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ARIA DI NATALE
di Rosanna G.
La magia della notte di Natale
si diffonde nel cielo
sulla terra e nel mare;
corre da nord a sud
da est a ovest.
Nell’aria tersa le stelle brillano più che mai
per aiutarci a trovare la strada
della semplicità
della sapienza
della poesia.
la terra freme nell’attesa del mistero,
tutti corrono, i sorrisi affondano,
i cuori esultano.
Nel mare, al riparo delle rocce,
miriadi di pesciolini argentati
corrono indaffarati
prendono dal corallo un alberello
da addobbare
chiedono alle conchiglie di madreperla
e alle meduse luminose di illuminarlo
con le loro inflorescenze,
ai moscardini bianchi di sostenere
sulla cima
una rossa stella marina,
alle ostriche di offrir le perle,
ai delfini di cantare.
I datteri di mare ammiccano
dalle loro finestrelle rocciose e
la murena severa
tiene lontano gli intrusi.
La notte di Natale
tutto il mare vive
e il Bambino Divino…sorride.
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La crescente solitudine
di M.G. Perroni Lorenzini
Ricordo
bifronte
Nel
sole, nel chiasso festoso,
percorro
il mio fresco paese:
ritrovo
i compagni d’un tempo,
nel
gioco.
Io amo
il mio verde paese!
Ma,
ecco che è duro, severo,
s’abbuia
il mio vecchio paese:
perduti
i compagni d’un tempo;
rinchiusa.
Io odio
il mio triste paese!
Lo amo,
lo odio, il paese?
Finché fui alle elementari e
un poco ancora alle medie inferiori, la situazione in famiglia, pur già
compromessa e precaria, mi permise di vivere anche dei giorni lieti e
spensierati. E poi avevo parte della mia vita e molte amicizie fuori casa,
amicizie che fortunatamente nessuno contrastava. Dai ricordi di quegli anni ho
in seguito tratto l’ispirazione per i racconti più luminosi e sereni del mio
primo libro di prosa. Il paese mi offriva i suoi semplici divertimenti, come le
fiere e le pésche di beneficenza; in esso non avevo difficoltà a trovare
compagne e compagni che soddisfacessero il mio cuore; inoltre mi concedeva una
certa libertà di movimento. Già allora, però, mi
accorgevo che i miei famigliari, troppo presi da altro, mi lasciavano presso
che sola nei miei piccoli divertimenti; per esempio, se d’estate volevo andare
al mare, dovevo accodarmi a famiglie di conoscenti. Mi si scoraggiava, inoltre,
a che portassi amici in casa. La quale, in verità era poco adatta per ospitare
bambini. Ed ero io a recarmi nelle abitazioni di chi possedeva un giardino;
oppure negli spazi comuni a tutti. Al cinematografo del paese mi ci conduceva
talvolta zio Mino; anche se lo decideva all’improvviso e quando era disposto
lui. E i suoi gusti erano già allora molto differenti dai miei. Ad esempio io
non potevo soffrire la “comiche”; lui le adorava. Ma la situazione peggiorò a
mano a mano che crescevo. E la mia libertà diminuì di colpo, appena non fui più
bambina. Tutti i miei famigliari, infatti, avevano nei confronti della libertà
delle fanciulle un concetto a dir poco ottocentesco. E mia madre pur di
accontentare il mio desiderio di un vestitino, affrontava pesanti discussioni e
talvolta litigi veri e propri, a proposito del concedermi qualche libertà, era
la più severa di tutti. Lei, infatti, presto orfana di padre, era stata educata
secondo i criteri del nonno; ed era rimasta sotto una stretta tutela fino al
matrimonio. E così intendeva fare anche per me. E non serviva che accennassi
cautamente al fatto che i tempi erano mutati e che io tramite lo studio avevo
raggiunto una maturità che credevo degna di qualche fiducia. Così la mia
libertà si ridusse drasticamente e, si può dire, da un giorno all’altro. E
intanto perdevo anche le amiche del paese o, per lo meno, la possibilità di
frequentarle.; perché, grazie al miracolo economico, i loro genitori comprarono
presto l’automobile e la domenica e nelle vacanze portavano le figlie in gita o
al mare; mentre io non potevo più accodarmi a loro come quando si viaggiava
tutti in corriera. Ma anche altri svaghi culturali mi erano preclusi. Ad
esempio, soprattutto per motivi economici, non potei mai partecipare alle gite
scolastiche a pagamento che si svolgevano in genere nelle vacanze pasquali. Il dover fare tutte queste
rinunce (film, libri, gite, frequentazioni di amiche) e proprio nel periodo
della crisi adolescenziale, mi rendeva spesso malinconica e talvolta
insofferente. Ma in casa non si sopportava il mio minimo malumore; fu in quegli
anni, infatti, che mi fu appioppato l’epiteto di “spirito di contraddizione”; e
poi un mio broncio, anche piccolo, poteva bastare a suscitare discussioni a non
finire o a innescare addirittura una lite.
Per cui non mi restava che ingoiare la noia e il tedioso pomeriggio
domenicale da passare in solitudine e sparir mene, con un libro in mano,
lontano dai soliti discorsi di mamma e di nonna, le uniche che restavano in
casa; discorsi che molto spesso erano solo rimugina menti sull’ultima lite. Intanto anche il mio modo di
considerare il paese, che pure amavo, cambiò. E nonostante che la tragica
divisione politica del primo dopoguerra avesse pin piano perduto le sue punte
più estreme, e fosse ormai meno appariscente, tuttavia continuava; e io non ero
più così bambina da non accorgermi che nella mia amata corriera di Calevo,
certe persone evitavano di sedersi vicine; e non potevo più illudermi di
abitare in un paese felice. E a ricordarmelo, poi, oltre la mia famiglia,
c’erano altre persone colpite nel profondo, che non potevano e non volevano
dimenticare. E per loro ogni pretesto era buono per far scoppiare nelle vie del
paese una lite a cui io talvolta dovevo assistere. I miei famigliari, poi,
erano tra i più irriducibili a non voler dimenticare. Sarebbe mai cambiato niente?
In certi momenti credevo di no. Ed allora temevo che tutto sarebbe continuato
così per sempre.
(da La casa sepolta, ed. Albatros)
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Part Gh’irò
di Mario Orlandi
“Part
Gh’irò” i gave la cà
al
cordon d’Archimé:
da lì i
partive a pé zopé,
r’mbalzand
su ‘n t’n pé,
con la
man alungà
p’r
tocar carcun
chi
div’ntev su figh’olo.
I n’
podev cambiar pé
p’r non pigh’ar d’la bota
e tuti
i gh’ stev’n ntorno,
a
distanza giusta,
p’r non
fars tocare.
Si tochev
carcun
b’sognev
rientrar a la cà
caminand
svelti coi do pé
‘nseguì
da tanta man alzà,
pronta
a pistare.
Part
Gh’irò col su figh’olo:
i do, a
pé zopé e la man alungà,
i
c’rchev’n altri figh’oli,
f’rmand’s
‘n po’ d’ tanto ‘n tanto
p’r
arposar la gamba.
‘L
giogo gh’er interesante
quand
Part Gh’irò con tuti i su figh’oli:
la pià
gh’er tuta ‘n r’mbalzar
e
alungar d’ man
e i
poghi armasti lib’ri
i
c’rchev’n d’ girar larghi
e d’
far posar ‘l pé p’r tera,
coscì
da dar di patach’on.
( da Pane per la memoria )
PARTE
GH’IRO’ – Parte Ghirò aveva la casa al cordolo di Archimede*: da lì partiva a
pié zoppo, rimbalzando su un piede, con la mano allungata per toccare qualcuno
che diventava suo figlio. Non poteva cambiare piede per non prendere delle
botte, e tutti gli stavano attorno, a distanza giusta, per non farsi toccare.
Se toccava qualcuno bisognava rientrare alla casa camminando svelti coi due
piedi, inseguiti da tante mani alzate, pronte a picchiare. Parte Ghirò col suo
figliolo: i due, a pié zoppo e la mano allungata, cercavano altri figlioli,
fermandosi un po’, di tanto in tanto, per riposare la gamba. Il gioco era
interessante quando parte Ghirò con tutti i suoi figlioli: la piazza era tutta
un rimbalzare e allungare di mani, e i pochi rimasti liberi cercavano di girare
larghi e di far posare il piede a terra, così da dare delle manate.
*Archimede
Cipollini, già sarto del paese e del circondario, era celebre per eseguire
lavori senza le rituali “misure”. Affermava: “Ti ho visto in piazza: ti ho
incontrato al piano…”. E tutto disponendo di un occhio solo.
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Paura
di Roberto Bologna (1985)
Lascio
cadere la notte
sul
triste giorno,
e di
nuovo la paura del sole,
di
quello che mi sta intorno,
e
rifiuto la vera vita;
ripudio
le parole
che mi
dicon ch’è finita.
La paura d’amare mi assale:
a tal
pensiero il cuor mi duole.
Ed è
allora che l’amore fa male.
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Al mattino
di Sergio Marchi
Grazie,
o Signore,
per
avermi permesso,
anche
oggi,
di
poter aprire gli occhi
alla
luce del giorno che viene.
Sia
fatta la tua volontà se,
nel tuo
volere imperscrutabile,
deciderai
che io
non veda il tramonto,
poiché
mi hai già concesso
di vivere
più a lungo
di
persone che mi erano care.
Grazie
per la forza
di
alzarmi da questo giaciglio,
per il
cibo che me lo consente
e per
le gioie della vita,
e
scusami
per la
quotidiana ingratitudine
di non
riconoscerle,
quando
ci sono.
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Auguri a Natale
di Paolo Bassani
Buon
Natale a tutti, ad ognuno:
alla
città, ai paesi,
ai
bambini, agli anziani,
a chi
nella serenità raccolta
adagia
il suo desiderio di pace,
e a
chi, anche oggi, è costretto al lavoro.
Buon
Natale a chi è nell’ombra,
piegato
dal dolore
e
avvilito dalla solitudine:
non
suoni come vuota parola,
sia,
invece, l’augurio d’una speranza.
Buon
Natale a te, che negli anni
hai
perduto l’entusiasmo d’un tempo;
a te,
che oltre l’albero e il vischio
ricerchi
il vero valore alla festa.
“Andiamo
incontro alla solitudine;
aggiungiamo
un piatto e una sedia;
lasciamo
socchiuso l’uscio.
Nessuno
sia solo a Natale!”.
E tu, e
noi, finalmente,
dalle
note d’un canto di bimbi,
sentiremo
nell’animo infusa
quella
pace profonda d’un tempo;
nello
splendido sguardo innocente,
troveremo
riflessa la stella:
la luce
dell’antico Natale.
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