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PERLINA (2)
di Carlo Lorenzini
Sembrano tante regine... E
anche tu l’anno scorso...”. Lei sorrise e diventò rossa... Poi disse: “Ma le
donne non sono poeti...”. “Anche loro scrivono poesie. Ma poi che
importa?...” La guardò. Lei era seduta
di fronte a lui appoggiata ad una quercia. Il suo viso era pieno della luce dei suoi occhi
neri. Le disse: "Stai così!". Quindi si alzò. Tirò fuori il suo
coltello a serramanico. Tagliò un ramo dell’alloro. Ne ricavò delle fronde, le
unì l’una all’altra con dei legacci d’erba, tanto da farne una corona della
misura del capo di Perlina; poi gliel’aggiustò sopra i capelli. E subito lei
parve una regina. Lui si sedette a
fianco della sua regina. Lei si voltò, per guardarlo. Ma anche lui si era
voltato, per guardarla. E videro reciprocamente stupori che ancora non
capivano. Lui chiese: "Cosa vuoi essere regina o poetessa?". Lei rise e gli diede con una mano una botta
su una spalla davanti. Rise anche lui…
Si avviarono verso casa, che il sole là a occidente stava andando sotto.
Poi, attivi e vagabondi nel paradiso terrestre di quella loro felice collina,
che, verso il tramonto, guardava l’immensità e l’eternità del mare, i due,
stagione dopo stagione, mantennero e
coltivarono, nel rispetto di se stessi e della tradizione, quel sentimento che,
ragazzi, non sapevano che cos’era. Ed era amore.
Finché i genitori di entrambi furono d’accordo nel dire che era necessaria una
stanza in più per i due giovani, futuri sposi. E poco dopo già fervevano i
lavori. Quindi entrambi dissero sì. E
Perlina mentre diceva ‘sì lo voglio’ ripensò a quando lui le aveva confezionato
la corona di alloro per incoronarla regina o poetessa; e ripensò alla poesia
dell’alloro e della vite e le venne da sorridere, perché era sicura che avrebbe
amato quella poesia più di ogni altra; anche se sull’alloro era troppo
ingenerosa: ché anche l’alloro era importante, molto importante; e non solo per
incoronarti regina... E anche lui,
Arturo, mentre diceva ‘sì lo voglio’ pensava a qualche cosa; ma non a cose
determinate; ma ad una cosa in generale: pensava che la bellezza di quel pendio
di collina, di quel loro paradiso terrestre... pensava che quel paradiso
terrestre era bello unicamente perché a illuminarlo c’era la luce di bellezza di Perlina. Ma se la Natura ha un cuore buono e generoso
che ti regala il suo paradiso terrestre, l’uomo questo cuore buono e generoso
non ce l’ha. A l’uomo piace più l’inferno del paradiso. E a Perlina quella
mattina che il suo Arturo partì per andare a fare la guerra da marinaio, a lei non
sembrava vero. Ancora non s’era resa conto del tutto di essere sposata, che già
le toglievano il marito. Comunque al principio la guerra sembrò un gioco.
Specialmente fin che fu assegnato al porto militare di La Spezia. Che veniva a
casa spesso. E così vestito nella sua elegante divisa da marinaio era
l’orgoglio della famiglia; e, agli occhi di Perlina, era addirittura un eroe.
Le sembrava che l’esito della guerra dipendesse da lui.
Ma anche dopo, quando lo trasferirono a Taranto, il dolore per la lontananza fu
confortato in lui da un orgoglio ancora più grande: quello di essere nel più
importante porto militare d’Italia e di
appartenere all’equipaggio di una delle più importanti unità da combattimento
della Regia Marina. La nave Caio Duilio.
Ed era ancora un gioco per Perlina, un
gioco da batticuore, andare al mattino presto (il portalettere in quella
frazione di Comune passava al pomeriggio inoltrato) all’ufficio postale per
vedere se Arturo le aveva scritto. E guardare nell’interno dalla grata della
finestra (l’ufficio era a piano terra), per vedere se Fino, il portalettere,
scorgendola mentre riordinava la corrispondenza, le sorrideva oppure rimaneva
serio. Il più delle volte le sorrideva. E allora Perlina se ne tornava a casa con la sua lettera che ogni tanto riapriva e
rileggeva o con una cartolina che non si stancava mai di guardare. Fu un gioco la guerra o una specie di gioco,
fino alla notte fra l’undici e il 12 novembre 1940, notte in cui l’audace e intelligente
iniziativa degli Inglesi, approfittando dell’imprevidenza degli Italiani,
trasformarono il porto di Taranto, in cui si trovava anche la Duilio, in un
immenso cimitero delle navi; e moltissimi marinai, fra cui il nostro Arturo, in
eroi da onorare alla memoria.
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S. Teresa di Gesù da Avila (5)
di Angelo Brizzi
Non ricordo come fu quel giorno in
cui con un collega si gironzolava por
caminos de la ciudad vieja de Caravaca con in mano una guia de turismo, la quale, con descrizioni ed illustrazioni della
città, ci consentiva di ammirare manufatti con qualche secolo di storia da
narrare: selciati, palazzi, piazze,
monumenti, fontane consumate dall’uso dei passanti che hanno attinto ai loro grifi (rubinetti). Eccoci davanti alla
chiesa dei Gesuiti; ci soffermiamo un momento ad ammirare la bella facciata: i
raggi del sole picchiano sulle nostre teste e su quelle dei pochi passanti;
vorremmo entrare però il portone è chiuso. Ne chiediamo il perché a un
passante: “Porché es la ora de la
siesta!”, ci risponde. Lasciamo così alle nostre spalle la chiesa dei
Gesuiti per imboccare una stradina selciata in lieve pendenza. Ben presto, come
recita la guida, giungiamo davanti a un portone sormontato da una statua della
Vergine del Carmelo dentro ad una nicchia; a lato due cartelli informano i
visitatori: uno dice Casa de Carmelitas, l’altro,
Pulsar el timbre (suonare il
campanello). Senza indugio pigio el boton
de timbre, aspettiamo e, poco dopo, udiamo il rumore sordo di un
chiavistello che scorre; il portone gira sui cardini e il viso di una giovane
suora appare nel vano semiaperto. Buenas
tardes, hermana! (Buon pomeriggio, sorella!), la saluto. “Buenas, que desea ustedes? (Buona, cosa
desiderate?), mi risponde a bassa voce. La metto al corrente del perché ci troviamo
a Caravaca e che vorremmo parlare con
la Superiora della storia del monastero. Mi zittisce con un cenno della mano e
dal tascone del grembiule tira fuori due opuscoli, ce li porge dicendoci che
era dispiaciuta di non poter esaudire il nostro desiderio, ma la Madre
Superiora e le altre consorelle sono tutte riunite per la chiusura degli
esercizi spirituali, però aggiunge di rivolgerci ai padri carmelitani del
convento di N.S. del Carmine, sito fuori città. E dicendo: “Vaias con Dios, hermanos”, ed un inchino si congeda chiudendo il
massiccio portone. Con l’amico e collega, un po’
riluttante a seguirmi in quella giornata di elevato calore, ci dirigiamo al
convento dei Carmelitani. Ivi giunti, accaldati por lo largo paseo (per il lungo tragitto), nel vedere un gruppo di
ragazzi attorno ad una motocarrozzetta adattata a heladeria (gelateria), pensiamo bene di sorbirci un granizado de hielo con sabor a naranja (una
granita al gusta d’arancia) seduti su un muricciolo. Una leggere brezza
preannunciava l’arrivo della sera; calandosi dall’alto della conca riusciva a
stemperare la calura del giorno. La chiesa ci accoglie assieme ai ragazzi che
entrano in fila per tre, i maschi tenendo il proprio cappellino in mano, le
femmine con in capo un panuelo blanco (fazzoletto
bianco), cantando inni alla Madonna. Al termine della funzione i partecipanti
sciamano verso l’uscita, noi ci dirigiamo verso la sacrestia. Troviamo il padre
officiante intento a riporre i paramenti sacri; lo salutiamo dicendo: “Alabanzamos el Senor Jesus Cristo!” (Lodiamo
il Signore Gesù Cristo!). Lui si gira verso di noi un po’ sorpreso e risponde: “Siempre lo alabanzamos”. Gli chiediamo
scusa per il disturbo e lui ci domanda subito se siamo italiani e, al nostro
assenso aggiunge: “Siate i benvenuti!”. Il frate è di bassa statura e di minuta
costituzione, ha circa cinquant’anni e si esprime mescolando, tra vari sorrisi,
la lingua spagnola con quella italiana; si informa del perché della nostra
presenza in quel convento così lontano dalle arterie turistiche. Gli spiego che
la nostra presenza lì è dovuta al fatto che siamo autotrasportatori e aggiungo
dei miei trascorsi presso i Carmelitani, all’ombra della Madonnina, in quel di
Capannori; chiarendo così il mio interesse per le fondazioni di Santa Teresa e
dei luoghi ove era vissuto S. Giovanni della Croce. Al termine del breve
dialogo lo seguiamo nel locale attiguo comunicante con l’entrata del convento. L’arredamento è sobrio, nello stile
di chi vive in un monastero: poltroncine in ferro con sedili e schienali di
tela ruvida damascata a vari colori, allineate lungo le pareti; un tavolo al
centro e, da una parte, una nevera (frigorifero)
su cui in una bandeja estaban algunos
vasos de bajo de una mantel amarilla (in un vassoio stavano dei bicchieri
sotto una tovaglia gialla); del contenuto di una jara (brocca) presa dal frigo ne versa in tre bicchieri, porgendone
due a noi. Dietro suo invito ci accomodiamo. Due minuti di silenzio ci
impegnano a sorseggiare e gustare quella fragrante bevanda a base di pesche
offertaci dal frate. Poi posando il bicchiere sul bracciolo della poltroncina
che occupava ci chiede cosa vorremmo sapere del monastero teresiano. “Un po’ di
tutto”, gli rispondo, “chi l’ha fondato, in quale periodo e perché proprio lì a
Caravaca, città così fuori mano oggi e chissà al tempo di S. Teresa”. Il frate
sorridendo e passandosi le dita tra i capelli se ne esce con una domanda:
“Iniziamo proprio da quando il Carmelo qui non esisteva?”. E avuto il nostro
consenso inizia il racconto.
(Continua il prossimo
numero)
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Don Tito Bassi
di Enzo Mazzini
Come avevo preannunciato, mi
accingo a ricordare, con la massima sintesi possibile, l'esemplare condotta
civile e religiosa tenuta da don Tito Bassi, parroco di Nicola, negli anni
terribili della seconda guerra mondiale. Nei numeri precedenti ho cercato di
tratteggiare le grandi virtù possedute dagli altri due parroci del comune di
Ortonovo: l'abate don Luciano Pesce Maineri e don Albino Bellangelo, parroco di
San Martino. Tutti questi nostri pastori si sono resi protagonisti di gesta
veramente eroiche e di totale altruismo verso l'intera collettività, mettendo
più volte a repentaglio anche la loro vita. Don Tito, a differenza dell'abate don Pesce e
di don Bellangelo, non ci ha trasmesso molti resoconti delle sue gesta ed anche
negli anni a venire, non si è mai gloriato dei suoi valorosi
comportamenti. Io sono stato vicino a
don Tito, legato com'ero sia a lui che a suo fratello Jor, che era stato partigiano ed era molto più
propenso a parlare delle varie vicende della vita, comprese quelle belliche.
Infatti, ho avuto la fortuna di aver beneficiato di una profonda amicizia con don
Tito e quindi la possibilità di condividere con lui e col fratello Jor molte
meravigliose serate e di assisterlo presso l'ospedale di Carrara in occasione
dei suoi ricoveri, fino al giorno in cui volò in cielo, nel 1976. Quanti racconti ed episodi della sua vita e
quanti aneddoti riferiti con meravigliosi riferimenti poetici, dotato com'era
da un profondo senso dell'umorismo, unito ad una notevole carica umana. C'era
una cosa sola che custodiva gelosamente: era molto restio a parlare delle sue
gesta durante gli anni terribili della guerra. Non una parola per ricordare il
bene che con tutte le sue forze aveva fatto per aiutare, in tutti i modi
possibili, la popolazione bisognosa ed affamata. Sembrava quasi che volesse
gelosamente custodire nel suo cuore, tutto il bene che aveva fatto, ritenendo
che il tutto rientrasse nei suoi doveri di sacerdote, che era fratello e padre
di tutti. Ed anche per lo spirito di estrema riservatezza che lo
caratterizzava, è stato molto parco nel descrivere i drammatici avvenimenti di
quegli anni, annotando nella sua cronistoria solo alcuni episodi salienti,
sottacendo comunque ogni possibile riferimento a fatti che potevano dargli
lustro e pubblica riconoscenza. Tutto ciò è ampiamente dimostrato anche dal
comportamento tenuto in occasione di un fatto estremamente significativo: il
rastrellamento del 29 novembre 1944 che don Tito così ci ha tramandato nella
sua cronistoria che di seguito riporto integralmente. "29 novembre 1944. Improvvisamente sono giunti in paese soldati
tedeschi e due compagnie della Brigata Nera di La Spezia. La maggior parte degli uomini impauriti, si sono
allontanati dall'abitato. Tedeschi ed italiani hanno perquisito tutte le case
del paese e, avendo trovato armi e vestiti di partigiani nella scuola comunale,
hanno incendiato il locale. Intanto, nei
dintorni dell'abitato, molti uomini sono caduti nelle mani dei tedeschi e delle
Brigate Nere. Tra i rastrellati è stato anche il parroco che, condotto con
molti altri paesani a Marinella, dopo una settimana di sofferenze fisiche e
morali, è stato rilasciato in libertà a
La Spezia il 6 dicembre del '44. In Nicola non ci sono stati morti; in Isola neppure;
in Serravalle si lamentano tre morti: Devoti Onezio, Antonelli Giuseppe, Corsi
Ivano". Ebbene, come riferisce Elio
Gentili nel suo libro "Ortonovo dei nostri nonni", don Tito nella sua
cronistoria tralasciò di ricordare un episodio di eccezionale altruismo che lo
vide protagonista proprio all'interno della colonia di Marinella, dove erano
state rinchiuse tutte le persone arrestate. Durante il controllo dei documenti,
don Tito chiese di prendere il posto di un suo parrocchiano, padre di quattro
figli e già incluso nel gruppo di persone sospette che dovevano essere poi
trasferite a La Spezia, per iniziare il drammatico iter che le avrebbe potute
portare a Genova e poi nei campi di concentramento tedeschi. Grazie al fraterno
altruismo di don Tito, il padre di famiglia fu lasciato libero mentre lui fu
condotto alla caserma della Brigata Nera di Via XX settembre alla Spezia, dove
subì interrogatori, torture e percosse per costringerlo a rivelare i nomi dei
"ribelli" di Nicola, fra i quali c'era anche suo fratello Jor; ma don
Tito resistette a tutte le torture senza farsi scappare nessuna parola,
nonostante fosse pienamente consapevole che correva il rischio di essere
deportato nei campi di concentramento tedeschi. Solo l'intervento del
colonnello della Brigata Nera Luigi
Domenichini, sensibile anche ad un accorato appello del Vescovo, consentì il
suo rilascio in data 6 dicembre. Memore di tutto questo, don Tito si recherà
poi a Roma, presso la Corte d'Assise, in data 20 agosto 1949, per deporre a
favore del gerarca spezzino, che rischiava la condanna all'ergastolo,
riconoscendo che l'intervento del Domenichini, nel dicembre '44, gli aveva salvato la vita. Ebbene, potrei ricordare
molte altre cose significative, ma mi sono limitato a riferire solo alcuni aspetti
che rivelano le grandi virtù di don Tito e degli altri due parroci ortonovesi
in anni così drammatici, sentendo comunque doveroso sottolineare anche i grandi
sacrifici ai quali giornalmente si sottopongono tutti i nostri pastori ai quali
è affidata la cura delle nostre anime e quindi la nostra eterna salvezza. Proprio nell’anno appena
trascorso, il 25 aprile, l’Amministrazione Comunale ha pensato bene di
ricordare questo nostro parroco, titolando a suo nome il parco pubblico
adiacente all’asilo nido in via Europa, con una solenne celebrazione, con la
presenza di tanto pubblico e diverse autorità locali e provinciali.
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L’EUROPA CHE NON C’E’
di Antonio Ratti
Quando
dalla prima metà dell’800 alcuni personaggi, che sapevano vedere lontano, come
Mazzini, Garibaldi, D’Azeglio, Gioberti e Cavour, cominciano a dare concretezza
al sogno di unità come Stato sovrano capace di dialogare alla pari con chi lo
aveva già realizzato, l’Italia era formata da 8-9 staterelli
monarchico-familiari, quasi residuati feudali sotto il protettorato delle
grandi monarchie europee, che se ne servivano, spesso, per sistemare le
ingombranti principesse del casato. I diritti e i doveri erano ad personam, cioè patrimonio esclusivo
del sovrano. Di fatto valeva il principio sintetizzato in modo eccezionale dal
Re Sole (Luigi XIV): “Lo Stato sono io!”.
Così, mentre in diverse Nazioni europee si cominciava a parlare di diritti
civili, di istituzioni democratiche e rappresentative, di Costituzione, di
libertà della persona e di impresa, nell’Italia, da secoli povera espressione
geografica, timidamente si cominciava a pensare
alla costruzione di uno Stato unitario per entrare nel novero delle potenze europee.
Non è questa la sede per parlare dei decenni di moti insurrezionali, di azioni
belliche e diplomatiche per raggiungere lo scopo, ma di considerare la fatica e
il tempo impiegato, talvolta senza sottilizzare sui metodi, a sviluppare il
senso di unità nazionale. E’ indispensabile sottolineare il percorso per
portare tante piccole realtà umane, divise da sempre, ad acquisire
l’appartenenza a una identità nazionale. Ho
inteso accennare al nostro Risorgimento per notare le somiglianze e darmi una
spiegazione sulle difficoltà, gli ostacoli e le divergenze che si stanno
macroscopicamente evidenziando tra i popoli e gli Stati che hanno aderito al
progetto di una reale unità europea. Come il Risorgimento italiano è stato un
processo di pochi, subìto passivamente dal popolo, anche l’ideale di una
Federazione europea nasce come processo che dal vertice, costituito da politici
illuminati e preveggenti, procede verso i popoli. Ma in tale cammino qualcosa
non ha funzionato. Si spiegano in tal modo la disaffezione, i dubbi, la
convinzione di inutilità, o, peggio, di danni che serpeggiano e hanno preso
sostanza. I recenti risultati elettorali con l’affermazione, per la prima
volta, di una forza politica euro-scettica sono la più palese indicazione di
quanto sia necessaria una seria analisi sullo stato e la funzionalità delle
istituzioni di governo sovranazionali,
per poi riprendere in toto, e non solo, ciò che fa comodo
ai più forti o furbi (scelga il lettore), gli ideali dei “soci” fondatori come
Spinelli, De Gasperi, Adenauer, Schuman. Basta una fugace lettura del Manifesto di Ventotene (giugno 1941) di
Altiero Spinelli (politico) e di Ernesto Rossi (economista) confinati in quell’isoletta,
per aver chiaro l’innovativo progetto che, unendo l’Europa in una grande
federazione di Stati (USE, Stati Uniti d’Europa), poteva garantire la pace,
dopo due guerre mondiali combattute soprattutto sul vecchio continente, lo
sviluppo economico integrato, la forza politica ed economica in grado di essere
protagonista in un mondo globalizzato e infettato da un potere finanziario
senza etica e irresponsabilmente famelico. A questi due grandi “sognatori
preveggenti” nel dopo guerra si ispirano i sei capi di governo (Adenauer,
Schuman, De Gasperi, Bech, Beyer e Churchill, l’unico favorevole solo per
opportunità politica) che con il Trattato di Parigi (18 Aprile 1951),
riconosciuto come il primo momento di integrazione europea, danno vita alla
Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Il
25 Marzo 1957 i Trattati di Roma con la istituzione della Comunità Economica
Europea (CEE) e dell’energia atomica (Euratom), aggiungono altri importanti
elementi di unione quali la politica estera e la sicurezza comune, tanto che
sono considerati i veri atti costitutivi dell’Europa unita. Con il trattato di
Maastrich (7 febbraio 1992) si fissano le regole politiche e i parametri
economici necessari per l’ingresso dei vari Stati nell’Unione Europea (UE) e si
decide sulla nascita della moneta unica. Da questa ermetica sintesi è evidente
come si parli di unioni doganali, di mobilità delle persone e delle merci tra
gli Stati membri, di indirizzi comuni in economia, ma non si va mai al nocciolo
del problema: unione di popoli, non di economie e di finanze, che devono essere
il logico effetto e non il fine del progetto. Con questa logica il sogno
primigenio si annacqua sempre più. Fino a quando i temi normati saranno
economico-finanziari, le smanie di far valere gl’interessi nazionali saranno
prioritarie, i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo saranno considerati
periferici Stati-cuscinetto per fare da filtro e assorbire le drammatiche
turbolenze del Medio Oriente o le tragiche migrazioni da quell’Africa che per
secoli è stata terra di espoliazioni barbariche, senza nulla in cambio, da
parte di coloro che ora frenano e mettono i puntini sulle “i” dall’alto della
loro noblesse oblige (che in realtà
vuol dire: la nobiltà comporta obblighi) o
sangue blu, dimenticando di essere stati civilizzati ed educati alla cultura
dal sapere delle polis greche e al diritto dalle legioni romane di Roma, si
continuerà nell’insano giochetto di una Europa che non funziona e non può
funzionare. La responsabilità non è dei lavoratori che perdono e non trovano
lavoro, dei giovani ritenuti inutili bamboccioni, dei popoli che hanno il torto
di affidarsi alla loro classe politica non sempre all’altezza, dei migranti che
fuggono dal caos creato e lasciato dai colonizzatori di cui sopra, ma di chi,
da troppo tempo, ha volutamente dimenticato l’idea originale e il sogno di
quelle grandi menti che hanno visto in una Federazione vera - non una mediocre
Comunità Economica - di popoli e di Stati
la sola prospettiva per rilanciare il ruolo di culla della civiltà,
della democrazia, del diritto e della cultura al più piccolo dei Continenti.
Perché è sempre valido il proverbio: “E’ nella botte
piccola che si conserva il vino buono”. Come
l’ideale risorgimentale è diventato pian piano realtà, sebbene le cronache di queste
settimane mettano in risalto episodi contrari e inqualificabili per la dignità
e la credibilità di un popolo e di una Nazione, così l’ottimismo per una Europa
unita, protagonista di serietà e democrazia, capace di essere ancora all’avanguardia sullo
scacchiere mondiale, perché le potenzialità ci sono tutte, non può e non deve
affievolirsi davanti a incertezze o devianze dal giusto percorso, soprattutto
nei momenti difficili come gli attuali. La forte preoccupazione è una sola:
quanto ci mancano quegli uomini del Risorgimento e quelli che hanno ricostruito
gli Stati europei nel dopo guerra per la loro caratura intellettuale e morale e
per il carisma che li ha resi irripetibili!
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Perché...io no
di Paola G. Vitale
Ci sono immagini che vorrei catturare solo con il cuore,
in un silenzio che parla di festa, anche qui, nella piazza della mangiatoia di
Betlemme. Non è così per il mondo, ora. Per me, no. Vedo il Papa che cerca il
contatto con le persone; vedo tanti “quadratini” alzati a catturare immagini…
e, finalmente, la folla munita di palloncini, tamburelli e bandiere, pur in una
ambientazione che parla ancora di divisione e di guerra. Papa Francesco sta per celebrare la Santa Messa nel luogo
della Natività per eccellenza. La Natività che ci ha risollevato dalla
divisione con Dio, che ci ha creati. Con il suo Figlio, Gesù, Dio è venuto a
riprenderci come sue creature. Papa Francesco ora sorride, mentre l’auto
procede fra due ali di folla; protende la sua mano, anche se non gli è permesso
di avvicinarsi, alla folla festante. Eccolo che scende dalla “papa-mobile”
circondato da un folto stuolo di uomini della sicurezza. Ad uno ad uno gli
vengono avvicinati coloro che recano i
doni. Ora sono io emozionata nel vedere la piazza, il palco e
la grande immagine della Natività ove i tre Magi sono sostituiti dai tre Papi
che, ultimi, si sono recati a Betlemme e in Terrasanta. Il personale della
sicurezza è in continua attenzione e in movimento anche tra la folla. Io penso
al momento storico, carico di tensione, di contrasti, di grande crudeltà nel
cuore di tanti uomini… e prego! Prego con emozione, con speranza, con serena
richiesta di amore. Vieni, Santo Spirito! Vieni a noi per mezzo di Maria
Santissima! E con noi rimani!
Luni Mare 25
maggio 2014
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Il celibato ecclesiastico Cattolico e Ortodosso
di Don Romeo Rossetti – già Parroco di S. Martino di Casano
In
qualità di ex parroco di S. Martino di Casano e di teologo, per quanto
sacerdote a riposo, data specialmente l’età (92), mi ero impegnato a trattare
un quadro sia storico che teologico esclusivamente nell’ambito della Chiesa Cattolica,
ma da quanto ho osservato in questi giorni durante la solenne e molto sentita
visita di Papa Francesco in Terra Santa, mi sono permesso di allargare il tema. Tutti
sappiamo che nella Chiesa Cattolica vige un celibato nelle sue diverse forme,
sia nelle varie diocesi per quanto riguarda i sacerdoti, i diaconi, e i
suddiaconi, al servizio dei fedeli, come specialmente nell’ambito degli ordini,
istituti, congregazioni, in quanto legati ad essi dai voti di povertà, castità,
obbedienza e dove il voto di castità è sinonimo di verginità, cioè di amore
verso Dio. Tornando alla visita del Santo Padre in Palestina voglio ricordare
in modo particolare l’incontro dello stesso con il Patriarca Metropolita
Ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo, con il quale da parte del Vescovo di
Roma è in corso una intensa e sincera relazione, ufficialmente interrotta dalla
rottura tra le due Chiese avvenuta con tanto di scomunica reciproca nel 1054,
la quale non esclude, in un domani più o meno vicino, un ritorno alla piena
comunione. In questo ambito viene spontaneo interessarsi anche per quanto
riguarda la Chiesa Ortodossa della forma di celibato che vige in quella Chiesa.
Sappiamo infatti, limitandoci all’ambiente sacerdotale addetto alla cura
pastorale, che i futuri sacerdoti si dedicano alla cura della teologia e varie
materie collegate nell’ambito del seminario, come da noi e, terminato l’intero
corso, ritornano in famiglia dove possono contrarre regolare matrimonio. Dopo
ciò, possono ritornare nel proprio ambiente di studio e di lavoro dove vengono
consacrati sacerdoti. Teniamo presente però che nella Chiesa orientale vigono
numerosi monasteri dove si vivono, come da noi, i voti di povertà, castità ed
obbedienza ed è da questi monasteri che vengono prelevati i futuri patriarchi
delle varie Chiese Ortodosse, ai quali però non è concesso il matrimonio. Ecco
quindi la differenza: nella Chiesa di Roma non è ammesso il matrimonio né prima
né dopo la consacrazione sacerdotale, mentre nella Chiesa Ortodossa, a libera
scelta, è permesso ad una persona sposata di ricevere il Sacro Ordine. Sempre
in questo ambiente possiamo notare che quanto è permesso alla Chiesa Ortodossa,
indipendente da Roma, viene invece permesso alle diverse Confessioni Ortodosse
dipendenti da Roma. Arrivati
a questo punto, dato che è in corso tra Papa Francesco e il Metropolita Ortodosso
Bartolomeo una relazione profonda e sincera che potrebbe in un domani riportare
le due Chiese alla antica unione e diventare una Chiesa sola, possiamo ipotizzare
anche nella Chiesa di Roma un matrimonio per sacerdoti addetti alle cure
pastorali. Lo stesso S. Paolo scrivendo ai suoi due collaboratori Tito e
Timoteo, consiglia loro di assumere dei collaboratori sposati con figli che
diano buon esempio. Non ci
resta che approfondire ulteriormente questa relazione e nello stesso tempo
elevare la più viva preghiera a nostro Signore Gesù Cristo affinché accompagni
con il suo divino interessamento il nostro programma. A chiusura di tutto
quanto già detto possiamo citare come esempio quanto sta avvenendo nella chiesa
anglicana dove molti sacerdoti regolarmente sposati si sono convertiti alla
chiesa di Roma conservando nello stesso tempo il loro stato matrimoniale. Tuttavia la chiusura migliore di questo articolo è sempre
quella di vivere, qualsiasi forma di vita abbiamo scelto, le virtù evangeliche
cioè l’amore cristiano verso Dio nostro eterno Padre, verso Gesù, il nostro
grande fratello figlio di Dio, nostro redentore e salvatore, verso la Gran
Madre di Dio Maria Santissima ed il nostro prossimo come noi stessi che devono
costituire un solo grande amore e ciò servirà a risolvere qualsiasi nostro
problema.
Don Romeo Rossetti
– già Parroco di S. Martino di Casano
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Un Vescovo venuto da lontano
di Doretto
Domenica 25 maggio - Stamani vado, con la mia PM
(papa-mobile), a Messa nella mia
chiesetta di Isola. In questo periodo sto facendo una cura che, come effetti
collaterali, mi procura debolezza (ulteriore) nelle gambe: non mi reggo in
piedi. Avevo chiesto al parroco, don Andrea, se potevo entrare in chiesa con la
mia macchinina e lui aveva acconsentito.
Subito mi è venuto questo pensiero: Gesù, invece di spalancare io le porte a
Te, sei Tu che le spalanchi per farmi entrare nella Tua casa: ma quanto ci
ami!? Don Andrea da stamani è ricoverato
in ospedale per un intervento improrogabile e al suo posto celebra la Santa
Messa un Vescovo. Il colore della sua pelle è nero. Si chiama Ntagwarana e
viene dal lontano Burundi. Il Vangelo di oggi ci parla di Gesù che prima di
lasciarci, promette che manderà lo Spirito Santo che continuerà l’opera di
consolazione per i secoli a venire, anche se fisicamente Lui non sarà presente.
All’omelia il Vescovo ci spiega bene il significato di questa promessa fatta da
Gesù, e nelle sue parole noto qualcosa che mi risuona familiare. Poi arriva il
momento fatidico dell’Eucaristia. E ora, chi mi verrà a donare Gesù? Io non
posso certamente muovermi dal mio posto, ma… confido in Te, Gesù. Ed ecco che
sento alle mie spalle una voce che mi dice: “Doretto, la Comunione?”. Era
Andrea, il giovane seminarista in aiuto nella nostra parrocchia: “Il Corpo di
Cristo!”. “Eccomi, Gesù”. E in quel momento il mio cuore sembra scoppiare dalla
gioia, sino alle lacrime! Terminata la Messa, mi fermo un po’
fuori nel piazzale e, mentre sono lì, ecco che una persona mi porge la mano e
mi saluta calorosamente: è lui, il Vescovo! Anch’io lo saluto e ringrazio per
tutto e nel frattempo penso all’universalità della Chiesa che questa mattina si
è concretizzata qui a Isola di Ortonovo. Ho pensato: ecco, questo Vescovo è di
Bubanza (Burundi), su, al Santuario, ci sono i sacerdoti della Fraternità
Missionaria di Maria provenienti dal Guatemala, e subito penso alle parole di
Gesù: “Andate e insegnate tutte queste cose che vi ho detto a tutti i popoli
della terra”. Istintivamente ho detto al Vescovo: “Ecco, siamo tutti Uno in
Gesù!”. E lui: “Sì, sì, tutti Uno, tutti Uno!”. E poi ecco la domanda che mi
premeva: “Mi scusi, ma lei ha conosciuto Chiara Lubich?”. E lui di rimando: “Io
sono stato un Gen!”, (i Gen sono gruppi di ragazzi del Movimento dei Focolari
creati da Chiara), “e poi sono stato da Gen a Castel Gandolfo, ci sono tornato
da Vescovo e ho conosciuto personalmente Chiara!”. Ecco spiegato il mio presentimento
nel riconoscere l’impronta dell’Unità nelle sue parole. E così non ho potuto
che abbracciarlo forte. Penso che anche lui abbia riconosciuto nelle mie parole
l’ideale dell’Unità che unisce tutti noi nella nostra casa comune che è la
Chiesa. In quell’abbraccio spontaneo c’era in entrambi una commozione che
sicuramente proveniva dalla certezza che Dio veramente ci ama e che ci vuole
tutti come Lui ci ha insegnato prima di partire per il Cielo: una cosa sola,
come Lui è una cosa sola con il Padre, così noi dobbiamo essere una cosa sola
nell’amore reciproco e in Lui. Gesù. Accresci la nostra fede! Se
tutti noi che ci definiamo cristiani fossimo veramente una cosa sola in Lui, il
mondo ‘prenderebbe fuoco’! Evidentemente siamo un po’ spenti. Ma, coraggio,
cerchiamo ogni giorno di fare un passettino avanti confidando nel suo aiuto.
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DIARIO MAGGIO
di Walter
Il diario di questo mese di
maggio è tutto incentrato sulle tante celebrazioni ed incontri che si sono
svolti al Santuario in occasione delle celebrazioni del 100° anniversario
dell’Incoronazione della Vergine Addolorata del Mirteto. Il
1° maggio – alle ore 18 – c’è stata, al Santuario, la solenne apertura del mese
mariano col canto dei Vespri seguiti dalla Santa Messa concelebrata dai Padri
del Santuario. Non eravamo in tantissimi, ma abbiamo potuto gustare una bella,
intensa celebrazione. Con Renato all’armonium, un gruppetto di cantori, tutto
ben organizzato, i partecipanti hanno trascorso un vero momento di spiritualità
viva. Il
giorno 3 (sabato) si è svolto il consueto pellegrinaggio diocesano, questa
volta ancora al Mirteto, proprio per dare inizio, con la presenza del vescovo
Luigi Ernesto, alle celebrazioni del Centenario dell’Incoronazione. Terminata
la Santa Messa il Vescovo ha inaugurato la mostra fotografica “Il Santuario tra
passato e presente”, poi tutti nella struttura a fianco del Santuario per il
consueto momento di convivialità allestito dall’ANSPI. Anche
l’incontro per l’ora di adorazione eucaristica interparrocchiale del secondo
giovedì del mese si è svolto quassù. Molto numerosi i partecipanti giunti da
tutte le parrocchie del vicariato. Lunedì
12, i sacerdoti della Fraternità Missionaria di Maria che sono in Italia (ne
mancavano alcuni per impegni nelle loro parrocchie) hanno concelebrato una
solenne Santa Messa. Anche oggi un gruppo di coristi della corale Cantus Firmus
sono presenti per animare la liturgia, ma, all’ultimo momento, arriva un
messaggio dal maestro, Renato, che sta ritardando, quindi dobbiamo arrangiarci
con canti tradizionali anziché quelli preparati. Per fortuna ho visto tra i
fedeli il buon Enzo, che si diletta ad accompagnare i canti a S. Martino, ad
Annunziata e, a volte, anche qui a Ortonovo, per cui gli chiedo di sostituire
Renato, avvertendolo che da un momento all’altro dovrebbe arrivare. Enzo, umile
e disponibile come sempre, ha accompagnato i canti con l’armonium fino
all’omelia, poi è arrivato Renato e… la musica è cambiata: la celebrazione si è
ravvivata con canti più importanti e solenni. Grazie, caro Enzo, per essere
sempre presente al momento giusto. Al termine il gruppo ANSPI, altri
collaboratori e i missionari ci siamo ritrovati nel salone “Don Pesce” per una
frugale cena e partecipare poi al Rosario serale. La
sera di domenica 18 si è tenuta una rassegna corale. Hanno partecipato il coro
della parrocchia del Sacro Cuore di Molicciara, un gruppo gospel di Arcola, la
corale del duomo di Massa e la corale Cantus Firmus che ha fatto gli onori di
casa. E’ stata una serata molto vivace e anche un po’ lunga, poiché al termine
c’è stato un ricco rinfresco per tutti i partecipanti. Lunedì
19 è prevista una conferenza da parte di padre Angelo Maria Gila dei Servi di
Maria. Il tema è: “L’incoronazione di Maria: una lettura teologica”. L’anziano
sacerdote ci ha accompagnato, in meno di un’ora, in un percorso che ci ha fatto
scoprire tante piccole particolarità della devozione mariana: dai Santuari
mariani, alle immagine sacre e, particolarmente, quelle miracolose, e, infine,
della Regalità di Maria. Del dipinto dell’Addolorata del Mirteto ha detto: “Trovo il dipinto non solo importante per
l’antichità ma anche interessante per l’originalità… La Vergine addolorata,
nostra Signora, ci chiama a stare con lei accanto alla Croce perché impariamo
alla sua scuola la cosiddetta “sapienza della croce” che consiste
nell’accogliere “Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i
pagani…” ; e ha concluso dicendo: “La
Vergine rimane ancella anche in Cielo e la sua vera corona sono le sue figlie e
i suoi figli”. Il pubblico non era
molto numeroso, ma chi mancava ha perso una bella occasione per vivere un altro
bel momento di intensa spiritualità. Ed
eccoci al giorno del Centenario, mercoledì 21 maggio 2014. La chiesa è piena di
pellegrini arrivati un po’ dappertutto, non solo dalla nostra vallata.
All’altare il vescovo emerito di Brescia, Giulio Sanguineti, già vescovo della
nostra diocesi, è attorniato da uno stuolo di sacerdoti (i padri del Santuario,
il Passionista p. Giuseppe, gli orionini don Alberto e don Massimiliano, don
Andrea, parroco di Fossone e il diacono Agostino). All’omelia ricorda
sinteticamente agli intervenuti la storia della miracolosa lacrimazione
dell’Addolorata (per noi di Ortonovo sono cose risapute ma per tanti sono cose
nuove). A questo appuntamento non potevano mancare le delegazioni dell’AVIS,
poiché un decreto del vescovo Giuseppe Stella del 1962 nominava la Madonna del
Mirteto patrona dell’AVIS provinciale di La Spezia. Erano presenti quindi i
rappresentanti della sezione provinciale e di tante sezioni comunali con i loro
labari. Al termine, un altro ricco rinfresco per tutti. Qualcuno dirà che siamo
sempre a mangiare, ma per noi è un dovere di ospitalità (è anche grande fatica)
e la gente apprezza vivamente queste manifestazioni di buona accoglienza. Un
appunto che in molti mi hanno incaricato di rimarcare: la mancata
partecipazione delle autorità (se così si possono chiamare)
dell’Amministrazione Comunale. Ormai da tempo cerco di non rimarcare più certe
assenze a certe celebrazioni, lo faccio solo perché invitato da tanti a farlo. Il
giorno 24 (sabato) ricorre la festa di Maria Aiuto dei cristiani o Maria
Ausiliatrice. La prima denominazione è la patrona della Fraternità Missionaria
di Maria ed è anche il giorno della fondazione di questa congregazione del
Guatemala. Per questa occasione padre Mario, Rettore del Santuario e
responsabile della “Fraternità” in Italia, ha voluto che proprio oggi si
svolgesse, durante la celebrazione eucaristica delle ore 18, la consacrazione
di quattro laici a Maria aiuto dei
Cristiani, al termine di un percorso di preparazione iniziato da oltre un anno.
Il principale impegno di questo “Gruppo laicale della F.M.M.” è quello di
pregare per la Fraternità ed è aperto a tutti. Martedì
27 è stata la volta dell’amica Claudia Pugnana a tenere un relazione sulla
devozione mariana nel nostro territorio. Partendo dalla devozione alla
Addolorata del Mirteto, ha tracciato un breve ma esauriente percorso illustrando
le altre immagini o monumenti che possiamo ammirare ad Annunziata, S. Martino,
Nicola, Isola e anche le tante ‘Maestà’ che erano poste in luoghi sempre specifici:
ponti, crocicchi, facciate di case…, che ci ricordano la intensa devozione dei
nostri avi per Maria. E
siamo così all’ultimo appuntamento del mese: la solenne chiusura del mese
mariano. Alle ore 20,30 sono già presenti il Rettore del Seminario, don Franco
col vice-Rettore don Alessandro e quasi tutti i seminaristi; si stanno mettendo
camici e cotte lì in piazza poiché la chiesa parrocchiale è da tempo inagibile.
Quando tutto è pronto, dal Santuario un seminarista con l’altoparlante dà
inizio al Santo Rosario e si parte in processione. Giunti ‘alla Madonna’
troviamo in chiesa il vescovo Bassano che è pronto per dare inizio alla
celebrazione eucaristica. All’omelia il Vescovo ci parla della Vergine
Addolorata ma anche della Ascensione di Gesù, solennità che ricorre domani.
Come sempre ha, poi, belle parole per la nostra comunità “vorrei salutarvi tutti uno per uno”, ci dice; ringrazia i padri
della Fraternità ricordando che fu lui, undici anni fa, ad accompagnarli quassù
e affidare loro questo bel Santuario; e tanti complimenti anche alla corale. Io
non perdo l’occasione, terminata la funzione, di ringraziarlo per le belle
parole che ci invia in merito a questa nostra pubblicazione che legge ed
apprezza. Don Franco invita la nostra comunità ad essere presente giovedì
prossimo nella cappella del seminario per l’ora di adorazione per le vocazioni,
poiché è già un po’ che non ci vede. E così si è concluso questo impegnativo mese
di festeggiamenti. Possiamo ben dire, con giusto orgoglio, che siamo riusciti a
organizzare questo evento in un modo che forse nessuno di noi si sarebbe
aspettato. Abbiamo avuto qui al Santuario ben tre Vescovi, tanti sacerdoti e
tantissimi fedeli; come già detto abbiamo accolto tutti nel miglior modo
possibile; tanti apprezzamenti ha avuto la mostra fotografica che rimarrà
aperta almeno tutto il mese di giugno; interessanti le conferenze e la rassegna
corale. Un grazie particolare a Elio Gentili per i tanti documenti messici a
disposizione, che sono ora, insieme alle tante foto, un prezioso capitale da
conservare. Un
caro saluto e augurio di pronta guarigione invio personalmente e a nome della
comunità al vicario foraneo, don Andrea, ancora in ospedale e ad un altro
grande assente da un po’ di tempo, il can. don Romano Rossi, che era sempre
presente alle nostre feste. Caro don Romano rimettiti presto, qui tutti ti
aspettiamo e ti aspetta anche il “tuo confessionale”!. Un
fraterno e caloroso augurio a tutti i lettori di buone vacanze, “Il Sentiero”
uscirà mese di settembre.
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