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L’incanto di nascere femmina
di M. F. Alieta Serponi
Tu,
donna, sei il tramonto
che
colora il cielo di porpora,
il
cielo di notte ricamato di stelle,
l’alba
radiosa del mattino,
il
cielo azzurro d’un giorno d’estate,
la
sorgente che disseta,
perché
il tuo cuore è pieno d’amore.
Tu,
donna, non sei il tempo che passa,
il
vento che soffia:
sei il
dolce maggio,
una
rosa bianca che sboccia,
il
fiore più bello mai colto,
e non
appassirà all’impeto dei giorni.
Figlia,
moglie, mamma, nonna:
sei
l’incanto di nascere femmina
e di
portare nel proprio grembo
il dono
della Vita.
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Felicità
di M.G. Perroni Lorenzini
Un
tepido micio sul cuore,
un cane
steso ai miei piedi,
il
complice sorriso di chi amo,
l’affetto
oramai quieto di mia madre,
la
vivace dolcezza di mia figlia,
una
casa che ci protegge tutti
immersa
in un paesaggio ancora puro:
forse
sei tutta qui, felicità,
anche
altrove cercata.
Ti
tocco, già trepida
per la
certezza di perderti.
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Le serpi
di Roberto Bologna (1985)
Vivere
all’ombra
di un
giardino spoglio,
dove il
vento raccoglie
le
ultime foglie,
è
vivere lontano dalla vita
che mai
sai cos’è,
se non
quando se ne va
o la
scacci via.
Vivere
seduti
su una
pietra ruvida,
dove le
serpi rubano il sole,
È
vivere assaporando
la
gioia di morire.
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Non piangere, mia terra di Liguria
di Anna Maria De Ghisi
Non
piangere, mia terra,
se ti
grido addio
e con
mani di morte ti saluto,
varcando
la soglia
che
porta all’Infinito.
Non
piangere, mia terra:
mi
vedrai tornare
in
questo regno
che
credevo perduto
e
rimanervi eterno.
Al
tramonto sarò nell’oro
che si
scioglie in mare;
e
quando il mare
cullerà
le sue onde
colme
di sogni luminosi,
io sarò
fra quei sogni.
Sarò
lacrima di stella
e
briciola di luna nel torrente,
mani di
vento in corsa
carezzanti
nuvole bianche
e vele
e voli di gabbiani,
mani
d’aromi pregne
di rose
e salmastro.
Sarò
nei sentieri che
mordon
le colline,
nel
rosso sorriso dei gerani,
nelle
chiome dei vigneti,
nelle
tue uve, negli ulivi,
nell’incenso
dei pini.
Scenderò
nuovamente
fra
pareti smeraldine
tornando
onda lunga
che le
affaticate reti
intride
e piedi nudi.
Tornerò,
Liguria,
per
guardarti con occhi
di
luce.
(Fotografia di Alice Lorenzini)
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La Madonnina del sentiero
di Flora Gianfranceschi
Quando
scorgi d’accanto, o passeggero,
incastonata
là, in quel muricciolo,
la Madonnina
del sentiero,
fermati
almen per un minuto solo
e
dille: “O Madonnina, io ti amo!”.
E’
dolce, sai, parlare alla Madonna,
qui
nella solitudine montana,
qui,
senza marmi e senza una colonna,
mera
semplicità che gnun profana.
Raccogli
un fiore, un filo d’erba, un ramo
per
quell’immagine grande, umile e pia,
e
dille: “O cara Madonnina, io ti amo!”.
Ella
t’assisterà per ogni via
e
il tuo passo svelto e affaticato
avrà
un sostegno,
e
avrai una guida a lato.
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Imparare a capire
di M.G. Perroni Lorenzini (dal libro La casa sepolta, ed. Albatros)
Non
voglio ripensare ai visi cari
sciupati
da passioni, da rancori
e
distorti nell’ira, nel furore…
Acrobati
sul filo della vita,
in
precario equilibrio, le cadute
non le
contai, ma vidi ogni ferita
che, di
riflesso, impressi nel mio cuore
giovane
troppo e fronte di liti annose,
che non
chiedevano che di riscoppiare,
e pieno
solo d’impotente amore.
Ma è
d’obbligo conoscere se stessi:
“gnòthi
seautòn”, l’oracolo mi dice.
Così,
spesso, riaffronto quel cammino
difficile,
insidioso, senza fine.
Non mi
smarrisco solo se ho quel lume
(il
senno guadagnato a poco a poco)
che
rischiara gli anfratti e le paludi,
mostra
le cause prime di ogni errore
e mi
aiuta a capire e perdonare.
CONGEDO
Imparare
a capire per me non è stato facile. E’ un processo che ha richiesto molto
tempo. E non credo di esserci riuscita ancora del tutto. Della mia vita di
bambina, di ragazza e di giovane, poi, non ne ho voluto più sapere. Per lungo
tempo l’ho tenuta sepolta in me, con una pietra sopra, nei recessi più nascosti
della mia anima. Come la mia casa, che pure amavo, ma che mi ricordava troppi
momenti d’angoscia. E così, com’ero fuggita dalla mia casa, ero fuggita anche
da quella mia prima vita: in esilio, qui, a Montepulciano, occupata per circa
vent’anni nella mia nuova casa, nel matrimonio, nella famiglia, nell’insegnamento.
E sull’altra vita, quella di Arcola, gli occhi chiusi e il cuore chiuso.
Tornavo là nelle vacanze e quando se ne presentava la necessità; e lì ogni
volta mi toccava ancora di assistere alla divisione dei miei; e, se pur ormai
marginalmente, anche a quella del paese. Ma io vivevo quei giorni con la
consapevolezza che la mia vita, la vita che avevo saputo realizzare, la mia
vittoria, era altrove. Quelli invece erano i residui, dolorosi ancora e insolubili,
ma residui, dell’antica sconfitta.
Poi tutto si spense con la morte improvvisa di mio padre, seguita da quella
dello zio Giacomino, a tredici giorni di distanza; e con la decisione di
vendere la casa e di far venire mia madre, ormai quasi cieca, da noi a
Montepulciano. Con tale decisione feci forzosamente interrompere anche l’altro
motivo di continui sobbollimenti: la querelle
tra mia madre e zia Elena; querelle che,
appena morto mio padre, era, per il momento, finita nel silenzio e nel gelo. ;
almeno tra loro due direttamente; ma che, rimanendo mia madre ad Arcola,
avrebbe potuto nuovamente riaccendersi.
La lontananza diede a tutti maggior quiete; ed io cercai di evitare ogni
occasione di rinvangare le cose passate. Come ho già detto, però mia madre,
come tutti gli anziani e anche per suo proprio carattere, in quel passato ci
viveva e spesso riapriva quelle ferite. Tuttavia la lontananza dal paese e il
mio atteggiamento volto a farle ricordare le cose belle e passare velocemente
sopra le altre, ci dettero quel tanto di pace che era necessario ad entrambe
per affrontare poi le pene, già vicine e reali, della sua vecchiaia e della sua
malattia; che purtroppo comportarono anche un riaccendersi di tutte le sue
passioni e di tutte le sue nostalgie. Per cui i rapporti con mia madre, da
vecchia e malata, visceralmente immersa nel suo passato, mi ripiombarono in
quel dolorosissimo tempo lontano; tanto che fui costretta e riesumarlo, e
riviverlo in tutta la sua crudezza e in seguito a raccontarlo.
E se dal “voler” ricordare le cose belle era nata La pace delle bambole, un’opera di rievocazione di tutto ciò che il
paese e in parte la famiglia, nei suoi momenti migliori, mi aveva dato di bello
e di buono, era giusto dover parlare anche dell’altro aspetto, quello negativo.
Ed è qui che ho cercato di farlo. Dunque, La
pace delle bambole testimonia le mie
ore più felici. Ne La casa sepolta prevalgono le note più dolorose. L’uno e
l’altro libro insieme rappresentano tutta la mia vita di allora, nel bene e nel
male. Ma in questo mio secondo libro le note cupe sono state rievocate da sole
all’unico fine di provare a capire se quelle persone in quelle condizioni
avrebbero potuto essere diverse, tanto da poter comprendere il male che si
facevano e facevano agli altri; e, in particolare a me, che intanto, però, con
l’aiuto della scuola e dei libri, mi facevo via via diversa da loro, anche
perché volevo esserlo.
Così, ad un certo punto, mi sentii abbastanza forte per le mie realizzazioni,
anche se non tanto da fidarmi a rimanere in quell’ambiente che avrebbe potuto a
poco a poco imbrigliarmi senza che neanche me ne accorgessi e tenermi
prigioniera in quella vita di rancori, di dissidi, di lotte aperte o
sotterranee, ma sempre feroci. E così me ne allontanai. E se dapprima credevo
che la mia fosse solo una precauzione provvisoria, in seguito la decisione
divenne definitiva. Fu una scelta dolorosa, ma obbligata.
Poi ancora più tardi, una volta spenti i riflettori, come alla fine di una
recita, ho meditato, e la poesia Poveri
burattini me lo dimostra, e mi sono impegnata nel trovare la via per poter,
eliminando via via in me ogni possibile residuo di rancore ed entrando sempre
più addentro nel ricordo, anche dove faceva ancora male, imparare a sempre
meglio “capire e perdonare”. Ed ora, a libro terminato, mi sembra di aver
capito. E, soprattutto, e di questo son certa, ho perdonato.
M.G.
Perroni Lorenzini (dal libro La casa
sepolta, ed. Albatros)
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Per il prof. Giuseppe Franciosi
di Maria Angela Albertazzi
Caro Professore, quanti bei ricordi
e quanti insegnamenti ci ha lasciato;
quanto vuoto per la mancanza della sua
figura
socievole e piena di cultura;
quanti libri e poesie ha corretto:
veramente tanti!
Grazie, Professore per la sua comprensione
e per il suo sempre volenteroso aiuto.
Ha lasciato sul nostro “Sentiero”
molte verità e perle di saggezza;
è stata una persona che molti
dovrebbero prendere a modello
per la sua accoglienza sempre cara,
per la tanta pazienza e un’educazione
che ormai è cosa assai rara.
Oltre al lavoro il suo orto amava,
che un buon raccolto le donava;
per lei era un bel passatempo,
almeno così ci raccontava.
Poi arrivò la dura prova:
la morte dell’adorata Giulia.
Grande era il bene che vi legava,
insieme al caro figlio Piergiuseppe.
Quanta gioia nella casa a Quarazzana:
eravate tranquilli e felici,
facevate passeggiate nel bosco
assieme a tanti amici.
Ma, da allora,
ha
vissuto triste e sconcertato,
da cari ricordi e foto
nel suo studio attorniato;
pure sul tavolo dove lavorava,
quante volte al giorno la sospirava,
e quando aveva gente intorno
sempre lei la ricordava.
Poi Piergiuseppe con Barbara s’è sposato
e un po’ di sorriso le è tornato,
son rimasti lì con lei
e non l’hanno mai lasciato.
Ora, caro Professore,
ha smesso di sospirare la beneamata;
ora, in modo diverso, l’ha ritrovata
in un mondo dove la vera pace
non è un’illusione,
guardando sereni parenti e amici
pregando per noi in questo mondo affannati,
aspettando il ritrovarsi tra noi beati.
Allora arrivederci, caro Professore,
uomo dei tempi moderni
ma col cuore rivolto al passato,
con orgoglio e stima
per averlo incontrato.
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