella fronte più candida del bianco marmo, una fronte che invece
di racchiudere ardori di passioni, racchiudeva razionalismi e neologismi…
Mentre, la personcina di Agnese, com’era flessuosa e morbida, quando come uno
scoiattolo si arrampicava agile sugli alberi; oppure quando si rotolava nel
fieno, che a un certo punto se ne ricopriva tutta e non si vedeva più e si
sentiva solo la sua voce che mi chiamava. E quella sua fronte che aveva bruna
del colore della terra, com’era una fronte varia a specchio di pensieri e di
sentimenti…
Riconobbi, dunque, il padre, anche se era in tuta da operaio della Fiat. Corse
verso la sua automobile; oltrepassandomi non mi vide. Ogni tanto guardava
l’orologio. Salì e presto scomparve nel labirinto della città. Per un po’ non
successe niente. “Eppure a scuola ci dovrà andare…”, mi dicevo. Ma intanto non
usciva nessuno… Arrivò invece uno in motocicletta che si fermò accanto a me.
Anche lui guardava l’orologio e guardava il portone. Poi disse: “La scema è
sempre in ritardo. Vaglielo a ripetere che non mi piace aspettare”. E diede un
rabbioso colpo di clacson. Da dentro si sentì: “Oh Cristo! Vengo, vengo,
arrivo!”. E salendo poi sulla motocicletta, gli gridò: “Ma se ti rompe di
venirmi a prendere, smetti pure che io mi arrangio con qualche altro…”. “Lo so
che tu il pudore ce l’hai sotto le scarpe…”. Così da vicino la vidi bene. Era
lei, Agnese. Ma, Dio mio!, quale mutamento in quella ragazza dai capelli verdi,
quasi svestita, in bocca la sigaretta e in mano il telefonino. Ma era lei, Agnese:
nel volto, a guardar bene, la stessa soavità di innocenza. Io mi feci coraggio,
li affrontai; e rivolto alla ragazza: “Scusa, dissi, tu non sei Agnese? Agnese
Segni?”. “Io Agnese Segni?!”. E rivolta verso il suo ragazzo: “Ma chi è costui?
Tu lo conosci?”. Il ragazzo fece di no con la testa. Io insistei: “Sei o non
sei Agnese Segni?”. “E insiste con
Agnese. Ma chi è questa Agnese Segni? Questa mattina la giornata incomincia
sotto il segno del ‘no’ “. Il compagno teneva la moto in folle. Non ripartiva.
Lei si dimenava sul sedile posteriore. Io non dicevo niente; ma la guardavo per
avere una risposta. Poi fu lei che rivolta al giovane, disse: “Vai vai che
siamo in ritardo! A saperlo cosa vuole costui, vestito da paggio medioevale in
pieno sole di giugno. Come se fosse carnevale. Ma guarda tu i pazzi… Vai vai ti
dico!”. Il compagno ingranò la marcia e si avviò. Mentre partivano, il
telefonino della ragazza squillò. Feci appena in tempo a sentire lei che
protestava a tutta voce: “Ma che vuoi? Sei tutto scemo! Io sto e vado con chi
mi pare… “, che la motocicletta svoltò l’angolo e scomparve.
Io rimasi solo a guardare la casa. Passò il solito portalettere: chiesi: “Non
abita più qui la famiglia Segni?”. “Un tempo, un tempo, mio caro signore. Un
tempo lontano. Ora non più…”. “E Agnese?”. “Agnese?! Quale Agnese?”. Intanto si
fermò un passante; poi due; poi tre. Poi si formò un gruppetto di persone
attorno a me e al portalettere il quale li informò: “Costui cerca Agnese,
Agnese Segni”. “Cerca Agnese?! Qui? E di questi tempi?”, fece uno. “Ai suoi
tempi, magari”, disse un altro; e indicò il mio vestito di foggia medioevale.
“Ai suoi tempi magari. Ma ora, di questi tempi, Agnese?!”. Un terzo disse: “Ma
costui è pazzo! Agnese qui e di questi tempi?!”. Infine si rivolse a me una
signora, che, parlandomi quasi sottovoce, mi avvertì: “Un consiglio da amica,
mio caro signore, e da persona che conosce il mondo: si levi da qui; e non si
faccia più vedere. Ché se a qualcuno viene l’idea di chiamare quelli della USL,
dicendo che qui c’è uno vestito come lei è vestito e che cerca Agnese, Agnese
Segni, chi gliela ritoglie a lei la camicia di forza?”.
A miglior comprensione dei
riferimenti contenuti nel racconto, ecco alcune date: S. Francesco 1182-1226;
Brunetto Latini 1220-1295; Iacopone da Todi 1230-1306;Dante 1265-1321; Agnese
Segni 1268-1314. Agnese aveva 9 anni nel 1277, quando io e Dante ne avevamo 12.
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Il foglietto de “La Domenica”
di Paola Vitale
A fine settimana ritiro dai
sedili il foglietto de “La Domenica” e preparo i fogli della domenica seguente.
In cuor mio provo un po’ di rammarico nel vedere come non è raccolto quel
piccolo tesoro. Va beh! Quei foglietti
sono dappertutto in casa mia, perché con essi confeziono dei libricini di
testimonianze. Sulla prima pagina pongo il Santo, il Papa, l’Apostolo descritto
sul retro del foglietto, unendo poi la descrizione e varie preghiere
fondamentali riguardanti la celebrazione dell’Eucaristia.
Mi direte: “Ma a che
serve?!”. Diventano un pro-memoria a portata di mano, una testimonianza e uno
stimolo al buon vivere cristiano, per camminare nella fede che in tutta Europa
ha trovato i suoi Santi testimoni e la diffusione della civiltà dell’amore.
Ecco a cosa serve, anche, il
foglietto de “La Domenica”.
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Gesù della Divina Misericordia
di Marta
Qualche
giorno fa papa Francesco ha dato, a sorpresa, l’annuncio che il prossimo anno
sarà l’anno del Giubileo della Divina Misericordia. Questa festa, che si
celebra la prima domenica dopo la Pasqua, è stata indetta da San Giovanni Paolo
II in onore di suor Faustina Kowalska che il 30 aprile del 2000 è stata
proclamata santa.
Il 22 febbraio 1931 Gesù apparve a suor Faustina, nella sua cella in un
convento della Polonia, affidandole il ‘Messaggio della Divina Misericordia’. Suor Faustina scriveva nel suo Diario: «La sera, stando nella mia cella, vidi il Signore Gesù vestito di una
veste bianca: una mano alzata per benedire, mentre l'altra toccava sul petto la
veste, che ivi leggermente scostata lasciava uscire due grandi raggi, rosso
l'uno e l'altro pallido… Gesù mi disse: "Dipingi un'immagine secondo il
modello che vedi, con sotto la scritta: Gesù confido in te! Desidero che quest'immagine
venga venerata nel mondo intero. Prometto che l'anima che venererà quest'immagine
non perirà… Voglio che l'immagine venga solennemente benedetta nella prima
domenica dopo Pasqua: questa domenica deve essere la festa della Misericordia».
Suor Faustina fece fare a un pittore un dipinto con l’immagine di Gesù come le era apparso e quell’immagine venne
poi diffusa in tutto il mondo.
Per una pura coincidenza un
ragazzo, anche lui polacco, che abitava a Canevara, un piccolo borgo sopra
Massa, aveva il desiderio di fare un dipinto nella chiesa del paese.
Il parroco, don Ernesto, disse a Dawid (così si chiama questo pittore) di fare
un affresco su uno vecchio ormai tutto svanito. E così Dawid decise di fare
l’immagine vista da suor Faustina nella chiesa di S. Antonio abate di Canevara.
Appena si varca la soglia della
chiesa, questa immagine ti lascia a bocca aperta. Tutta la parete fatta ad
arco, dietro l’altare, rappresenta un gran cielo stellato con il suo sistema
perpetuo: il sole prima piccolo poi, piano piano, sempre più grande illumina
Gesù con la mano destra alzata e la sinistra sul petto, da dove escono due
raggi, uno rosso rappresenta il sangue, è la vita delle anime; uno bianco
rappresenta l’acqua, giustifica le anime. Gli occhi azzurri di Gesù sembra che
ti penetrino nell’anima. Sotto, la scritta: Gesù, io confido in Te. E sembra
che Gesù stia scendendo dal cielo per venirti incontro.
Non avevo mai visto niente di simile; le immaginette che si trovano nelle
chiese non rendono lo splendore di quell’affresco: invito tutti ad andare a
vederlo, è qui a pochi chilometri e ne vale la pena. Il giorno 12 aprile p.v.,
festa della Divina Misericordia, alle ore 16,15 verrà celebrata la Santa Messa, “l’anima che in quel giorno si sarà
confessata e comunicata, otterrà la piena remissione di colpe e di castighi”.
Per chi lo desidera c’è anche un punto ristoro.
Poi, percorrendo il fiume Frigido con le sue belle acque chiare, dopo tre
chilometri, c’è un altro paesino, Forno, con una piccola chiesa; l’interno è
pieno di tante belle immagini sacre. Anche qui troviamo la mano di Dawid che ha
dipinto sulla facciata, in alto l’Ultima Cena, in basso degli angeli; inoltre
sulla parte laterale della chiesa ha dipinto lo stesso volto di Gesù che,
seduto su un masso della montagna, parla ad una moltitudine di persone che lo
attorniano e tra questi si possono riconoscere persone del posto morti
tragicamente: per alluvioni, terremoto, incidenti… E, accovacciata sotto quel promontorio da
dove parla Gesù, c’è una figura di donna assai triste, vestita di nero; sul
velo che le copre il capo c’è una farfalla azzurrognola in procinto di volare;
i tanti fiori circostanti sembra si possano raccogliere, tanto sono reali.
Di nuovo invito chi volesse a fare questa
breve e suggestiva gita: si ritempra il fisico e lo spirito.
Buona Pasqua a tutti!
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