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A(d)Dio anche al “Merciaino” (Attilio Ezio Franciosi)
di Romano Parodi
S’aprì una finestrella d’oro in cima al monte e la luna s’affacciò sulla valle
circostante. La notte era tarda e il mondo s’era già addormentato. Il Merciaino
camminava ancora. “Ero stato a una fiera in un paese di Villafranca e dovevo
rientrare in quel di Fivizzano, dove potevo pernottare in un vecchio casolare
affittatomi per qualche bottone da un contadino”. Credeva di anticipare il
percorso tagliando attraverso i campi illuminati dalla luna, ma un bosco
frondoso gli portò il buio e: “Mi sono perso. Era tardi, ed ero così stanco per
rientrare sul sentiero conosciuto, che dormii
sotto le stelle”. “E non hai
avuto paura?”. “Macché, mi rinfrancavano,
in lontananza, le luci del paese”.
Avevo lasciato la bicicletta a Rigoletto e a piedi salivo la “montata” con lui
e il suo grosso zaino, preso a due mani.
Ci fermammo al “posadoro” e mi aprì il suo cuore, ed io, ragazzo di 15 o
16 anni, mi sentii gratificato di quelle confidenze che mi aiutarono a diventare
uomo e le ho ricordate per tutta la vita. “Cosa bisogna fare per vivere! Che
vita!”, brontolò mentre toglieva di tasca un pezzo di pane datogli da una buona
contadina del pian di Luni. Ne vuoi?”, mi chiese.
Era il quarto o quinto figlio di una famiglia numerosa e povera. Tre suoi
fratelli avevano già preso la via del convento, ma lui desiderava una buona
moglie. E la trovò veramente una brava moglie, la Dina. Sempre mi ha stupito
questo suo attaccamento alla Dina. Mai ho visto un uomo così affezionato alla
sua donna: era la sua ombra. Ricordo ancora l’amore con cui l’assisteva nella
clinica del Forte, dove, purtroppo, ci ritrovammo 50 anni dopo. Padre Placido
gli aveva trovato un lavoro stabile in quel di Viareggio e lì si era trasferito,
e vi abitava con un figlio, anche quando rimase vedovo.
Subito dopo la guerra faceva il merciaio ambulante; era conosciutissimo non
solo nel pian di Luni, ma anche nei paesi dell’alta Lunigiana. Stava fuori di
casa settimane, mesi, dormendo nei fienili o nelle stalle, assieme alle bestie.
Aveva una voce così squillante che penetrava i timpani. Il suo repertorio
canoro non l’ho mai dimenticato: “Bei fazzoletti e belle calze, signore! Maglie
di cotone e di lana! Rasoi, forbici, pettini! Aghi da mano e da macchine!
Bottoni d’ogni specie! Saponi profumati!. Specchietti, madonnine! Tutto a buon
prezzo! Tutto a buon prezzo!. Gente accorrete è arrivato il Merciaino! Venite a
vedere che roba! Scatole di tabacco, ciprie e tutto quello che volete! Vuoi
questa bella pipa di radica, nonno, trenta centesimi!”. Così gridava; si
raccomandava; pregava. Ma i guadagni erano magri e la fatica tanta. Andava a
piedi in ogni casolare, in ogni paesino della Lunigiana, anche in quelli più
sperduti, sempre con la sua cassetta e il suo sacco in spalla. “Quanto freddo
ho patito, quanto sudore ho gettato fuori. Mi lavavo nei torrenti e dormivo nei
fienili e sognavo sempre il ritorno. Ritrovare gli amici come tuo padre e il “Lungo”:
con loro andavamo alla Spezia, alla Democrazia Cristiana, a cercare lavoro,
dalla Gotelli, da Morandi e da tutti i pezzi grossi del partito”.
L’ultima volta l’ho incontrato al cimitero di “Saroko”, dove periodicamente, i
figli lo portavano a trovare la sua adorata Dina. Era sempre sorridente ed
esuberante, ma il suo intimo vero era racchiuso tutto in questa frase: “Quanto
mi manca, senza di lei sono un uomo finito!”, e mentre lo diceva il suo era lo
sguardo umile e mite di chi si trova imprigionato nell’inferno della vecchiaia
e della solitudine. Gli dicevo: “Hai i tuoi figli sistemati bene, dovresti
essere contento, la vita ti ha dato anche tante soddisfazioni”. Cercavo di
confortarlo, ma invano. Oggi ha raggiunto la sua adorata Dina per non lasciarla
mai più. Sono sicuro che sarà felice.
Arrivederci a Dio, caro Merciaino.
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Appunti di un Pellegrino
di Gualtiero Sollazzi
Uomo
di mondo
tutti gli
accessi. Lo sbandierare uno “status symbol” per essere accreditati presso chi
conta o si teme. Totò, con quel famoso “Sono un uomo di mondo, ho fatto tre
anni di militare a Cuneo”, ha fatto sberleffo di questo vanto, ridicolizzandolo
con ironia unica.
Un cristiano potrebbe definirsi con verità “uomo di mondo” solo se prende a
cuore quello che presenta la vita quotidiana, con le sue realtà di luci e
ombre; col far sue le parole del Concilio: “Le gioie e le speranze, le
tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti
coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce dei discepoli di Cristo”.
Con, ben in vista, la “Lettera a Diogneto” (II secolo) che descrive il
cristiano: “I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per
territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti.
Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio,
e non adottano uno speciale modo di vivere. Insomma, per parlar chiaro, i
cristiani rappresentano nel mondo ciò che l’anima è nel corpo”. Quindi, non
mondani: la mondanità è lebbra; ma con quel ‘odore delle pecore’, direbbe papa
Francesco, che li fa presenza umile e viva fra gli uomini.
Trasparenza
Parola bella e pugnalata. Di
questa ci si riempie la bocca. In politica, per esempio. Se ascoltiamo
trasparenze proclamate, quasi ci crediamo; ma quando si va avanti a manovre
poco chiare, l’indignazione esplode.
Il Vangelo chiede di essere trasparenti: “Sia il vostro parlare sì,sì;
no,no”. Si elevano invece cortine fumogene di fronte alle quali pochi siamo
senza peccato. Nel linguaggio, per esempio. I politici usano il cosiddetto
“politichese”, tipo: “Il nuovo soggetto sociale circoscrive la ricognizione dei
bisogni emergenti secondo un modulo di interdipendenza orizzontale”, dove non
si capisce un tubo.
Pure in ambienti di Chiesa si usa “l’ecclesialese” per cui il “dono”
diventa “ottica oblativa”; la “carità” è “aprirsi all’alterità”, etc. Così, si
sbatte la porta in faccia alla gente. E nella relazione? C’è un peccato contro
la trasparenza. Don Milani sosteneva che in certi casi i superiori sbagliano
perché nessuno ha il coraggio di dire loro quel che dovrebbe dire. Forse è da
rivisitare un’espressione difficile ma stimolante: “parresia”, il coraggio
della verità.
Infine, un appunto sull’economia. La “Famiglia di Dio”, se famiglia, ha il
diritto di conoscere rendiconti e bilanci tenuti segreti, pur a fin di bene. In
una preghiera dagli orizzonti più vasti, ma che potremmo far nostra, si dice a
Maria: “Rendici sacramento della trasparenza”.
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La forza della Verità
di Maria Giovanna e Carlo
Carissima Marta,
poco fa (sono le 17 del 31.10) ho aperto il computer
e sono andato al sito del “Sentiero” e ho visto. Doretto... che dirti? Non so
che dirti. Non credo che ci siano parole capaci
di consolare un tal vuoto. E allora un semplice ‘condoglianze’. Semmai,
di lui un antico ricordo.
Io alla notizia della sua morte, subito sono andato indietro negli anni. Ho
ignorato la seggiola a rotelle e sono andato là in fondo o là in cima, non so.
Al tempo della nostra adolescenza. Quando eravamo su sponde avverse. E Doretto
era discepolo di una fede che prometteva il riscatto dell’umanità. E, forte
della sua fede, combatteva i cristiani o meglio i democristiani, responsabili a
suo parere dei mali del mondo. Poi io sono venuto via da Ortonovo e di lui per
molto tempo non ho più saputo niente fino al momento della presentazione in
Comune, lì a Ortonovo, del mio ‘Com’eravamo’, quando venne anche lui e mi si
presentò nella seggiola a rotelle. E lì seppi che aveva cambiato sponda. Io che
da ragazzo ero affascinato dalla sua eloquenza elegante e incisiva ed ero
scosso dalle sue argomentazioni che avevano in sé la forza della verità, lì per
lì rimasi stupito. Ma poi pensai ad altre così dette conversioni, a quella di
Dante, per esempio, o a quella del Manzoni, o anche a quella più famosa di san
Paolo. E capii. Lui non era passato sull’altra sponda, lui era rimasto sulla
stessa sponda. Quella in cui combatteva in favore di un’umanità disastrata e
bisognosa di aiuto. Per il riscatto dei diseredati. Lui già era, allora, quello
che sarebbe stato dopo. Già aveva in sé gli imperativi morali che lo animeranno
dopo. Lui era già cristiano, solo che non lo sapeva. Lui già combatteva per il
riscatto dell’uomo, solo che lo faceva con armi troppo umane e quindi
insufficienti. Noi poi non ci siamo mai incontrati. Ma io leggevo i suoi
articoli sul “Sentiero” e capii che era
improprio dire che lui si era convertito. I suoi imperativi morali erano
rimasti gli stessi. Solo che aveva arricchito e nobilitato le sue armi e che
nella sua lotta per redimere sé e i suoi simili aveva smesso di farsi aiutare
dalla sociologia, dalla filosofia, dalla politica, ma era ricorso, del resto
come aveva fatto il Manzoni, all’aiuto del Vangelo di Cristo, in cui non siamo
nemici dei nostri avversari, ma li amiamo. Non cambiò sponda, ma rimase saldo
al posto che la vita gli aveva assegnato. Solo che mutò qualità e tipo di armi.
Nella sua lotta si servì di quello che Cristo stesso definisce il primo di
tutti i comandamenti secondo il quale tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il
tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutte le tue
forze. E di quello che ancora Cristo nomina per secondo: Tu amerai il tuo
prossimo come te stesso (Marco XII). Cioè smise le armi dello scontro e della
lotta, per assumere quelle della Fede e dell’Amore.
Naturalmente, cara Marta, le
più sincere condoglianze anche da parte di mia moglie. Con un forte abbraccio.
Montepulciano 01 11
14.
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Ricordare è continuare a vivere
di Romano Parodi
Vi voglio spiegare il
significato di due detti che troverete alla lettera B del mio vocabolario del
dialetto ortonovese. Alla parola ‘botta’ troverete: «g’ià pig’ià pu’ bòta d
Pelo a l’Avenza!».
‘Pelo’ (Parodi Luigi, uno zio di mio nonno) subito dopo i fatti anarchici, ad
Avenza lo avevano picchiato a sangue, perché fra i due gruppi, che avevano
l’ordine di muovere insieme alla conquista di Carrara, c’erano state accuse
reciproche di tradimento. Dirà Pietra Emilio, in tribunale a Massa: “Fasholin e
Maberini (i due caporioni ortonovesi), a insurrezione fallita, hanno detto che
gli avenzini sono stati la nostra rovina”. Dirà Carlo Gianoli**: “Fasholin e
Maberin hanno detto di non fare ‘potate’”.
Ancora cinquanta anni dopo, andavo all’Avviamento Professionale ad Avenza, un
avventore della locanda, dove andavo a mangiare un piatto di minestra, mi
offendeva dicendo che gli ortonovesi sono traditori. Non sappiamo bene come si
sono svolti i fatti, ma una cosa è certa: furono gli ortonovesi a pagare più
duramente di tutti. Mentre la condanna
media dei 454 carcerati, fu di sette anni di carcere, gli ortonovesi ebbero una
media di dieci, con punte di sedici anni. Come mai?
Alla parola ‘brutto’ troverete: «g’iè brut kom ‘l tred’sha». Il 13 febbraio
1894 fu il giorno più brutto della storia ortonovese: 34 condannati, spediti
nei reclusori delle isole (anche a Pantelleria) e tre morti. In paese arrivano
i soldati del generale Heush e si accampano nella chiesa di San Lorenzo. Il
primo a essere preso fu Fasholin, poi, dopo delazioni e false promesse, 34
innocenti furono incatenati e portati nelle carceri in attesa del processo che
li condannerà a pesanti pene. Negli anni a seguire, grazie all’avv. Antonio
Bianchi, sindaco del paese, ritornarono a casa, graziati, ma nel paese l’odio
si tagliava con il coltello. C’erano state delazioni e molte ingiustizie: tanti
se l’erano cavata, il gruppo era composto da più di cento uomini (“a Ortonovo
anche le pietre sono anarchiche”, dirà Fasholin) e questi pagarono per tutti.
La sera nessuno usciva di casa. Una notte spararono contro la canonica, e anche
la processione che andava in rogazione a san Marco fu assalita a fucilate: la
gente fuggì lasciando anche il labaro che fu squarciato con coltelli. Questo
clima d’odio durò sino all’avvento del Fascismo e all’assassinio del sindaco
Montefiori.
Il primo a essere processato fu Fasholin e la sua deposizione al tribunale di
Massa diventò una leggenda nel paese. Me la recitò l’ultima volta la ‘mi zé Ida
(d Benvenu)’. Ricordo solo alcune strofe: una diceva: “Su su per quei scaloni
(il tribunale) davanti ai mascalzoni per dir la verità: la verità a d’è questa,
ca n’abian fat gnenta, ci tolga le catene, ci dia la libertà…”. “Che dici a tua
discolpa?”. “Signor presidente, signori
della corte, la nostra colpa ha solo un nome, fame; fame di pane e di
giustizia, ma questa non è una colpa, rimandatemi da mia moglie e mio figlio!”.
“Sedici anni”, sentenziò la corte!
Fasholin fu condotto nelle carceri di Sarzana perché, dicevano, sapeva ancora
molte cose. Dopo un po’ di tempo mandarono a chiamare la moglie perché portasse
dei vestiti per il marito morto. La Marietta corse; non volevano farglielo
vedere; pianse e si disperò; allora la accompagnarono da lui, alzarono il
lenzuolo e: …oh, mondo infame, per farlo parlare, ma invano, l’avevano
ammazzato di botte. Gherardi Guido, detto Fasholin, capo degli anarchici
ortonovesi, tornò a casa dentro una bara; Bruschi Edoardo e Corsi Davide,
invece, non tornarono più.
Mio nonno Luì (anche lui si chiamava Parodi Luigi) aveva un tredici d’oro a
ricordo di quegli eventi. Ce n’erano moltissimi in giro, a inizio secolo. In
tempo di guerra, i miei genitori l’hanno fuso per farne un’anonima catenina.
Oggi sono ricercatissimi. Io mi son fatto questa idea: il gruppo degli
ortonovesi (molto numeroso perché nel tragitto raccolse casaneschi, nicolesi,
isolani e fossonesi) arrivò solo fino al ponte di Anderlin, come dichiararono
tutti al tribunale di Massa, e non riuscì a congiungersi con gli avenzini, per
la violenta controffensiva dell’esercito, e proprio lì morì un militare.
Probabilmente incolparono loro. “Oh giorni del ’94, giorni pieni di
speranza, abbiam messo giù l’aratro per
la grande seminanza. Siamo andati alla battaglia per amore di giustizia, ce
l’ha tolta la canaglia, di quell’Usc*, cane feroce. Or per dargli ricompensa
voglion farlo senatore, ma c’è ancora chi ripensa, al suo grande disonore”.
*Il Generale Heush è il
protagonista dell’ultimo libro di Carlo Lucarelli sulla campagna d’Africa:
lasciava i morti sulla strada come deterrente.
** Poco tempo fa è’ morto
Enrico Gianoli, figlio di Carlo, l’ultimo erede diretto di un passato di storia
tragica ortonovese. Era un amico. Condoglianze alla moglie Giò e ai figli
Bruno, Daniele e Loredana.
P.S.) Nel centenario di quei
giorni tragici, nella sala Consiliare, l’Amministrazione comunale ha ricordato
quella pagina di storia repressa nel sangue dall’esercito di Crispi. In quella
occasione ci fu la proposta di una lapide commemorativa, ma anche questa, come
quella dei dispersi in Russia, è finita nel dimenticatoio. Ma salvare
dall’oblio quei nomi è richiamare alla memoria un passato carico sì di drammi,
ma anche di speranze e di valori che in quegli anni erano feconde premesse di
un avvenire migliore.
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Nuovo Parroco a Luni Mare
di Mila
Caro
“Sentiero”,
al termine della Messa, diverse persone mi hanno chiesto notizie riguardanti il
programma organizzato per l’arrivo del nuovo parroco, don Carlo Cipollini. Il
programma ovviamente verrà affisso tra qualche giorno nelle strade di Luni Mare
e nelle parrocchie del vicariato, ma preferisco anticiparlo sul “Sentiero” perché così
raggiungerà una maggiore diffusione.
Il
programma prevede un triduo di preparazione:
Martedì 9 dicembre
ore 21,00 - Conferenza di don
Giorgio Rebecchi improntata sulla
figura del sacerdote nella parrocchia.
Mercoledì 10 dicembre ore
21,00
- Liturgia penitenziale
Giovedì 11 dicembre ore 21:00 -
Adorazione eucaristica vicariale per le vocazioni.
Venerdì 12
dicembre - ore 18:00 - Ingresso del nuovo Parroco.
Presiederà la cerimonia il vescovo diocesano, mons. Luigi Ernesto Palletti coadiuvato
dagli ex Parroci, don Andrea Santini e
don Roberto Poletti.
Al termine della cerimonia un momento conviviale che cercheremo di rendere
veramente interessante.
Vi aspettiamo numerosi.
Passo ad un argomento purtroppo triste: ho appreso, leggendo il “Sentiero” di
novembre, della morte del caro Doretto. Porgo di cuore le più sentite
condoglianze alla sua famiglia. Mi dispiace molto, lo conoscevo poco ma leggevo
con molto interesse i suoi scritti
sempre ricchi di fede e amore per Dio e la Chiesa.
Vorrei esprimere le nostre condoglianze
anche alla famiglia di Angelo Brizzi, non l’ho ancora fatto e me ne scuso. I
suoi scritti erano molto interessanti: ci parlavano della Spagna, dove credo
lui si recasse spesso per lavoro, ma non parlavano di lavoro o di turismo, ma
della spiritualità della Spagna, della bellezza delle sue chiese e dei suoi
santuari, visitati ogni anno da migliaia di pellegrini.
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Ricordo in onore di Doretto
di Don Romeo Rossetti
Ciao Doretto,
per me sei sempre il Doretto
di una volta quando tu vivevi ancora su questa “povera terra”; anche se ora hai
raggiunto la GLORIA di DIO e la felicità eterna, dopo le sofferenze subite
nell’ultimo periodo della tua vita terrena. Continuo a chiamarti Doretto, ma
potrei anche chiamarti “San Doretto”.
In questi momenti ricordo con profonda nostalgia il nostro primo incontro,
quando tu che eri “miscredente” venivi tutti i giorni in motocicletta a San
Martino in fondo alla scalinata della chiesa. Un giorno io sono sceso dalla
scalinata, ti ho avvicinato e conosciuto.
Da quel momento è incominciata la nostra amicizia e periodicamente partivamo
insieme sulla tua potente motocicletta per andare visitare tanti luoghi sacri specialmente
santuari francescani. Dopo questa frequenza anche tu hai acquistato le virtù
religiose di mia competenza e sei diventato un ottimo cristiano. Poi ci siamo
“lasciati” perché io avevo cambiato residenza, diventando parroco di un piccolo
paese di montagna.
Dopo tanti anni abbiamo ripreso la relazione diventando collaboratori (tu molto
prima di me) al periodico “Il Sentiero” di Ortonovo. Da quel momento molto
spesso entravamo in relazione attraverso il telefono e così ho partecipato
all’ultimo periodo della tua vita terrena piena di dolori e sofferenze di ogni
tipo, specialmente negli ultimi giorni quando ti stavi preparando ad entrare
nell’ospedale per subire un intervento chirurgico da cui poi è sopraggiunto il
sonno eterno, e tu hai abbandonato quella povera esistenza terrena per entrare,
come tu desideravi, nella vita eterna.
Ciao Doretto io dal momento della tua morte ti considero con ragione un Santo. Ciao
e a presto ci incontreremo di nuovo...
Varano
de Melegari 25.10.2014
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Storia di una bambola
di Maria Angela Albertazzi
Quanti
giocattoli nei bidoni vengon gettati, ancora nuovi e incartati. Sono cose che,
in questi tempi di carestia, fanno male al cuore e anche al Signore. Sarà colpa
dei genitori che non danno più il giusto valore al denaro? Eppure si guadagna a
costo di molti sacrifici.
Voglio tornare indietro di molti anni e raccontare una brutta storia.
Con la mia famiglia eravamo emigrati in Francia, io avevo due anni e mia madre
era incinta di mia sorella. Come ogni anno nel piccolo paese dove abitavamo vi
era una piccola fiera. Mia madre mi porta a questa fiera e io vengo attirata da
una bambolina col corpo di stoffa e gli arti e la testa di gesso. Chiedo a mia
madre di prendermela, ma lei con uno strattone mi porta via. Mi sono messa a
piangere disperata. In quel momento si avvicina un’amica di mia madre e chiede
il perché di quel pianto dirotto. Mia madre le spiega la faccenda della
bambolina e l’amica le dice di comprarmela, anche perché costa pure poco e la
mamma, per non fare brutta figura con l’amica, compra quella benedetta bambola.
Io dalla gioia stringevo al petto quel ben di Dio; la chiamai Maria, come la
nonna. Non avevo mai avuto prima d’allora una bambola tutta mia; quelle che
facevano la nonna Maria e mio padre con i tovaglioli bianchi erano effimere:
venivano poi sfatte e lavate, poi non esistevano più.
Torniamo a casa, ed io ero felice come non mai; non vedevo l’ora di mostrarla
alla nonna e al papà, ma mia madre appena entrate in casa, forse dalla rabbia
che aveva dovuto ingoiare, me la strappa di mano e la sbatte violentemente a
terra mandandola in frantumi.
Dalla grande paura non ho pianto: ero piccola ma già capivo molte cose.
Questo fatto mi ha condizionata al punto che, anche dopo sposata, ho sempre
temuto di chiedere qualcosa alla mamma, anche se da giovane ho fatto tanti
sacrifici lavorando in campagna, cucendo, a far legna e tant’altro. E tutto
quello che guadagnavo lo davo in casa.
Ecco perché ora rimango stupefatta quando vedo buttare via tante cose che
potrebbero essere ancora usate!
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