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Farina ed Amore
di Rosanna G.
E’ ancora viva l’immagine di mia madre
impegnata a preparare la pasta , impastando con energia sull’asse di legno,
lavorando farina ed acqua a lungo, fino ad ottenere un impasto morbido e
liscio; poi tirava la sfoglia con il mattarello, quindi la arrotolava e
tagliava a mano le fettuccine tutte uguali, oppure a seconda la voglia del
momento, la tagliava a forma di losanga per ricavarne delle lasagne. Certe sere d’inverno, con farina, acqua e
poco olio d’oliva, preparava le focaccine e le cuoceva sopra i cerchi di ghisa
roventi della stufa a legna. Poi ricordo la farina di granturco colore
giallo oro che scendeva come pioggia leggera nell’acqua bollente, leggera come
la pioggia d’oro che scese su Danae per fecondarla. Ho imparato presto a conoscere le farine,
quelle più adatte ad ogni ricetta. La farina di grano duro, la farina di
grano tenero, quella più leggera, più soffice. Farina per pasta, per pane, per dolci, per
ogni uso. I miei bambini amavano tanto guardare e
partecipare all’impasto, ognuno di loro voleva un pochino di pasta e poi , con
le loro manine, frugavano nella farina, e, immancabilmente, s’infarinavano come
i panettieri. Era un gioco magnifico per loro, le mani
nella pasta, con cui creavano i biscotti, o la torta o la pasta o gli gnocchi,
crescendo con l’amore per quei sapori inconfondibili. Una storia che non finirà con noi, quella
meravigliosa della farina, che crea ancora e sempre momenti d’armonia tra
diverse generazioni. I miei bimbi ora sono adulti e non giocano
più con la pasta, ma i miei nipotini, con il loro entusiasmo mi riportano
indietro nel tempo, corrono intorno a me ridendo
felici, giocando con la pasta, tentando di tirare la sfoglia con un piccolo
mattarello, guardandomi ed imitando quei movimenti antichi che rendono la
sfoglia rotonda e sottile.Non smettono questo magnifico gioco fino a quando non
sono meravigliosamente infarinati e gioiosi. Questi momenti rimarranno indelebili nei
loro ricordi, momenti d’amore ,d’amore e farina.
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Il giorno della memoria
di Angelo Brizzi
Come è potuto accadere? Com’è accaduto
in quella e in altre parti del mondo, e come accade – ahimé – ancora oggi che
l’odio induca alla strage, che l’uomo sia lupo per l’uomo… “…Vado ansioso verso il fiume, i piedi scivolano sull’erba. Abbraccio con
lo sguardo il fiume che si apre davanti a me, dal ponte in ferro fino al
promontorio là in fondo dove, proprio sulla riva, è adagiato il paese. L’altra
sponda è nera d’ombre, faggi, pioppi, e dei cespugli formano un boschetto
impenetrabile. Scendo la riva di corsa bilanciandomi a fatica, gli zoccoli
sbatacchiano sui ciottoli e nelle pozzanghere. Mi avvicino all’acqua
pregustandone la frescura. Ho tutto un fiume per pulirmi. Striglierò via il
catrame con forza, da staccarmi la pelle. Scendo l’argine, mi aiuto con le mani
aggrappandomi agli sterpi. Guardo il Danubio, un’angosciosa sorpresa mi fredda
l’entusiasmo. L’acqua è fangosa e la riva di melma, chiazze rossastre e detriti
di ogni sorta accompagnano carogne di cavalli e cadaveri dilaniati. Si
rigirano, si urtano, si appaiano travolti dalla violenta corrente, in una danza
macabra. Tento di capire. Il fiume trasporta ancora i rifiuti dell’ultima
battaglia. È’ una visione ripugnante. Mi ritraggo dall’acqua inorridito; volto
la testa per non vedere; cammino verso la riva deluso, attento agli sterpi,
alle pietre e alle latte arrugginite. Davanti a me, incagliato fra le erbe e le
canne, c’è un mostro. E’ enorme. Ha le mascelle spalancate in una smorfia
oscena; gli occhi sbarrati senza ciglia, una faccia sfigurata da demone. Era uno della Gestapo; il livore della pelle si intona
alla divisa. Il lezzo del mostro mi prende allo stomaco, è puzza d’inferno,
zolfo e rabbia cieca. Premuto dal fiume contro l’ostacolo, il mostro s’incurva, si solleva e si svincola; i
gorghi lo spingono di nuovo verso oriente, verso le terre che ha calpestato da
vivo. Gira in tondo e sprofonda secondo il capriccio della corrente come un
burattino. Andrà ad annunciare alle genti del fiume che la farsa disumana è finita. Il Danubio è stato testimone della tragica farsa delle
deportazioni. Ha visto spingere intere popolazioni dalle loro terre verso
l’ignoto, colonne e colonne di bambini, vecchi, donne, risalire controcorrente
le strade che lo costeggiano. Ha assistito al massacro di quelli che non
riuscivano a seguire il ritmo della marcia infernale imposto dai demoni…”.
Tratto da “Tu passerai per il
camino. Vita e morte a Mauthausen” di Vincenzo Pappalettera.
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Giulio il boscaiolo
di Marco Bernardini
La casetta di
montagna, a oltre mille metri di altezza,
si trova nel più piccolo e più alto comune delle Marche: Bolognola, a
oltre cento chilometri da Ancona. Là sorgono
i Monti Sibillini, vanto dell’alto maceratese. Queste suggestive montagne si raccolgono e si
allungano per chilometri, in una magnifica cordigliera che si colloca oltre i
2000 metri, attraversando tre province.
La visione è suggestiva: frassini, faggi ed aceri si susseguono in un
intreccio compatto, svettando verso l’alto, lasciando ben presto posto a
piccoli arbusti e radure verdi che a
loro volta cedono, su in alto, alle rocce molto spesso ammantate di neve. Il piccolo
paese, punto d’attacco per i percorsi in quota,
nell’arco dell’anno presenta un’insidia che va fronteggiata in modo
attento e calcolato: il freddo. Ma io non ho problemi perché c’è Giulio. Giulio
è il boscaiolo, quasi ottantenne, che vive lassù assieme al suo gregge. Uomo
burbero, di poche parole, di gran cuore. E’
lui che mi assicura la legna per il camino. Col tempo siamo diventati
amici e con lui ho imparato ad usare il linguaggio stringato ed essenziale dei
montanari. Ci diamo del “tu” come si conviene tra gente di montagna anche se lui tradisce
una piccola vena di riguardo nei miei confronti perché mi chiama “ingegnè”. In un
tardo pomeriggio, mentre passeggio
nella piazzetta del paese, incontro Giulio. Mi accorgo che zoppica. Lo
vedo molto triste ed avvilito. Mi fermo e gli chiedo come sta. Mi dice sconsolato: “Mi fa
male la spina dorsale, non riesco più
a camminare. Ho fatto le radiografie ma nessuno mi dice che fare. Mi hanno
detto di prendere queste pillole e basta”. Mi accorgo che sono medicinali efficaci ma
anche pericolosi se non opportunamente dosati. Mi stupisce e mi rattrista vedere
come Giulio sia praticamente abbandonato a se stesso. Nessuno si occupa di lui. Ritorno a casa e parlo con Mimma. Questa cosa ci martella in testa. Sento che
dobbiamo fare qualcosa per lui. Una piccola pausa e tutto diventa chiaro. Esco
nuovamente e ritorno da lui. Gli chiedo di darmi le certificazioni mediche che possiede e le prescrizioni
ricevute, perché vogliamo interessarci della questione giù, in Ancona. Nel
salutarlo gli dico: “Adesso Giulio tu stai sereno e non
preoccuparti, perché pensiamo noi a te”. Rimane
sorpreso. Non sa cosa dire. Mi guarda con gli occhi spalancati dove
leggo fiducia, un poco di commozione, ma soprattutto stupore. Quasi imbarazzato
aggiunge: “Grazie, ingegnè”. Rientrando
in città consultiamo un ortopedico di fama, nostro amico, non credente, al
quale mi sono già rivolto per situazioni analoghe… “Ma
chi è questo Giulio?”
mi chiede. “Un
montanaro quasi analfabeta, un nostro amico” dico io. “Bisogna
aiutarlo”. “
Ho capito”- dice
sornione - “una delle tue diavolerie. Va bene vediamo”. Esamina il
materiale, ma non capisce. Le radiografie non giustificano a sufficienza quello
che io ho visto mentre camminava e inoltre sono insufficienti. “Me
lo devi portare qui. Devo vederlo”. Si fa
presto a dire. Telefono
lassù, in montagna, lo informo di tutto. Giulio è silenzioso e impacciato,
sicuramente disorientato. Allora
aggiungo: “Ti vengo a prendere”. E’ commosso. Lo
specialista lo visita e si rende conto che non si tratta della spina dorsale ma
dell’anca. Una brutta anca. “Bisogna operare in fretta, caro Giulio”, gli dice. Lui non guarda il
medico, guarda me. E’ spaventato. Io gli sorrido e gli faccio un cenno di
assenso con la testa. Allora, rassegnato, si rivolge al medico: “Va bene,
dottò”. Giulio
viene operato. Lo specialista, uscendo dalla sala operatoria, prontamente mi
chiama al cellulare per dirmi: “Tutto bene, Marco; anzi già che c’ero gli ho
anche allungato la gamba di due centimetri”. Sono
andato a trovarlo in ospedale qualche giorno dopo. Lui mi aspettava. Era felice. Mai visto così
sereno. Era già in piedi. Ma questa volta non mi ha detto grazie ingegnè.
Mi ha tirato verso di lui e con gli
occhi che luccicavano, senza parlare e quasi tremando, mi ha dato un bacio.
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La mia seconda volta in Terrasanta
di Giuliana Rossini
Se qualcuno, qualche anno fa, mi
avesse detto che avrei visitato due volte Gerusalemme nel giro di due anni,
avrei pensato di essere di fronte alle farneticazioni di un pazzo. Invece è
stato proprio così! Certo, l’escursione turistica di quest’anno, della durata
di un giorno, non ha nulla a che vedere con il pellegrinaggio in Terrasanta di
un anno fa che, posso affermarlo in assoluta tranquillità, è stato il più bel
viaggio della mia vita. In realtà si è trattato di un vero e proprio incontro
con la persona di Gesù che si faceva sempre più intenso e significativo man
mano che ripercorrevamo le sue orme: dalla Galilea, al Giordano, alla Samaria e
giù fino alla Giudea. Pareva di vederLo mentre camminava sulle acque dorate del
lago di Tiberiade o percorreva sentieri polverosi in lungo e in largo compiendo
miracoli e conquistando i cuori della gente, affascinandoli con lo sguardo
penetrante e la parola sicura e facendo loro sperimentare l’amore del Padre. E tuttavia, anche questa volta,
l’emozione di tornare nella Città Santa è stata tantissima: lì è incominciato
tutto, lì Gesù ci ha amato fino alla fine, fino a dare la sua vita per noi e la
sua Resurrezione ha dato senso ad ogni cosa, ci ha resi certi che tutto quello
che ci aveva detto è vero: Egli è veramente il Figlio di Dio! Questa gioia,
questa certezza, però, era come offuscata da un profondo dolore. Come mi era
già capitato di sottolineare l’anno scorso, è stato forte il dispiacere nel
costatare, ancora una volta, che proprio là, dove Gesù aveva chiesto con
insistenza al Padre l’unità fra tutti, in quello che può essere definito il suo
testamento spirituale (Gv. 17,20-23), regni una profonda disunità che ferisce,
perché contraria ai suoi insegnamenti; Egli, infatti, ci ha insegnato ad amarci
come Lui ci ha amato, ad essere un’unica famiglia, figli di un unico Padre e
perciò fratelli. Eppure… eppure la certezza che il
bene è più forte del male non mi abbandonava. Mi frullava insistentemente nella
testa l’arcinoto detto che afferma che fa più rumore un albero che cade di una
foresta che cresce. E così mi venivano in mente le tante buone notizie che mi
avevano riscaldato il cuore e cioè che in ogni parte del mondo (anche a
Gerusalemme) tante persone di buona volontà si prodigano perché la pace e la
fratellanza abbiano il sopravvento sull’odio e le divisioni. “Let’s bridge”,
costruiamo ponti (invece che innalzare muri), è il motto di un nutrito numero
di giovani che in tutto il mondo si impegna a vedere nell’altro un fratello. Perché
sì, naturalmente sono molto importanti le tavole rotonde dove i rappresentanti
delle varie religioni o confessioni religiose si incontrano cercando di trovare
e valorizzare ciò che unisce nel rispetto reciproco, ma molto di più lo è
l’unità di base fra la gente comune, a cominciare dalle famiglie, la conoscenza
e l’accoglienza dell’altro che ci sta a fianco a prescindere dalle sue
convinzioni religiose, idee e abitudini. Così mi riempie il cuore di gioia la
notizia che proprio a Gerusalemme (ma avviene anche altrove) esistono delle
cooperative dove donne ebree, cristiane e musulmane lavorano fianco a fianco,
superando le reciproche diffidenze e costruendo positive relazioni fra loro.
Oppure sapere che viene favorita la reciproca conoscenza fra ragazzi delle tre
grandi religioni, dando loro la possibilità di incontrarsi nelle università,
superando le differenze, per costruire un mondo migliore. Nemmeno mi è
sconosciuto l’eroismo di chi rimane, senza fuggire, nei luoghi dove infuriano
le guerre, rischiando di ingrossare le fila dei numerosi martiri cristiani del
nostro tempo, per aiutare chi è nel bisogno, testimoniando così l’amore di
Cristo, e di chi accoglie i numerosissimi profughi che fuggono disperati dalle
loro terre, con mille bisogni e desiderio di incontrare persone amiche. Concludo dicendo come tutti possiamo
partecipare a questo grande progetto di pace almeno con la preghiera:
sull’altare della nostra chiesetta di San Giuseppe è accesa una piccola lampada
a forma di colomba, proveniente da Gerusalemme. Assieme a numerosissime altre
sta a ricordare l’ansia di migliaia di parrocchie, sparse su tutta la terra,
per il raggiungimento della pace e della fraternità nel mondo.
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Un ricordo di Gino Andreani
di Enzo Mazzini
L’11 novembre Gino Andreani ha lasciato questo mondo per volare in mezzo agli angeli. Io ho appreso la
notizia dai manifesti funebri e sono rimasto molto male perché mi risultava che
stesse abbastanza bene e nulla faceva presagire che se ne sarebbe andato per
sempre. Gino era nato il 7 novembre
1914 e quindi era in procinto di tagliare il traguardo dei 100 anni; quindi
dobbiamo ringraziare il buon Dio per avergli concesso tanti anni da dedicare
alla sua meravigliosa famiglia ed anche a noi tutti. Nella sua vita è stato un
grande lavoratore. Ha infatti lavorato per 20 anni presso la
"Miniera" di Castelnuovo Magra e successivamente presso la ditta AGA
di Avenza, dedita alla costruzione di lavatrici. Ma la sua grande passione è
sempre stata l'agricoltura e in questo mi assomigliava molto. Infatti io lo ricordo
come viticoltore ed olivicoltore. Lui era anche molto amico di mio suocero che
volontariamente aiutava gli olivicoltori a presentare le domande per ottenere i
contributi da parte dello Stato. Ebbene, io rammento ancora le ore trascorse
con lui quando veniva da mio suocero ed anche quando usciva dalla chiesa dopo
aver partecipato alla celebrazione della Santa Messa. In quelle occasioni Gino
mi riferiva della sua grande passione per l'olivicoltura. In effetti aveva
ragione ad andarne orgoglioso: i suoi olivi erano infatti delle piante
meravigliose che suscitavano invidia. Evidentemente quelle piante si sentivano
amate e contraccambiavano con tutte le loro forze. Ma Gino ci teneva anche a ricordare i grandi
sacrifici ai quali si era sottoposto durante la seconda guerra mondiale.
Infatti era orgoglioso di aver dedicato ben cinque anni della sua vita alla
Patria, partecipando ad importanti imprese belliche, fra cui la famosa eroica battaglia
di El Alamein nella quale l'esercito italiano, nel 1942, si scontrò con
l'esercito britannico. Lui era paracadutista della gloriosa Divisione Folgore
che lasciò sul campo ben 5.200 soldati italiani. Gino combatté con tutte le sue
forze, riportando anche gravi ferite per le quali venne riconosciuto invalido
di guerra. È per tutti questi motivi
che molti cittadini hanno voluto partecipare ai suoi funerali, officiati nella
chiesa di San Martino e concelebrati da padre Gabriel, don Bernardo Scusa, cappellano
dell'ospedale di Carrara, ed il diacono Agostino. Il popolo ha voluto che la
Messa fosse solenne, accompagnata da bellissimi canti sacri. Nardino Grassi era presente con il
gonfalone dell' Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra ed ha
recitato la preghiera del Mutilato di guerra che di seguito riporto
integralmente: "Noi, Mutilati e Invalidi di Guerra, con umiltà, Signore, Ti preghiamo: fa’
che nessuno dimentichi il nostro sacrificio, di amore e di dedizione alla
Patria, monito operante per la eliminazione delle Guerre, auspicio per le
pacifiche relazioni tra i popoli; alimenta
in noi, invalidi di Guerra, pur nell'orgoglio e nella fierezza del dovere
compiuto, il sentimento della fratellanza e dell'amore per la libertà; rafforza
la coscienza civile e democratica degli Italiani al fine di operare per la
cooperazione, la distensione internazionale e la difesa della Pace; fa’,
o Signore, che i nostri fratelli, che abbiamo lasciato sui campi di battaglia e
negli abissi, o nei luoghi di prigionia, non siano dimenticati ma che il loro
spirito viva sempre tra noi per comunicarci quella certezza che fu loro: di non
essere morti invano; benedici,
o Signore, tutti coloro che ci stanno vicino e che con affetto e la loro
trepidazione dividono con noi le sofferenze delle nostre invalidità. Così
sia".
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Anna e la scienza
di Marta
Gennaio
si presentava con il suo più crudo clima. Lo sentivano gli uccelli e gli altri
animali che se ne stavano rintanati. Tutto intorno la natura, con aria
cristallina, gelava anche gli occhi. Ora, però, davanti questa luce, a questa neve
che imbianca le montagne e a questo vento gelido si sente tanto piacere, ma
anche una punta di dolore. Proprio
in questo giorno Tommaso è giunto al capezzale di Anna, una valente
ricercatrice. La osserva e si innamora di quella ragazza graziosamente invecchiata,
della sua mente brillante, del suo sguardo nel quale sa cogliere la dedizione
alla scienza. L’ombra della solitudine, nell’amore immaginato, non è a lieto
fine, ma un avvicinarsi non banale al mistero dell’amore e della fine terrena.
Come si fa a parlare ad Anna della “sorella morte”, da parte del suo dottore?
Anche se non lo diciamo apertamente, sembra inaccettabile lasciare il mondo
senza aver portato a buon compimento le nostre aspirazioni. Anna si è ammalata
gravemente nel 1891, a soli 41 anni, e morirà a causa di questa malattia non
identificata (forse un nuovo morbo). Tommaso, bravo medico, si concentra nella ricerca di quel
morbo con la tenerezza di un adepto e l’acutezza di chi conosce la medicina e
sarà proprio lui a intuire quel male, ma non riuscirà a curarla. Il
grande cancello della villa è aperto; il viale che conduce alla casa è
costeggiato da alti cipressi: anche loro sembrano tristi per la grave perdita.
Nella casa tante persone che, in questa circostanza, portano il loro saluto alla
famiglia. Tutti sono concordi nel riconoscere ad Anna la grande dedizione alla
ricerca scientifica per trovare cure a malattie ancora inguaribili. Di questa
donna ne è piena la storia e tutti noi dobbiamo esserle riconoscenti, e non
dobbiamo dimenticare che se sono stati fatti tanti progressi in questo campo è
anche e soprattutto grazie a chi si è tanto impegnato in questo lavoro prima di
oggi.
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Grazie, don Mario, ce l’ho fatta per un pelo.
di Un’assidua lettrice
28.12.2013
– Questa mattina mio marito mi ha informata di aver appreso dai giornali della
morte di don Mario Menconi. Sapeva che era stato per me una persona importante
e mi ha detto che alle ore 10, nella chiesa della Perticata (Carrara), si
sarebbe celebrato il funerale. Questo santo sacerdote l’avevo perso
di vista dal tempo della scuola; non sapevo dove lui svolgesse la sua attività
pastorale, ma ho capito che, grazie a mio marito, mi si stava presentando la
mia ultima opportunità di dirgli grazie. Ho così lasciato perdere tutto quello
che avevo in programma per partecipare alle sue esequie, avendo la certezza e
la gioia che era ancora lì, vivo in mezzo a noi. Don Mario l’ho avuto come insegnante
e in quei tre anni, grazie alla sua rigidità nel pretendere durante le
interrogazioni, mi ha insegnato il metodo giusto (anche pignolo) di studiare
(quello che tuttora utilizzo per leggere il Vangelo): che le cose vanno
meritate e sudate; che non bisogna prendere la via larga; che la costanza, la
passione e la pazienza, prima o poi, danno i loro frutti. Questo suo grande
insegnamento l’ho sempre voluto applicare e lo sto sempre mettendo in atto in tutti
i ruoli che la vita mi offre. Grazie,
don Mario, per avermi fatto capire che la cosa più importante in quello che
facciamo è di metterci il massimo dell’impegno e dell’amore: prima o poi i
buoni risultati arrivano, anche se la nostra fragilità ci porta, a volte, a
fare degli errori. Belle le parole di don Augusto, il
parroco, al termine della celebrazione. Ha detto che nella sua vita aveva già
il rimorso di non aver ringraziato abbastanza suo padre prima che morisse: ora
lo aveva per don Mario e lo ha voluto fare in quel contesto. Anch’io, dentro di
me, stavo pensando al mio mancato grazie, quando era ancora in vita, ed ora lo
facevo anch’io mentalmente. Chissà quante altre persone avevano in quel momento
lo stesso pensiero. Come ho già detto altre volte, da
tre anni ho capito che ogni occasione di conversione non va perduta e che la
nostra vita è fatta di scelte, ma non sempre riusciamo in questo intento. Nei
confronti di don Mario ho senz’altro sbagliato: potevo informarmi di lui e
andare di persona a ringraziarlo, come sto cercando di fare con le persone che
mi danno consigli e gesti preziosi. Ma, ne sono certa, stamani il mio grazie
gli è arrivato perché la mia gioia, durante la Messa, è stata enorme, e come
ora che sto scrivendo. Grazie, professor Menconi, per tutto
quello che anche lei mi ha donato in questo “esilio”!
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PELLEGRINAGGIO A ROMA (3-4-5 dicembre 2013)
di Mara Barbieri
Siamo partiti con due pullman alle 6
del mattino e siamo arrivati verso le 13 al nostro albergo a Roma, dove abbiamo
pranzato; subito dopo siamo partiti per Castel Gandolfo. E’ questo un ridente
centro dei Castelli Romani, situato in bella posizione. Per giungervi abbiamo
attraversato una zona a cocuzzoli di origine vulcanica con graziose cittadine, ville signorili,
boschi e vigneti. Ma in corriera, durante il tragitto, si è creato uno strano silenzio:
forse ognuno pensava al viaggio di Benedetto XVI, il giorno in cui, in
elicottero, lasciò Roma. Il giorno dopo, mercoledì, era
quello dell’udienza e in tutti noi c’era una grande attesa; alle 7 in punto
eravamo pronti per recarci a piedi in piazza S. Pietro, sperando di riuscire a
trovare posto vicino alle transenne. Don Andrea, che era stato a Roma da poco,
ci ha guidati molto bene e ci siamo così trovati proprio nella posizione migliore
per poter vedere il Papa, quasi a sfiorarlo. La cosa più sorprendente è stata
che il Santo Padre, al suo passaggio, sembrava guardare negli occhi ognuno dei
presenti! Mentre attraversava la piazza il suo è sembrato non un saluto
generale ma personale. Nella nostra comitiva c’erano dei bambini e Papa
Francesco, guardandoli, ha sorriso loro, e benedetti. La mattina era splendida,
c’era il sole, l’aria era tersa ed azzurra, ma faceva molto freddo (alla fine
si era sparsa la voce che, forse per il freddo, il Papa avesse avuto un piccolo
malore). La piazza era gremita, c’erano moltissimi stranieri; tutti hanno
atteso in fila prima in piedi, poi seduti e infreddoliti, tutti col sorriso e
un’espressione di attesa sul volto. Ognuno sperava forse in un gesto, un
contatto, una parola del Papa, che potesse aggiungere qualcosa di buono alla
propria vita. Ancora una volta quella folla silenziosa, composta di persone di
diversa provenienza, ognuno con la propria storia individuale, che guardava
nella stessa direzione, mi ha fatto venire in mente il passo dei Promessi
Sposi, in cui il Manzoni parla dell’Innominato. Questo potente e violento
signorotto dopo una notte di grande combattimento spirituale, vede al mattino
dalla finestra del suo castello della povera gente che va contenta in una
stessa direzione e si chiede stupito quale speranza ha mosso quella gente che
non ha nulla; però anche lui va, trova il Perdono e il senso della vita in Dio. Anche l’uomo di oggi sente un
profondo bisogno di Dio, del Kerigma che, come dice il Santo Padre, è
l’annuncio che risponde all’anelito di infinito che c’è in ogni cuore, è la
buona notizia -“Evangelum gaudium”- che
Dio ci ama. Quella mattina i volti infreddoliti delle persone erano illuminati
dalla gioia e allora ho capito che quegli uomini, che pregavano in lingue
diverse, erano testimoni della fede in Gesù, unico Salvatore, e che erano il
sale, il lievito, la luce del mondo di cui parla il Vangelo, sparsi in diversi
luoghi della Terra. Siamo usciti dalla piazza verso le 13,30, abbiamo fatto
visita alla Basilica in una atmosfera di silenzio e raccoglimento, poi abbiamo
continuato il giro della città eterna, in particolare la zona di Castel
Sant’Angelo e piazza Navona. A sera siamo rientrati stanchi, ma consapevoli di
aver trascorso una giornata davvero speciale. Giovedì mattina abbiamo avuto la
visita guidata al Colosseo e ai Fori Imperiali. Don Andrea aveva prenotato una
guida e siamo stati fortunati perché, posso dirlo da “esperta”, la signora che
ci ha accompagnati aveva una grande cultura e una grande capacità comunicativa;
ha tenuto un’ottima lezione di storia romana e cristiana. Il pomeriggio era
libero e, col mio gruppo e don Andrea, siamo arrivati fino a S. Giovanni in
Laterano. Alle 16,30 siamo ripartiti per giungere a casa prima di mezzanotte.
(P.S.) Con noi c’era anche la Mimma, in carrozzella (spinta da don Andrea o dalla
Giulia), che ha partecipato a tutto sempre col sorriso, ma, soprattutto, lei e
la Giulia sono state accarezzate e benedette dal Papa; cosa che tutti noi
abbiamo invidiato. Questo pellegrinaggio è stato un momento molto bello di
interparrochialità (Luni Mare, Isola Casano, Luni) e fra tutti c’è stata grande
armonia e comunione. Don Andrea e don Roberto sono stati dei perfetti
accompagnatori, gioiosi e sempre disponibili. Questo pellegrinaggio, come mi ha
detto ieri un parrocchiana di Luni Mare mentre ci scambiavamo gli auguri, “è
stato un momento di fede, di cultura, d’arte, d’amicizia…e siamo tornati più
ricchi!”.
Grazie don Andrea!
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