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Un caro ricordo di un “santo”
di Romeo Rossetti già parroco (oltre 50 anni fa) di San Martino
Carissimo Doretto, terminata la tua
eletta esistenza, affiorano alla mia mente e specialmente al mio cuore tanti
ricordi. Uno dei tanti che mi legano alla tua vita è avvenuto in uno dei tanti
viaggi motociclistici: quello relativo al mio, non troppo gradito,
trasferimento ecclesiastico presso la parrocchia di Valletti, già parrocchia
di S. Anna.
Siamo arrivati in detta parrocchia, trovandola chiusa, senza alcuna ricezione
da parte dei responsabili che noi con costanza e impegno siamo andati a cercare
presso le loro residenze. Siamo successivamente entrati nella canonica che
risultava completamente abbandonata e trascurata, data, forse, la “particolare
natura” del parroco precedente. Ci siamo subito impegnati a sistemare e riordinare
sia la sacrestia che la chiesa stessa (dato che il giorno seguente si sarebbe
verificata la annuale festa dedicata a S. Anna) eretta santuario da parte del
Vescovo di Chiavari.
Era già pomeriggio tardi e stava venendo la sera e quindi la necessità di una
pur semplice cena; tuttavia in canonica era praticamente impossibile trovare
qualsiasi genere di consumo ed eravamo pertanto senza alimenti per mangiare. Fu
allora, carissimo Doretto, che si sprigionò dalla tua mente un’idea che si
rivelò risolutiva; decidesti di andare a procurati il cibo presso il gruppo di
case vicino alla chiesa. Così fu, e tornasti con una splendida e generosa
gallina. Tu allora con quella gallina preparasti una abbondante e deliziosa
cena. Durante la tua permanenza (di circa tre meravigliosi giorni) nella ormai
mia parrocchia mi aiutasti dalla mattina alla sera in tanti lavori di ogni
genere; tra l’altro mi aiutasti anche a costruire l’impianto elettrico della
canonica assolutamente inadeguato, disfatto e inservibile.
Caro Doretto, questi sono soltanto dei semplici e modesti ricordi ma che
rivelano in te un’anima desiderosa di carità verso il prossimo. Ti ringrazio di
tutto ciò e spero, senza pretendere la tua santità, di raggiungerti quando
vorrà il Signore, nella felicità eterna.
Varano Dé Melegari, 04/02/2015
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Dal “diario” di Doretto (bozze di articoli non terminati)
di Doretto
Sabato, 11 maggio 2013
- Questa notte,
all’ospedale di Sarzana dove era ricoverato da qualche settimana, è morto il
mio amico Cudì. Me lo sentivo nel sangue! Ho pregato molto per la sua anima,
già da un po’ di tempo. Mi auguro di ritrovarlo in Paradiso, se un giorno Dio
mi ci vorrà, e così potremo ricordare i tanti momenti di gioia vissuti insieme
quaggiù.
Cudì era un buono. Era un giusto. E i
giusti Dio li predilige. Finché sarò qui, ancora in terra, pregherò per lui.
Gesù, ascolta la mia preghiera!
Lunedì 18 novembre 2013
- Dio è Amore, ma Dio è
anche Luce, e Gesù ”come Luce è venuto nel mondo” (Gv 12,46). Ma quanta umanità
è immersa nelle tenebre, Gesù! Tu sei venuto nel mondo per riscattarla, hai
dato tutto te stesso, soffrendo sulla croce fino a sentire l’abbandono del
Padre, quando hai gridato: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. In
quel momento Tu ci hai riscattato, ci hai tolto dalle tenebre, ci hai
spalancato le porte del Paradiso. E infatti il terzo giorno sei risorto dai
morti e ci hai fatto risorgere anche noi con Te! Tutti!
Fin qui tutto bene, tutto chiaro, tutto bello. Ma per l’umanità che ancora oggi
vive nelle tenebre, là dove la tua Luce non è o non è ancora arrivata: cosa
possiamo fare noi? Quando sei salito al cielo hai lasciato agli Apostoli il
compito di divulgare il Vangelo a tutti i popoli; e su di loro e con loro e tua
Madre, hai fondato la Chiesa… .
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Un ricordo di Eliano
di Enzo Mazzini e Sandro Lagomarsini
Io sono molto legato a Paola
Gari, sia per i comuni trascorsi professionali, sia per l'attuale impegno
profuso in difesa dei diritti dei cittadini in relazione ad un bene
fondamentale qual’è il diritto alla salute e quindi all’accesso alle
prestazioni sanitarie. Per questo sono stato molto colpito dalla drammatica
notizia della scomparsa di Eliano, suo adorato consorte.Paola mi aveva sempre
tenuto informato del decorso della sua malattia, ma non per questo sono stato
meno colpito dalla notizia del suo distacco da tutti noi.
Eliano è stato un cittadino molto impegnato nella socialità e molto legato alle
sue origini e proprio per questo ha voluto trascorrere gli ultimi mesi di vita
nella sua amata casa di Ortonovo, dove era nato e dove aveva passato gli anni
della sua infanzia e della prima giovinezza. Notevole e commossa è stata la
partecipazione di popolo alle sue esequie, sia a Sarzana che gli ha tributato
un caloroso saluto,sia nella sua Ortonovo dove ha voluto essere sepolto, vicino
ai suoi cari.
Per meglio illustrare la sua figura e la sua statura umana, credo che siano
abbastanza eloquenti le testimonianze fornite da don Sandro Lagomarsini,
parroco di Cassego e di Amilcare Grassi, suo compagno di impegno politico, in
occasione del commiato da Sarzana e riportate di seguito integralmente.
Enzo
Per Eliano - 9 dicembre 2014
Quarantaquattro
anni fa (era il 7 marzo) sono stato tra i testimoni del matrimonio di Eliano e
Paola, celebrato nel doposcuola di Cassego. Questa mattina ho mostrato le foto
di quel giorno ai miei attuali studenti di Italiano, i profughi fuggiti dalla
Libia e originari del Bangla Desh, che ora si trovano a Varese Ligure. Ho
potuto farlo perché quattro giovani sposati presenti dei quindici di questa
mattina, i quali mi hanno detto: “Anche i nostri matrimoni si sono svolti nelle
stessa semplicità”. Dunque, dopo oltre quarant’anni, quella celebrazione può
essere ancora un modello. Più difficile, per i miei allievi di oggi, capire il
rispetto che c’era in quella celebrazione, sia per la coscienza credente sia
per la coscienza non credente (o, forse, diversamente credente). Ma anche
questo modello di rispetto dovrebbe essere oggi una cosa comune. Nelle foto si vede anche un bambino del
doposcuola che legge una lettera di auguri. Tra le altre cose, quella lettera
augurava a Paola ed Eliano di costruire una casa, una famiglia, senza fossati e
senza ponti levatoi, ma aperta e accogliente. Era la traduzione dell’augurio
che si trova alla conclusione della Messa per gli sposi: “Aprite la vostra casa ai poveri e ai sofferenti, perché anch’essi vi
accolgano un giorno nelle tende eterne”. Per quanto ho potuto nel tempo
vedere, Eliano e Paola non hanno dimenticato questo augurio e, anche senza fare
consuntivi, è giusto riconoscerlo oggi, quando un percorso di vita si è
concluso. Anche quando si è in sintonia
e si è legati da amicizia, la vita spesso ci tiene fisicamente lontani. Bisogna
restare fedeli al posto che ci siamo scelti o che ci è stato assegnato nelle
trincee della storia. L’importante è che l’obiettivo a cui tendiamo sia lo
stesso, e sia alto e giusto.
Nelle chiese, poche domeniche fa, abbiamo ascoltato i criteri del giudizio
finale, riportati da Matteo. Tutti notano che in quei criteri non ci sono
discorsi di fede né riferimenti alla pratica cristiana: si parla solo di cibo,
bevanda, vestiti e cose simili. E un’altra cosa ci meraviglia: né i malvagi né
i giusti - in quel testo - si sono accorti che nel loro prossimo c’era il
Signore. Per quanto riguarda i malvagi (o semplicemente gli egoisti) si
capisce: si sono occupati solo di se stessi, quando non erano occupati a fare
il male degli altri. Ma i giusti? “Quando mai ti abbiamo visto affamato o
assetato o nudo o straniero o malato o in carcere, e ti abbiamo assistito?”. E
il giudice risponderà: “Tutte le volte che avete fatto queste cose a uno dei
miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Questo significa che non serve
(o – almeno – non basta) sapere: quello che importa è fare. E il velo che in modo più o meno pesante copre
i nostri occhi sarà squarciato solo alla fine. Noi chiamiamo col nome di morte
questo momento e facciamo fatica a dargli un nome diverso. Ma con la sparizione
del velo arriva la luce piena. Sono sicuro che questa luce è arrivata per
Eliano, come arriverà per tutti noi.
Sandro
Lagomarsini
Per Eliano Andreani che ci ha lasciato (di Amilcare Grassi)
Téa cossì
limpido e ciào
àqua de traatón
ch'er nàssa tra i castagni
er dolóe de
ragàzo te portéa
come rasón de
fàe tóo quér di àrtri
de sentìe tùti
compàgni
téa bélo drénto
e fóa
n'òmo qualunque
te diséa
ma pù n là de
túti te miéa.
Eri così limpido e chiaro, acqua di torrente che nasce tra i castagni; il
dolore di ragazzo tu portavi come ragione di fare tuo quello degli altri, di
sentire tutti compagni; eri bello dentro e fuori un uomo qualunque dicevi, ma
più in là di tutti tu guardavi.
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Commento ad alcuni detti ortonovesi. Nella foto la "Lizzatura"
di Romano Parodi
“Tutto
ciò che interessa in un modo o nell’altro l’anima umana, la natura intorno
all’uomo, l’intera civiltà, tutte le esperienze vissute e tutte le attività
svolte, lasciano i loro riflessi nella lingua e nei detti locali”.
Ci sono parole e detti dialettali ortonovesi che mi hanno fatto ‘nt’s’gh’ira (arrabbiare) fin da
ragazzo. Perché la corta (spiazzo pertinente alle case) del palazzo Ceccardi,
dove sono nato e vissuto molti anni, la chiamavano ‘nch’iostro? A vako ‘n t d’nch’iostro.
L’ho capito solo da grande che era il chiostro del palazzo. Ho chiesto a tutti cosa significasse la
frase: a vako al loco a portar la pota a
d’omo, a vak fit fito e a barbedo
barbedo m n’arvegno Me la spiegavano così: vado al podere a portare la
polenta al marito, vado svelta svelta e torno piano piano. Loco (accento chiuso), perché vi canta, l’allocco (?); pota è la
polenta, anzi un pezzo di polenta (si dice anche a Castelnuovo): era anche una
parola che un tempo si metteva dappertutto, ma oggi è più usato l’attributo
maschile: abbiamo defenestrato le donne anche di questo primato; fit fito vuol dire svelto svelto, e fin
qui tutto bene, ma barbedo? Dicevano
piano piano, ma cosa centra barbedo con piano piano? Nessuno me lo sapeva
spiegare, ma un giorno leggendo i
Promessi Sposi, me lo ha fatto capire il Manzoni. Don Abbondio se ne viene
avanti bel bello, bel bello, leggendo il breviario, verso i Bravi. Ho saputo
poi che anche a Castelnuovo dicono ber
belo. Nel dialetto ortonovese la doppia elle diventa D. La famosa D
invertita di molti dialetti, ed ecco barbedo.
Un’altra parola che non riuscivo a
capire era sicutero. Un tempo si
diceva g’iè ‘nda al sicutero, a t mand al sicutero, per dire: gh’è morto, a t’ammazzo. Me l’ha
spiegato niente po’ po’ di meno che Shakespeare. Ho scoperto che deriva da
“sicut erat in principio ora et semper” leggendo “Re Lear”, con la relativa
spiegazione a fondo pagina, quando il contadino ammazza il sicario mandato ad
assassinare il vecchio Gloucester, amico del re.
Shakespeare dà a questo contadino il dialetto crudo del Somersthire. Il
traduttore dà a questo contadino “l’aspro dialetto, ligure apuano”. Dice,
testuale: “Chi stag n po’ a s’ntir, o
sior alù: a me chi mà da far paura i n’è anch nat. S’i er ‘n prepotent ch’ì m
dover sp’dir al sicutera me a sarè
mort da quel dì. Lu chi stag a la larga dal vèc’ s’i n vò’ ca provan s’a dè pù dura la so’ cocombla o ‘l
mè baston. A m’ son spiegà bel ciar?”.
Il sicario avanza minaccioso contro di
lui che si frappone davanti al vecchio, e allora il contadino dice testuale: “Ah! a d’è cusì? E adora…”, si batte e
lo uccide.
Ho appurato poi che alla traduzione e hai commenti ha cooperato Cesare Vico
Lodovici di Fossone, un amico di Ceccardo Roccatagliata, e allora ho capito
tutto. A proposito di sior alù, vi
ricordo la popolare frase ortonovese: Alù
scignor padron,’l rufarafo (il
gatto) i scapa giu p’r la sc’ndidora
(la scala), con l’al’greza (il
fuoco) al culo, chi port prest l’abondanza (l’acqua) se nò al bruscia sparapeti (asino) e m’s’k’iolanza (fieno e paglia). Il
gatto si era addormentato al camino, la coda gli era andata sulle fiamme e
scappava verso la stalla.
Cocombola (anguria) si dice anche
adesso: g’ià na gran cocombola: una
persona molto intelligente, oppure uno che ha una grossa testa. Un
motrignon è una persona sempre ‘nmusà:
che parla poco, che non sorride, che vive in un mondo tutto suo, ma non
riuscivo a capire da dove deriva questa parola, finché un giorno ho sentito
questa frase da mia cognata. “I dindon’
la testa com i motri”. Allora ho capito. Chi è che se lo disturbi o fugge o
muove la testa avanti e indietro, da una parte e dall’altra, pronto a colpire?
Che non sorride, non piange, non cambia mai espressione, neanche se lo schiacci
e lo uccidi? I bisci (i serpenti): sono loro i motri.
Come già detto più volte, alla fine dell’800 e nei primi decenni del 900,
Ortonovo era un paese di cavatori: i
kauadori d’Ort’no, i k’iurin d
Nicola (uccelletto di macchia), i
lauabuzi d Carara (ubriaconi), i
molinari d Casan, i panicari d
castanoo (nel bacino di Torano c’era anche la cava Ortonovo), e quindi
c’erano molti detti inerenti questo lavoro, ne cito alcuni: la kaua e la vita a d’èn tut na salita;
g’iè bosciardo com una luc’ka (le
lucciche sono cristalli che luccicano nel masso e devono essere valutate
attentamente perché, se è esternamente
poco vistosa, può imbrogliare il cavatore e può causare la rottura del
blocco, un tempo era detta anche ‘spia’. “Un pretore condannò un masso di
marmo, perché aveva schiacciato la mano a un cavatore. Il masso si giustificò
dicendo che la luc’ka era visibile
per un bravo cavatore e se lui non l’aveva vista, la colpa era solo sua”. Gh’ià ‘l contr ‘n testa (è uno con cui
è inutile discutere o trattare). Anche questo era un detto dei cavatori e
significa che il marmo da quella parte è impossibile lavorarlo (un tempo). Gh’iè fis, com’n potò (uno che è sempre
tra i piedi, come un innamorato).
Il potò
e il piro erano due pali infissi nel terreno per due lavori speciali. Il piro (un grosso palo impiantato bene)
serviva ai lizzatori per tenere il masso nella discesa con dei grossi canapi.
Il potò era un palo fisso per il filo taglia marmo. Gh’iè ‘n magna strefoli (mangia solo gli scarti o quel che resta).
Gli strefoli erano i rimasugli della canapa che ruotava attorno ai piri dei
lizzatori. Gh’iè ‘n laor fato a la masesa (fatto male). Nessuno voleva massesi
nelle cave. I massesi erano abili a coltivare le cipolle, ma anche queste solo
perché raccoglievano le grosse cacche dei buoi, nella Carriona. Tutte le
mattine si contendevano le grosse cacche con i loro carretti (li ricordo
anch’io). Al par la Maria Ceci
(pesante e sgraziata come la grossa marmifera che aveva questo nome); oppure al par na grota tonanga (un grosso masso che rovina a terra come un
tuono). ‘L (il) cauadoro i laora da
stèda a stèda. Per una giornata di
lavoro, bisognava camminare tre o quattro ore per andare e altrettanto per
tornare: per la famiglia e il riposo restava solo un pezzo della notte (e la
domenica).
Questa è stata la bella vita di quel vecchietto che tutte le mattine mi portava
una potina di polenta fritta all’asilo (gli dicevano che mangiavo poco) e che
io chiamavo il nonno da la podenta: saliva la scala, bussava,
metteva dentro la sua piccola figura e suor Giuliana mi chiamava: “Romano, è
venuto il tuo nonno Cesare!” (l’asilo era nel palazzo Ceccardi). Non stupitevi:
ho avuto la fortuna di conoscere 4 nonni e 5 bisnonni. “Nell’altro mondo”, in
paese, fra nonni, nonne, zie e zii, avevo una schiera di Angeli Custodi: oggi
non ne ho più nemmeno uno neanche da custodire: c’est la vie (così è la vita).
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La suocera infermiera
di Marisa Lisia
Vorrei proporvi una testimonianza a dir poco inconsueta: vi parlerò di una
signora di oltre novant’anni che, lucidissima, racconta. Ha un figlio solo che
si sposa, come Dio comanda, con una brava ragazza. Finché gli sposini non hanno
una casa loro, convivono con la suocera. Il rapporto fra suocera e nuora? Solo
qualche piccolo screzio, ma si vogliono bene, questo è l’importante. Poi gli
sposi trovano una casa; la nuora ha un buon impiego; vengono al mondo i
bambini; si prospetta un avvenire radioso. Passano così gli anni e, purtroppo,
la vita ha in serbo ben altro per Antonella (questo è il nome della nuora):
accusa un po’ di stanchezza, dimentica le cose più banali…
I familiari non vi pongono tanta
attenzione: passerà, pensano un po’ tutti. Ma la salute di Antonella va
peggiorando lentamente: la sua mente
vacilla, non riconosce più le strade e anche la sua stessa casa ed ecco
la diagnosi: è l’alzheimer. Inizia così il suo lungo calvario: tanti anni di
letto fino alla totale incoscienza e rigidità.
Così viene a mancare una mamma ancora in buona età, custodita amorevolmente dal
marito e dalla suocera che ha pianto per lei tutte le sue lacrime più sincere.
Io non ho mai capito ancora perché il nome suocera suona così stonato. Bah! Me
lo permettete? Viva, viva, viva le suocere!
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La strage degli albatros
di Marta
La giornata si presentava
con uno splendido sole e sarebbe stata ancora di più bella se non ci fosse
stato quel vento dispettoso che si divertiva a scompigliare i capelli, a portare
via i berretti, a sollevare carte e fogli di giornale da terra e farli volare
come fossero farfalle colorate, ma anche i sacchetti di plastica, quelli della
spesa: li riempiva d’aria e li sollevava come fossero dei palloncini che si
alzavano alti nel cielo.
Durante quella passeggiata, al nostro documentarista venne in mente di
conoscere dove sarebbe andata a finire tutta quella plastica. Così incominciò
l’avventura: fece delle inchieste, si informò sui materiali e sulle fibre usate
per fare questi oggetti di plastica… Questa plastica, a seconda del colore e
della robustezza, viene addizionata con sostanze molto nocive per l’uomo; in
tutte c’è un additivo che è proprio nella formula della plastica, per cui,
anche se vengono testati, non si sa se i nostri bambini sono veramente fuori
pericolo. Bisogna prestare quindi molta attenzione nell’acquisto di ciucci,
piattini, tettarelle, cucchiaini, bicchierini…, tutti oggetti che il bimbo
porta alla bocca ed è come se leccassero un lecca-lecca, a volte velenoso.
Questo documentarista ha provato personalmente quanto diceva: si è sottoposto a
test e analisi di laboratorio che sono risultati normali; poi ha cominciato a
toccare, mettersi in bocca, leccare tutte le cose, come avrebbe fatto un bimbo.
Dopo un bel po’ di tempo ha ripetuto le analisi e l’esito è stato alquanto
preoccupante. Inoltre non si è fermato, ma ha continuato la ricerca nei mari e
negli oceani e ha così scoperto che in tutti e tre gli oceani le correnti
marine spingono in una determinata zona tutti i residui di plastica che,
formando delle isole grandi quasi come il Brasile e con la loro permanenza
nell’acqua salata, si decompongono e si sminuzzano come coriandoli ed è così
che gli albatros, volando lontani dalla terra ferma, per procacciarsi il cibo
sono tratti in inganno da questi ammassi di roba, se ne riempiono il becco e lo
rigurgitano nel becco dei loro piccoli credendo di nutrirli, e invece muoiono
di fame o con l’intestino intasato: che pena vedere nidiate e nidiate di questi
uccellini tutti morti! E chissà anche quanti pesci fanno questa fine. Le
testuggini marine si nutrono di meduse. Un sacchetto di plastica in acqua si
gonfia assomigliando a una medusa e queste se lo mangiano sicure: poi cosa
succede? Che fine faranno quelle testuggini?
Qualcuno ha domandato al nostro documentarista: “Ma io, come singolo, cosa
posso fare?”. Lui ha spiegato che ognuno di noi può fare tanto. Basta con la
plastica! Ricominciamo ad usare l’acqua delle bottiglie di vetro; scegliamo le
confezioni di vetro, carta, barattoli… Anche nell’abbigliamento usare lana, seta,
lino, cotone e altre fibre naturali, poiché quelle sintetiche cambiano il
metabolismo della nostra vita. Dopo l’avvento della plastica sono aumentati i
diabetici, gli autistici, i celiaci e tumori di ogni tipo. Meditiamo e
cerchiamo tutti di darci da fare per raggiungere dei risultati soddisfacenti.
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Il 2° pellegrinaggio dell’anno con mons. Palletti
di Paola G. Vitale
Questa volta, per chi non la
conosce, abbiamo percorso la lunga via della Ghiara e via Monfalcone, fitta di
bei palazzi, nuovi e meno nuovi, alcuni di almeno sei piani, nella periferia di
La Spezia. Dopo aver sostato nella bella chiesa di San Bernardo, in stile direi
neo-gotico, recitando il santo rosario meditato, abbiamo lasciato il quartiere
della Chiappa e raggiunto il quartiere di Rebocco, come indicava l’insegna del
pullman di linea che abbiamo incrociato.
Eravamo numerosi, e una signora che si è affiancata mi ha chiesto da dove
venivamo e il motivo di quella folla preceduta dai bei labari delle
Confraternite. Così le ho spiegato l’iniziativa del pellegrinaggio del primo
sabato del mese e quella del nostro pullman da Ortonovo e il percorso per
giungere alla meta.
All’arrivo nella chiesa della Beata Vergine del Carmine, originale nella bella
struttura in legno a grandi archi e soffittato, la signora (Ilva) era accanto a
me, ma io mi sono raccolta in preghiera e, intravisto un sacerdote disponibile,
mi sono preparata per la Confessione devozionale a Maria Santissima. Durante
l’omelia e la celebrazione intanto pensavo che era bello essere assieme, in
devota preghiera, così ho invocato la Vergine del Carmelo a sollecitare i tanti
non presenti a non privarsi ancora di questi preziosi momenti di vera gioia,
che rafforzano l’anima nei frangenti non facili della vita e invitano il nostro
Signore a donare alle famiglie sante vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa.
Il bel rinfresco nell’ampio salone
dell’oratorio ci ha riuniti ancora, prima di scendere oltre i ponti della
ferrovia dove ci aspettava il pullman per il rientro a casa. Affiancando la
lunga fortificazione della Marina Militare e uscendo dalla città, già Walter
pensava al prossimo incontro.
Grazie a tutta la compagnia.
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