N° 3 - Marzo 2015
Storie dei lettori
  Un caro ricordo di un “santo”
di Romeo Rossetti già parroco (oltre 50 anni fa) di San Martino




 Carissimo Doretto, terminata la tua eletta esistenza, affiorano alla mia mente e specialmente al mio cuore tanti ricordi. Uno dei tanti che mi legano alla tua vita è avvenuto in uno dei tanti viaggi motociclistici: quello relativo al mio, non troppo gradito, trasferimento ecclesiastico presso la parrocchia di Valletti, già parrocchia di  S. Anna.
Siamo arrivati in detta parrocchia, trovandola chiusa, senza alcuna ricezione da parte dei responsabili che noi con costanza e impegno siamo andati a cercare presso le loro residenze. Siamo successivamente entrati nella canonica che risultava completamente abbandonata e trascurata, data, forse, la “particolare natura” del parroco precedente. Ci siamo subito impegnati a sistemare e riordinare sia la sacrestia che la chiesa stessa (dato che il giorno seguente si sarebbe verificata la annuale festa dedicata a S. Anna) eretta santuario da parte del Vescovo di Chiavari.
Era già pomeriggio tardi e stava venendo la sera e quindi la necessità di una pur semplice cena; tuttavia in canonica era praticamente impossibile trovare qualsiasi genere di consumo ed eravamo pertanto senza alimenti per mangiare. Fu allora, carissimo Doretto, che si sprigionò dalla tua mente un’idea che si rivelò risolutiva; decidesti di andare a procurati il cibo presso il gruppo di case vicino alla chiesa. Così fu, e tornasti con una splendida e generosa gallina. Tu allora con quella gallina preparasti una abbondante e deliziosa cena. Durante la tua permanenza (di circa tre meravigliosi giorni) nella ormai mia parrocchia mi aiutasti dalla mattina alla sera in tanti lavori di ogni genere; tra l’altro mi aiutasti anche a costruire l’impianto elettrico della canonica assolutamente inadeguato, disfatto e inservibile.
Caro Doretto, questi sono soltanto dei semplici e modesti ricordi ma che rivelano in te un’anima desiderosa di carità verso il prossimo. Ti ringrazio di tutto ciò e spero, senza pretendere la tua santità, di raggiungerti quando vorrà il Signore, nella felicità eterna.

 

             Varano Dé Melegari, 04/02/2015



  Dal “diario” di Doretto (bozze di articoli non terminati)
di Doretto



Sabato, 11 maggio 2013 -  Questa notte, all’ospedale di Sarzana dove era ricoverato da qualche settimana, è morto il mio amico Cudì. Me lo sentivo nel sangue! Ho pregato molto per la sua anima, già da un po’ di tempo. Mi auguro di ritrovarlo in Paradiso, se un giorno Dio mi ci vorrà, e così potremo ricordare i tanti momenti di gioia vissuti insieme quaggiù.
Cudì era un buono. Era un giusto.  E i giusti Dio li predilige. Finché sarò qui, ancora in terra, pregherò per lui. Gesù, ascolta la mia preghiera!

Lunedì 18 novembre 2013 -  Dio è Amore, ma Dio è anche Luce, e Gesù ”come Luce è venuto nel mondo” (Gv 12,46). Ma quanta umanità è immersa nelle tenebre, Gesù! Tu sei venuto nel mondo per riscattarla, hai dato tutto te stesso, soffrendo sulla croce fino a sentire l’abbandono del Padre, quando hai gridato: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. In quel momento Tu ci hai riscattato, ci hai tolto dalle tenebre, ci hai spalancato le porte del Paradiso. E infatti il terzo giorno sei risorto dai morti e ci hai fatto risorgere anche noi con Te! Tutti!
Fin qui tutto bene, tutto chiaro, tutto bello. Ma per l’umanità che ancora oggi vive nelle tenebre, là dove la tua Luce non è o non è ancora arrivata: cosa possiamo fare noi? Quando sei salito al cielo hai lasciato agli Apostoli il compito di divulgare il Vangelo a tutti i popoli; e su di loro e con loro e tua Madre, hai fondato la Chiesa… .

                                                                                             


  Un ricordo di Eliano
di Enzo Mazzini e Sandro Lagomarsini



 

Io sono molto legato a Paola Gari, sia per i comuni trascorsi professionali, sia per l'attuale impegno profuso in difesa dei diritti dei cittadini in relazione ad un bene fondamentale qual’è il diritto alla salute e quindi all’accesso alle prestazioni sanitarie. Per questo sono stato molto colpito dalla drammatica notizia della scomparsa di Eliano, suo adorato consorte.Paola mi aveva sempre tenuto informato del decorso della sua malattia, ma non per questo sono stato meno colpito dalla notizia del suo distacco da tutti noi.
Eliano è stato un cittadino molto impegnato nella socialità e molto legato alle sue origini e proprio per questo ha voluto trascorrere gli ultimi mesi di vita nella sua amata casa di Ortonovo, dove era nato e dove aveva passato gli anni della sua infanzia e della prima giovinezza. Notevole e commossa è stata la partecipazione di popolo alle sue esequie, sia a Sarzana che gli ha tributato un caloroso saluto,sia nella sua Ortonovo dove ha voluto essere sepolto, vicino ai suoi cari.
Per meglio illustrare la sua figura e la sua statura umana, credo che siano abbastanza eloquenti le testimonianze fornite da don Sandro Lagomarsini, parroco di Cassego e di Amilcare Grassi, suo compagno di impegno politico, in occasione del commiato da Sarzana e riportate di seguito integralmente.

                                                           Enzo

 

Per Eliano - 9 dicembre 2014

 

Quarantaquattro anni fa (era il 7 marzo) sono stato tra i testimoni del matrimonio di Eliano e Paola, celebrato nel doposcuola di Cassego. Questa mattina ho mostrato le foto di quel giorno ai miei attuali studenti di Italiano, i profughi fuggiti dalla Libia e originari del Bangla Desh, che ora si trovano a Varese Ligure. Ho potuto farlo perché quattro giovani sposati presenti dei quindici di questa mattina, i quali mi hanno detto: “Anche i nostri matrimoni si sono svolti nelle stessa semplicità”. Dunque, dopo oltre quarant’anni, quella celebrazione può essere ancora un modello. Più difficile, per i miei allievi di oggi, capire il rispetto che c’era in quella celebrazione, sia per la coscienza credente sia per la coscienza non credente (o, forse, diversamente credente). Ma anche questo modello di rispetto dovrebbe essere oggi una cosa comune.  Nelle foto si vede anche un bambino del doposcuola che legge una lettera di auguri. Tra le altre cose, quella lettera augurava a Paola ed Eliano di costruire una casa, una famiglia, senza fossati e senza ponti levatoi, ma aperta e accogliente. Era la traduzione dell’augurio che si trova alla conclusione della Messa per gli sposi: “Aprite la vostra casa ai poveri e ai sofferenti, perché anch’essi vi accolgano un giorno nelle tende eterne”. Per quanto ho potuto nel tempo vedere, Eliano e Paola non hanno dimenticato questo augurio e, anche senza fare consuntivi, è giusto riconoscerlo oggi, quando un percorso di vita si è concluso.  Anche quando si è in sintonia e si è legati da amicizia, la vita spesso ci tiene fisicamente lontani. Bisogna restare fedeli al posto che ci siamo scelti o che ci è stato assegnato nelle trincee della storia. L’importante è che l’obiettivo a cui tendiamo sia lo stesso, e sia alto e giusto.
Nelle chiese, poche domeniche fa, abbiamo ascoltato i criteri del giudizio finale, riportati da Matteo. Tutti notano che in quei criteri non ci sono discorsi di fede né riferimenti alla pratica cristiana: si parla solo di cibo, bevanda, vestiti e cose simili. E un’altra cosa ci meraviglia: né i malvagi né i giusti - in quel testo - si sono accorti che nel loro prossimo c’era il Signore. Per quanto riguarda i malvagi (o semplicemente gli egoisti) si capisce: si sono occupati solo di se stessi, quando non erano occupati a fare il male degli altri. Ma i giusti? “Quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o nudo o straniero o malato o in carcere, e ti abbiamo assistito?”. E il giudice risponderà: “Tutte le volte che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Questo significa che non serve (o – almeno – non basta) sapere: quello che importa è fare.  E il velo che in modo più o meno pesante copre i nostri occhi sarà squarciato solo alla fine. Noi chiamiamo col nome di morte questo momento e facciamo fatica a dargli un nome diverso. Ma con la sparizione del velo arriva la luce piena. Sono sicuro che questa luce è arrivata per Eliano, come arriverà per tutti noi.

                                                                                                          Sandro Lagomarsini

 

Per Eliano Andreani che ci ha lasciato (di Amilcare Grassi)

Téa cossì limpido e ciào

àqua de traatón ch'er nàssa tra i castagni

er dolóe de ragàzo te portéa

come rasón de fàe tóo quér di àrtri

de sentìe tùti compàgni

téa bélo drénto e fóa

n'òmo qualunque te diséa

ma pù n là de túti te miéa.

 

Eri così limpido e chiaro, acqua di torrente che nasce tra i castagni; il dolore di ragazzo tu portavi come ragione di fare tuo quello degli altri, di sentire tutti compagni; eri bello dentro e fuori un uomo qualunque dicevi, ma più in là di tutti tu guardavi.




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  Commento ad alcuni detti ortonovesi. Nella foto la "Lizzatura"
di Romano Parodi


“Tutto ciò che interessa in un modo o nell’altro l’anima umana, la natura intorno all’uomo, l’intera civiltà, tutte le esperienze vissute e tutte le attività svolte, lasciano i loro riflessi nella lingua e nei detti locali”.
Ci sono parole e detti dialettali ortonovesi che mi hanno fatto ‘nt’s’gh’ira (arrabbiare) fin da ragazzo. Perché la corta (spiazzo pertinente alle case) del palazzo Ceccardi, dove sono nato e vissuto molti anni, la chiamavano ‘nch’iostro?  A vako ‘n t d’nch’iostro.
L’ho capito solo da grande che era il chiostro del palazzo.  Ho chiesto a tutti cosa significasse la frase: a vako al loco a portar la pota a d’omo, a vak fit fito e a barbedo barbedo m n’arvegno Me la spiegavano così: vado al podere a portare la polenta al marito, vado svelta svelta e torno piano piano. Loco (accento chiuso), perché vi canta, l’allocco (?); pota è la polenta, anzi un pezzo di polenta (si dice anche a Castelnuovo): era anche una parola che un tempo si metteva dappertutto, ma oggi è più usato l’attributo maschile: abbiamo defenestrato le donne anche di questo primato; fit fito vuol dire svelto svelto, e fin qui tutto bene, ma barbedo? Dicevano piano piano, ma cosa centra barbedo con piano piano? Nessuno me lo sapeva spiegare, ma un giorno  leggendo i Promessi Sposi, me lo ha fatto capire il Manzoni. Don Abbondio se ne viene avanti bel bello, bel bello, leggendo il breviario, verso i Bravi. Ho saputo poi che anche a Castelnuovo dicono ber belo. Nel dialetto ortonovese la doppia elle diventa D. La famosa D invertita di molti dialetti, ed ecco barbedo.
 Un’altra parola che non riuscivo a capire era sicutero. Un tempo si diceva g’iè ‘nda al sicutero, a t mand al sicutero, per dire: gh’è morto, a t’ammazzo. Me l’ha spiegato niente po’ po’ di meno che Shakespeare. Ho scoperto che deriva da “sicut erat in principio ora et semper” leggendo “Re Lear”, con la relativa spiegazione a fondo pagina, quando il contadino ammazza il sicario mandato ad assassinare il vecchio Gloucester, amico del re.
Shakespeare dà a questo contadino il dialetto crudo del Somersthire. Il traduttore dà a questo contadino “l’aspro dialetto, ligure apuano”. Dice, testuale: “Chi stag n po’ a s’ntir, o sior alù: a me chi mà da far paura i n’è anch nat. S’i er ‘n prepotent ch’ì m dover sp’dir al sicutera me a sarè mort da quel dì. Lu chi stag a la larga dal vèc’ s’i n vò’ ca provan s’a dè pù dura la so’ cocombla o ‘l mè baston. A m’ son spiegà bel ciar?”.
 Il sicario avanza minaccioso contro di lui che si frappone davanti al vecchio, e allora il contadino dice testuale: “Ah! a d’è cusì? E adora…”, si batte e lo uccide.
Ho appurato poi che alla traduzione e hai commenti ha cooperato Cesare Vico Lodovici di Fossone, un amico di Ceccardo Roccatagliata, e allora ho capito tutto. A proposito di sior alù, vi ricordo la popolare frase ortonovese: Alù scignor padron,’l rufarafo (il gatto) i scapa giu p’r la sc’ndidora (la scala), con l’al’greza (il fuoco) al culo, chi port prest l’abondanza (l’acqua) se nò al bruscia sparapeti (asino) e m’s’k’iolanza (fieno e paglia). Il gatto si era addormentato al camino, la coda gli era andata sulle fiamme e scappava verso la stalla.
Cocombola (anguria) si dice anche adesso: g’ià na gran cocombola: una persona molto intelligente, oppure uno che ha una grossa testa.  Un motrignon è una persona sempre ‘nmusà: che parla poco, che non sorride, che vive in un mondo tutto suo, ma non riuscivo a capire da dove deriva questa parola, finché un giorno ho sentito questa frase da mia cognata. “I dindon’ la testa com i motri”. Allora ho capito. Chi è che se lo disturbi o fugge o muove la testa avanti e indietro, da una parte e dall’altra, pronto a colpire? Che non sorride, non piange, non cambia mai espressione, neanche se lo schiacci e lo uccidi?  I bisci (i serpenti): sono loro i motri.
Come già detto più volte, alla fine dell’800 e nei primi decenni del 900, Ortonovo era un paese di cavatori: i kauadori d’Ort’no, i k’iurin d Nicola (uccelletto di macchia), i lauabuzi d Carara (ubriaconi), i molinari d Casan, i panicari d castanoo (nel bacino di Torano c’era anche la cava Ortonovo), e quindi c’erano molti detti inerenti questo lavoro, ne cito alcuni: la kaua e la vita a d’èn tut na salita; g’iè bosciardo com una luc’ka (le lucciche sono cristalli che luccicano nel masso e devono essere valutate attentamente perché, se è esternamente  poco vistosa, può imbrogliare il cavatore e può causare la rottura del blocco, un tempo era detta anche ‘spia’. “Un pretore condannò un masso di marmo, perché aveva schiacciato la mano a un cavatore. Il masso si giustificò dicendo che la luc’ka era visibile per un bravo cavatore e se lui non l’aveva vista, la colpa era solo sua”. Gh’ià ‘l contr ‘n testa (è uno con cui è inutile discutere o trattare). Anche questo era un detto dei cavatori e significa che il marmo da quella parte è impossibile lavorarlo (un tempo). Gh’iè fis, com’n potò (uno che è sempre tra i piedi, come un innamorato).
 Il potò e il piro erano due pali infissi nel terreno per due lavori speciali. Il piro (un grosso palo impiantato bene) serviva ai lizzatori per tenere il masso nella discesa con dei grossi canapi. Il potò era un palo fisso per il filo taglia marmo. Gh’iè ‘n magna strefoli (mangia solo gli scarti o quel che resta). Gli strefoli erano i rimasugli della canapa che ruotava attorno ai piri dei lizzatori.  Gh’iè ‘n laor fato a la masesa (fatto male). Nessuno voleva massesi nelle cave. I massesi erano abili a coltivare le cipolle, ma anche queste solo perché raccoglievano le grosse cacche dei buoi, nella Carriona. Tutte le mattine si contendevano le grosse cacche con i loro carretti (li ricordo anch’io). Al par la Maria Ceci (pesante e sgraziata come la grossa marmifera che aveva questo nome); oppure al par na grota tonanga (un grosso masso che rovina a terra come un tuono).  L (il) cauadoro i laora da stèda a stèda.  Per una giornata di lavoro, bisognava camminare tre o quattro ore per andare e altrettanto per tornare: per la famiglia e il riposo restava solo un pezzo della notte (e la domenica).
Questa è stata la bella vita di quel vecchietto che tutte le mattine mi portava una potina di polenta fritta all’asilo (gli dicevano che mangiavo poco) e che io chiamavo il nonno da la podenta: saliva la scala, bussava, metteva dentro la sua piccola figura e suor Giuliana mi chiamava: “Romano, è venuto il tuo nonno Cesare!” (l’asilo era nel palazzo Ceccardi). Non stupitevi: ho avuto la fortuna di conoscere 4 nonni e 5 bisnonni. “Nell’altro mondo”, in paese, fra nonni, nonne, zie e zii, avevo una schiera di Angeli Custodi: oggi non ne ho più nemmeno uno neanche da custodire: c’est la vie (così è la vita).


  La suocera infermiera
di Marisa Lisia



Vorrei proporvi una testimonianza a dir poco inconsueta: vi parlerò di una signora di oltre novant’anni che, lucidissima, racconta. Ha un figlio solo che si sposa, come Dio comanda, con una brava ragazza. Finché gli sposini non hanno una casa loro, convivono con la suocera. Il rapporto fra suocera e nuora? Solo qualche piccolo screzio, ma si vogliono bene, questo è l’importante. Poi gli sposi trovano una casa; la nuora ha un buon impiego; vengono al mondo i bambini; si prospetta un avvenire radioso. Passano così gli anni e, purtroppo, la vita ha in serbo ben altro per Antonella (questo è il nome della nuora): accusa un po’ di stanchezza, dimentica le cose più banali…
 I familiari non vi pongono tanta attenzione: passerà, pensano un po’ tutti. Ma la salute di Antonella va peggiorando lentamente: la sua mente  vacilla, non riconosce più le strade e anche la sua stessa casa ed ecco la diagnosi: è l’alzheimer. Inizia così il suo lungo calvario: tanti anni di letto fino alla totale incoscienza e rigidità.
Così viene a mancare una mamma ancora in buona età, custodita amorevolmente dal marito e dalla suocera che ha pianto per lei tutte le sue lacrime più sincere.
Io non ho mai capito ancora perché il nome suocera suona così stonato. Bah! Me lo permettete? Viva, viva, viva le suocere!

                                                                             



  La strage degli albatros
di Marta



La giornata si presentava con uno splendido sole e sarebbe stata ancora di più bella se non ci fosse stato quel vento dispettoso che si divertiva a scompigliare i capelli, a portare via i berretti, a sollevare carte e fogli di giornale da terra e farli volare come fossero farfalle colorate, ma anche i sacchetti di plastica, quelli della spesa: li riempiva d’aria e li sollevava come fossero dei palloncini che si alzavano alti nel cielo.
Durante quella passeggiata, al nostro documentarista venne in mente di conoscere dove sarebbe andata a finire tutta quella plastica. Così incominciò l’avventura: fece delle inchieste, si informò sui materiali e sulle fibre usate per fare questi oggetti di plastica… Questa plastica, a seconda del colore e della robustezza, viene addizionata con sostanze molto nocive per l’uomo; in tutte c’è un additivo che è proprio nella formula della plastica, per cui, anche se vengono testati, non si sa se i nostri bambini sono veramente fuori pericolo. Bisogna prestare quindi molta attenzione nell’acquisto di ciucci, piattini, tettarelle, cucchiaini, bicchierini…, tutti oggetti che il bimbo porta alla bocca ed è come se leccassero un lecca-lecca, a volte velenoso. Questo documentarista ha provato personalmente quanto diceva: si è sottoposto a test e analisi di laboratorio che sono risultati normali; poi ha cominciato a toccare, mettersi in bocca, leccare tutte le cose, come avrebbe fatto un bimbo. Dopo un bel po’ di tempo ha ripetuto le analisi e l’esito è stato alquanto preoccupante. Inoltre non si è fermato, ma ha continuato la ricerca nei mari e negli oceani e ha così scoperto che in tutti e tre gli oceani le correnti marine spingono in una determinata zona tutti i residui di plastica che, formando delle isole grandi quasi come il Brasile e con la loro permanenza nell’acqua salata, si decompongono e si sminuzzano come coriandoli ed è così che gli albatros, volando lontani dalla terra ferma, per procacciarsi il cibo sono tratti in inganno da questi ammassi di roba, se ne riempiono il becco e lo rigurgitano nel becco dei loro piccoli credendo di nutrirli, e invece muoiono di fame o con l’intestino intasato: che pena vedere nidiate e nidiate di questi uccellini tutti morti! E chissà anche quanti pesci fanno questa fine. Le testuggini marine si nutrono di meduse. Un sacchetto di plastica in acqua si gonfia assomigliando a una medusa e queste se lo mangiano sicure: poi cosa succede? Che fine faranno quelle testuggini?
Qualcuno ha domandato al nostro documentarista: “Ma io, come singolo, cosa posso fare?”. Lui ha spiegato che ognuno di noi può fare tanto. Basta con la plastica! Ricominciamo ad usare l’acqua delle bottiglie di vetro; scegliamo le confezioni di vetro, carta, barattoli… Anche nell’abbigliamento usare lana, seta, lino, cotone e altre fibre naturali, poiché quelle sintetiche cambiano il metabolismo della nostra vita. Dopo l’avvento della plastica sono aumentati i diabetici, gli autistici, i celiaci e tumori di ogni tipo. Meditiamo e cerchiamo tutti di darci da fare per raggiungere dei risultati soddisfacenti.

                                                                                 



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  Il 2° pellegrinaggio dell’anno con mons. Palletti
di Paola G. Vitale




Questa volta, per chi non la conosce, abbiamo percorso la lunga via della Ghiara e via Monfalcone, fitta di bei palazzi, nuovi e meno nuovi, alcuni di almeno sei piani, nella periferia di La Spezia. Dopo aver sostato nella bella chiesa di San Bernardo, in stile direi neo-gotico, recitando il santo rosario meditato, abbiamo lasciato il quartiere della Chiappa e raggiunto il quartiere di Rebocco, come indicava l’insegna del pullman di linea che abbiamo incrociato.
Eravamo numerosi, e una signora che si è affiancata mi ha chiesto da dove venivamo e il motivo di quella folla preceduta dai bei labari delle Confraternite. Così le ho spiegato l’iniziativa del pellegrinaggio del primo sabato del mese e quella del nostro pullman da Ortonovo e il percorso per giungere alla meta.
All’arrivo nella chiesa della Beata Vergine del Carmine, originale nella bella struttura in legno a grandi archi e soffittato, la signora (Ilva) era accanto a me, ma io mi sono raccolta in preghiera e, intravisto un sacerdote disponibile, mi sono preparata per la Confessione devozionale a Maria Santissima. Durante l’omelia e la celebrazione intanto pensavo che era bello essere assieme, in devota preghiera, così ho invocato la Vergine del Carmelo a sollecitare i tanti non presenti a non privarsi ancora di questi preziosi momenti di vera gioia, che rafforzano l’anima nei frangenti non facili della vita e invitano il nostro Signore a donare alle famiglie sante vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa.
Il bel  rinfresco nell’ampio salone dell’oratorio ci ha riuniti ancora, prima di scendere oltre i ponti della ferrovia dove ci aspettava il pullman per il rientro a casa. Affiancando la lunga fortificazione della Marina Militare e uscendo dalla città, già Walter pensava al prossimo incontro.
Grazie a tutta la compagnia.



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