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Amore lontano
di M. Franca Alieta Serponi
E’
sera:
sola
cammino in riva al mare
sui
sassi consumati dal mare
come la
vita ha fatto coi miei giorni.
Seguo
le stelle che luccicano
nel
cielo d’estate;
la voce
del mare in sottofondo
mormora
una dolce canzone d’amore.
Un
gabbiano insonne urla
la sua
gioia di vivere
alla
luna, alla brezza leggera
che
porta sogni e desideri.
O
stelle luminose,
andate
a ritroso nel tempo,
cercate
il mio amore lontano
e
riportatelo a me:
lo
legherò con catene
intrise
di baci,
con
carezze ed abbracci,
e poi,
come in sogno,
salirò
la scala invisibile
che
porta alla luna,
e lì,
nella luce del cielo,
sarà
l’eterna felicità.
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Cred’m, Nicola
di Mario Orlandi
La
corpa la n’è la mia
sa son
scapà:
la
coriera, l’aqua,
la
com’dità d’ogidì
la
manchev’n…
e quest
t’l sé, Nicola.
Studiar
a Carara,
lavorar
a Masa o a Spezia
gh’er
‘n sacrificio groso…
Al so:
te
t’ofriv giogo,
divertiment’
e vita
da secoli,
e me,
come tanti,
a t’ho
abandonà.
Ma,
cred’m, Nicola,
ho
perso
pu ch’a
n’ho guadagnà:
l’amicizia
gh’è solo n’t’la carta,
la
gioia e i dolori
gh’en
come la rogna
che
ognun i s’li grate,
la
festa e i av’nimenti,
i
scor’n veloci
e senza
scosa…
A son
scapà
con ‘na
scusa,
mo
arvegn da te
con
cento e mil motivi
chi
rend’n omi i omi,
amici i
amici,
vera la
v’rità…
Arvegn
da te
e a
port tanti amici,
tanti
amici to, VERI,
p’r
stimolar la modernità
r’sp’tand
la storia,
quela
vera e sana,
ch’là
t’ha visto
grando
fra i grandi,
onorà e
r’sp’tà
p’r la
parola
che ‘na
vota dà
t’ sav
r’sp’tare.
Me,
come tanti tu figh’oli,
a son
un che la parola
i la
manten
p’r
v’derte arfiorire
e viv’r
fra i grandi,
p’rché…
a scian sta
e a scian
con te: a scian Nicolesi.
CREDIMI,
NICOLA – La colpa non è mia se sono scappato: la corriera, l’acqua, le comodità
d’oggidì mancavano… e questo tu lo sai, Nicola. Studiare a Carrara, lavorare a Massa o a
Spezia era un sacrificio grosso… Lo so: tu offrivi gioco, divertimento e vita
da secoli, e io, come tanti, ti ho abbandonato. Ma, credimi, Nicola, ho perduto
più che non ho guadagnato: l’amicizia è solo nella carta, le gioie e i dolori
sono come la rogna che ognuno se la gratta, le feste e gli avvenimenti scorrono
veloci e senza scosse. Sono scappato con una scusa, adesso ritorno da te con
cento e mille motivi che rendono uomini gli uomini, amici gli amici, vera la
verità… Ritorno da te e porto tanti amici, tanti amici tuoi, veri, per
stimolare modernità rispettando la storia, quella vera e sana, che ti ha visto
grande fra i grandi, onorato e rispettato per la parola che una volta data,
sapevi rispettare. Io, come tanti tuoi figli, sono uno che la parola la
mantiene per vederti rifiorire e vivere fra i grandi, perché… grandi siamo
stati e siamo con te: siamo Nicolesi.
Con questa bella e struggente
dichiarazione al suo paese natale concludiamo la pubblicazione delle poesie
dell’amico Mario, tratte dal libro Pane
per la memoria. Chi lo volesse lo può trovare nelle cartolerie del nostro
territorio o richiederlo direttamente all’Autore.
La Redazione ringrazia sentitamente Mario e
lo invita a “passarci”, se vuole, qualche altra poesia.
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Parole mancate
di Roberto Bologna (1985)
Le
parole mancate
al
momento giusto
un
giorno mi saranno facili.
Mi
usciranno dalla bocca
Senza
paura,
e come
onde
d’un
mare in burrasca
si
frantumeranno sugli scogli.
Un
ragazzo in costume
in
cerca di conchiglie
troverà
un amore sulla sabbia,
e non
capirà.
Mi
uscirà dalla bocca
un
sorriso maturo
e dagli
occhi
una
lacrima in silenzio,
e, come
pioggia
in un
giorno di primavera,
cadrà
su un fiore.
Un
ragazzo a piedi nudi
in
cerca di lumache
troverà
un dolore nel giardino
e
condannerà
una vespa
innocente.
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UN MISTERIOSO BURATTINAIO
di Maria Giovanna Perroni Lorenzini (da La casa sepolta, ed. Albatros)
Poveri burattini
Poveri
burattini appesi ai fili!
Che
botte che vi date e con qual foga!
Che
passioni mostrate e che furori!
Sembra
che odi e amori siano veri,
forse,
a voi stessi che li recitate.
Ma
altro è il desiderio che vi muove
e che
vi scaglia gli uni agli altri addosso:
è
impazienza del laccio che vi serra;
è
voglia d’esser iberi un istante
da quel
destino impostovi dall’alto,
piccoli
mimi di un copione trito,
che da
millenni è ripetuto e noto.
Ed
intanto il padrone, tutto lieto
dell’applauso,
sogghigna e i soldi intasca;
e voi,
laceri e pesti, insieme ammucchia.
Mia madre è rimasta per me un enigma:
non sono infatti mai riuscita a capire come, con tante doti (aveva ad esempio
decoro, fondamentale onestà, mancanza di invidia, disinteresse verso il denaro,
capacità di sacrificarsi non solo per i suoi cari, ma anche per persone o
animali che avessero bisogno di lei) non fosse poi capace un comportamento più
riservato nei confronti delle intimità delle persone che erano suoi famigliari,
verso le quali, ad ogni minima mancanza, diveniva subito icastica e pungente.
Forse l’errore stava proprio nel suo dare tanto; e siccome tanto dava,
altrettanto pretendeva. Ma il suo dare tanto dipendeva forse da passionale
attaccamento di bambina, che non da quel sentimento di persona adulta, che ama,
ma di un’amicizia razionale e controllata, come quella di cui tanto bene parla
Cicerone nel suo De amicitia. Il
fatto è che la saggezza di questo tipo di affetto le era sconosciuta. I suoi,
più che amicizie, furono amori violenti e irrazionali, come si possono avere
nell’adolescenza. E infatti più o meno a quell’età lei si era fermata. Non
aveva voluto crescere oltre, non aveva accettato la sua età adulta. Spesso, da
vecchia, diceva che dentro si sentiva
ancora un’adolescente. E in realtà lo era; capricci e tutto. In qualche modo era questo
l’atteggiamento che più la rendeva simile a suo fratello, lo zio Mino. Diverso
il sesso e quindi la vita, le esperienze, il comportamento. Ma in sostanza
entrambi continuarono fino alla vecchiaia a vivere come due bambini, o, al
massimo, come due adolescenti. Sono però convinta anche che, sia pure solo
sotto certi aspetti, e nonostante l’evidente serietà nel lavoro e in altri
campi, un po’ adolescente era rimasto anche mio padre. Ed io, che adolescente
ero veramente, già allora mi sforzavo di scoprire quale o quali potessero
essere state le cause di tale evidente interruzione nella crescita di tutti
loro. Importante fu certamente il fatto che non si aiutarono a maturare
minimamente per mezzo degli studi. Mio padre lo fece, ma solo troppo tardi e,
anche se già vecchio, ne ebbe sicuro giovamento. Nella poesia sopra riportata parlo
di burattini. Quando l’ho composta, stavo appunto pensando ai miei e alle loro
lotte. Il paragone potrebbe sembrare irriverente, anche se in quel momento io
non li vedevo come inerti marionette dei teatrini da bambini o pupi siciliani;
ma avevo in mente i burattini di Mangiafoco nella favola di Pinocchio;
burattini incapaci di movimento autonomo, ma senzienti e parlanti, umani cioè
in tutto il resto. E il burattinaio? A lui non riconoscevo nemmeno l’umanità di
Mangiafoco, che nasconde dietro l’aspetto terribile un cuore addirittura troppo
sensibile; ma di lui, ora, non saprei dire esattamente di chi o di che cosa sia
la personificazione: questo è un compito superiore alle mie forze. E’ il fato
cieco, inesorabile, il solito diavolo che ci ha messo la coda? Forse sì, se si
pensa ai terribili fatti di quell’epoca tragica. E’ la personificazione di
un’educazione rigida e austera, che servì solo a plagiare gli individui più
deboli, come mia madre e forse anche mio padre; oppure li indusse a una vana
ribellione, la quale esaurì le loro forze, contro dei pregiudizi inculcati come
verità indiscutibili, come credo sia accaduto per zio Mino? E’ possibile. O è
la punizione, legittima, della storia, che si riversava, oltre che sui miei, su
tutta una classe che, vinta dagli eventi, non sapeva fare altro se non tenersi
attaccata alle rovine del crollo, senza minimamente adattarsi ai cambiamenti?
Sembra vero anche questo. Forse queste ragioni sono valide tutte; e sono state
da me, poeta, concentrate nella figura di quel burattinaio. Forse ne esistono
anche altre di ragioni, che io non so individuare chiaramente; ma ricordo bene,
quando scrissi quella poesia, il burattinaio colpevole al posto dei burattini,
era vivo e presente innanzi a me, lo conoscevo bene, e non avevo alcun dubbio
su chi o che cosa potesse mai essere.
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Signore, ascoltami
di Marisa Lisia
Perché, o Signore mio,
questa mia prepotente giovinezza
rimane ancora in me
ormai vegliarda
e forse inadeguata?
Mutilate le mie ali
agisce in me potenza.
Fammi custode dei tuoi
silenziosi richiami
e fammi essere
una tenue sorgente di luce
per i miei fratelli più piccoli.
L’anima mia cerca
l’anima tua, Signore,
e sul tuo cuore
il mio cuore, pago,
tace,
in accorato ascolto.
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