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Don Albino Bellangelo
di Enzo Mazzini
Sul "Il Sentiero"
del mese di novembre, allorché ho ricordato le eroiche gesta dell'abate don
Luciano Pesce Maineri, ho esternato il mio intendimento di riferire anche degli
esemplari comportamenti degli altri due sacerdoti che hanno retto le nostre
parrocchie negli anni terribili della seconda guerra mondiale e cioè don Albino
Bellangelo, parroco di S. Martino e don Tito Bassi, parroco di Nicola. In
questo numero mi accingo quindi a ricordare le gesta salienti di don Albino
Bellangelo, sperando di dare un misero contributo perché la gente non
dimentichi questi eroici sacerdoti,
sempre pronti a mettere a rischio la propria vita per salvare i loro
parrocchiani e che si sono resi protagonisti di gesta eroiche ed aiutarono
tutti indistintamente, prendendosi cura di vecchi, donne e bambini. In questo
numero cercherò di ricordare alcuni comportamenti di questo prete che era anche molto preciso nell' annotare
puntualmente sul suo diario parrocchiale i principali avvenimenti che si
verificarono in quegli anni terribili. Nell' agosto-settembre 1944
era sorto sulle nostre colline il primo movimento partigiano: la Brigata
Garibaldi, sotto il comando del farmacista Evraldo Piola. Il 7 ottobre 1944 il
caporale Bertacchini della postazione d’artiglieria di Isola decideva di
passare nelle fila dei partigiani. Poiché il comando delle Brigate Nere era
convinto che il militare fosse stato catturato dai partigiani, inviò un reparto
di militari che, coadiuvati da soldati tedeschi, compì un'azione a sorpresa
nella zona di Serravalle e Casano, rastrellando molti uomini. Il tenente
tedesco Rhan chiedeva il rilascio del militare, minacciando la fucilazione di
dieci ostaggi e la distruzione del paese, concedendo tre giorni di tempo per
rintracciare il Bertacchini. Immediatamente don Bellangelo ideó un piano per
liberare i prigionieri: certamente se non fosse stato per lui sarebbero tutti
morti. Ma il nostro parroco era sempre disponibile, pronto a mettere a
repentaglio anche la propria vita per il bene dei suoi parrocchiani. Ma il
terzo giorno dall'arresto si era ormai persa ogni speranza di salvezza. Il
termine fissato dal tenente Rhan scadeva alle ore 13. Una sentinella per far
coraggio ai prigionieri riferì che il prete era partito per rintracciare il
Bertacchini. Nella ricerca era coadiuvato da alcune madri dei prigionieri.
Finalmente don Bellangelo e le mamme trovarono la formazione partigiana a cui
si era aggregato Bertacchini. Spiegata la cosa, il comandante invitò il
Bertacchini a rientrare. Lui non era d' accordo e non intendeva assolutamente
aderire alla richiesta, per paura di venire fucilato. Alla fine venne
concordato di riferire che era stato prelevato con la forza dai partigiani. Fu
condotto al termo di Ortonovo, gli fu restituita la motocicletta e finse di
essersi liberato, sfuggendo ai partigiani. Ed è grazie all'azione di don
Bellangelo se i prigionieri vennero tutti liberati ed il paese di Casano venne
risparmiato. Passarono pochi giorni e
subito don Bellangelo si rese protagonista di un altro atto eroico. Il 29
ottobre '44 nella zona di Casano Alto, saldamente nelle mani dei partigiani,
veniva catturato il caporale tedesco Gallarsh e condotto ai monti in attesa di
poterlo scambiare con qualche ostaggio. La mattina del 30 ottobre piombava in
Comune il tenente tedesco Rhan il quale,
nonostante le proteste del commissario prefettizio, faceva rastrellare nella
zona 150 uomini, dando due giorni di tempo ai partigiani per rilasciare il
militare con le sue armi e la moto, trascorsi i quali avrebbe fatto fucilare 17
ostaggi e bruciato il paese. Il buon parroco supplicato anche dai congiunti dei
rastrellati, non esitò a mettersi in cammino verso il rifugio della
"Parodi" accompagnato da due coraggiosi volontari, sotto una pioggia
battente e percorrendo sentieri scoscesi e fangosi per un' intera giornata. Raggiunta la formazione partigiana, riuscì a
convincere il commando a farsi consegnare il prigioniero, superando notevoli
riluttanze. Il paese fu nuovamente salvato e la gente poté respirare,
consapevole di aver nuovamente corso un così grave pericolo e di averlo
scampato.Il terzo episodio che vi
voglio riferire è sicuramente quello più importante. Mi riferisco ai fatti
accaduti a Serravalle in data 9 novembre '44. Quanto vi sto per descrivere si è
verificato nel rettilineo che collega le scuole elementari di Serravalle al bar
di Ermanno, proprio dove si trova la mia abitazione. Tutti sapevano che il
comando fascista della Spezia utilizzava la palestra delle scuole elementari di
Serravalle come deposito di merci e derrate alimentari. Dalla Spezia venivano
quindi i camion a caricare le merci per rifornire le caserme cittadine. Tutto
filò liscio finché un giorno uno di quei viaggi finì in tragedia. Il mattino
del 9 novembre arrivò al comando partigiano, nella macchia, Ulderico
Gianfranchi, fratello di Vittorio, per avvisare che in paese c'era un camion
pieno di Brigate Nere e che avevano arrestati e caricati sul camion suo
fratello Ruggero, Botturi ed un certo Pié del Massese. Il camion stesso si era
fermato alle scuole di Serravalle presso la palestra della GIL (Gioventú
Italiana del Littorio) per ritirare parte del materiale che avevano depositato
al momento dello sfollamento dalla Spezia. Immediatamente vennero avvertiti
altri partigiani di zone limitrofe, che si precipitarono verso Serravalle per
affrontare le Brigate Nere, disponendosi per l' attacco. C' era anche un gruppo
della "Sigfrido" con mitragliatore che venne piazzato sulla strada
per affrontare il camion frontalmente. Il camion, finite le operazioni di
carico, si avviò. Giunto all' altezza dell'allora caserma dei Carabinieri
(l'attuale casa Storti) partì l'ordine dei partigiani di sparare: il crepitio
delle armi e delle bombe a mano si protrasse per alcuni minuti. Le Brigate Nere, lasciando sul campo diversi morti e
feriti, si rifugiarono nella caserma dei Carabinieri, dopo averne sfondato la
porta, trascinando i feriti all'interno della stessa ed organizzarono la difesa
sparando dalle finestre in attesa di potersi sganciare, confidando sulla
scarsità di munizioni dei partigiani. La sparatoria si protrasse fino alle 15,
allorché dal fondo della strada comparve la madre di un giovane appartenente
alle Brigate Nere che, sventolando un
lenzuolo bianco, consegnò al comandante Corsi un biglietto dei partigiani col
quale si informava che la caserma era circondata da 250 uomini e si ordinava la
sospensione del fuoco e la resa per avere salva la vita, cosa che avvenne,
consentendo così la possibilità di soccorrere i numerosi feriti. A questo punto fortissimo fu il
timore di pesanti rappresaglie tedesche sotto la guida del terribile tenente
tedesco Klain, che verrà poi giustiziato ad Albiano il 18 aprile 1945, autore
fra l' altro dell' incendio del paese di Follo e che stava organizzando un
reparto per rastrellare 40 civili di Serravalle da passare immediatamente per le armi e bruciare, per rappresaglia, i
paesi di Casano e di Ortonovo. Il tenente Corsi si precipitò allora al
Comando delle Brigate Nere, presso l'albergo Laurina di Sarzana, anche per
organizzare uno scambio di prigionieri e dopo un violento alterco, con scambio anche di pugni fra i due
ufficiali, il Corsi riuscì ad impedire, grazie anche all' intervento del
podestà di Sarzana Ubaldo Picci, la spedizione punitiva su Casano e ad
organizzare le trattative per lo scambio dei prigionieri. Ed è a questo punto
che ritorna protagonista il nostro don
Albino Bellangelo. Infatti il giorno 13 novembre, proprio a Serravalle,
nel luogo che qualche giorno prima era stato teatro di così cruenti
combattimenti, avvenne qualcosa di miracoloso. Si era riusciti infatti a
concordare, fra le due fazioni in guerra, di procedere ad un pacifico scambio
dei prigionieri. Cosa che avvenne sotto la guida di due garanti: don Albino
Bellangelo per conto dei partigiani e, per conto dei fascisti, don Siro
Silvestri, giovane prete del Seminario Vescovile di Sarzana, che diventerà poi
vescovo di Foligno e di Spezia, oggi in odore di santità. Furono così scambiati
6 prigionieri fascisti con altrettanti partigiani e tutto finì lì.
Chissà che la Madonna del Mirteto
non ci abbia messo anche del suo!
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Le babbucce rosa
di Marta
Era già novembre inoltrato, ma ci regalava ancora delle tiepide giornate, mentre la notte la temperatura scendeva. Un mattino molto presto, l’aria era decisamente frizzante, mi sono recata al Distretto Sanitario in via Madonnina e, appena entrata ho notato al mio fianco una signora, più o meno sulla sessantina. Indossava una tuta felpata, mi sembrava non tanto pettinata e, ai piedi, un paio di babbucce (pantofole) rosa; come se fosse uscita di casa in tutta fretta. Sembrava che stesse per piangere e parlava tra sé. Mi sono soffermata un momento a guardarla, e le ho detto: “Ogni giorno ce n’è una, vero signora?”. Lei alzando la testa mi ha guardato e, in lacrime, mi ha detto: “Vorrei morire! Sto pregando Dio che mi faccia morire: sono stanca di stare qui, tanto stanca!”. Le ho messo una mano sulla spalla; non volevo credere a quello che avevo appena udito, però ero curiosa di saperne di più, e le dissi: “Mi scusi, signora, ma cosa sta dicendo?”. E lei: “Sì, quel che ho detto è la verità. Ho perso mio marito che era l’unico ad aiutarmi con nostra figlia disabile; ora non ho più nessuno!”. “Mi perdoni, signora, se io insisto”, le ho detto, “ma si rivolga a qualcuno che la possa aiutare… un’assistente sociale… vada in Comune e chieda…”. Mi ha risposto che lei ormai non crede più a niente e a nessuno, ha già una causa in corso e dicendo questo si è allontanata a passo svelto. Ho avuto solo il tempo di gridarle dietro di tirare fuori tutto il coraggio che ancora aveva e cercare di superare quel suo sconforto. Sono rimasta lì come un palo secco e tutto il giorno scioccata da quell’incontro. Non potevo più togliermi dagli occhi la tristezza di quella donna. Come vorrei sapere il nome e l’indirizzo di quella signora! Potrei farle un po’ di compagnia; dirle che anche nelle cose che ci appaiono pessime, a volte, si trova qualcosa di positivo: ogni brutta storia ci insegna che bisogna amare la vita non ostante tutto e viverla finché Dio vorrà. Cara signora, prego Dio che la mantenga in salute per poter accudire la sua creatura. Mi immagino quanto bene lei le saprà donare: quando la veste, la pettina, l’accarezza con il suo grande cuore di mamma! Certo, qualche triste pensiero ogni tanto ci sconvolge, ma quanto è grande il valore della vita! Il Santo Natale è ormai alle porte; possa essere per lei una ri-nascita con nuova forza e nuovo vigore per lei e per sua figlia. Cara signora, resterà comunque nel mio cuore e la ricorderò nelle mie preghiere, e non posso scordare quando quel giorno si allontanava da me camminando con le sue babbucce rosa!
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LE MIE “FORCHE CAUDINE”
di M.G. PerroniLorenzini
Nella
girandola dei ricordi,
in un
unico spento vortice
si
confondono tutti i colori:
tutto
uguale, tutto uguale…
Ma,
adesso, il vento rallenta
e
scorgo il bianco, il rosso e il verde
e
rivedo la piazza e la folla…
Ho subito anch’io le mie “forche
caudine”: un’umiliazione, cioè, che credo simile a quella dei soldati romani,
quando a Claudio dovettero passare sotto il giogo. Ero sicuramente al ginnasio,
forse frequentavo la quinta, quando gli italiani cominciarono a mobilitarsi
perché Trieste tornasse, da territorio libero, città italiana. Io avevo avuto
sentore che qualcosa si preparava, ma, anche per una mia breve assenza per
malattia, non ero stata informata degli ultimi sviluppi. Quella mattina scesi dall’autobus,
che era sempre in ritardo, e corsi verso la scuola a perdifiato per recuperare
qualche minuto. Entrai trafelata, e trovai…il deserto… o quasi. Non c’erano i
professori e vidi solo una testa o due di ragazzi che si sporgevano dalle altre
aule del piano, e la mia era vuota. Ne domandai il motivo e mi fu risposto che
c’era la manifestazione per “Trieste italiana”. Alloro volli uscire, ma il
preside non lo permise. E tramite un bidello ci fu detto, classe per classe,
che dovevamo rimanere fino all’ultimo. Avremmo dovuto decidere prima. Il
divieto era irrevocabile. Ci disponemmo quindi alle lunghe ore di solitudine
come ci era stato ordinato. Ed io già sfogliavo i miei libri quando colpì le
mie orecchie un ronzio che si fece sempre più insistente. La grande piazza
davanti alla scuola, intitolata a Giuseppe Verdi, si era animata. Tutti i
ragazzi partecipanti alla manifestazione si erano lì riuniti. C’erano gli
studenti di tutte le scuole medie della città, il Nautico in testa, come
sempre. Ci furono dapprima canti patriottici che sentii confusamente. C’era uno
sventolare di bandiere tricolori e c’erano striscioni con scritte per Trieste
italiana. Poi vennero le urla, sempre più forti. E credetti di capire:
“Vergogna! Fuori i crumiri!”. E poi cominciò una pioggia di proiettili contro i
vetri delle finestre che guardavano la piazza. Uscii allora nel corridoio, dove
trovai anche gli altri del mio piano. Il preside ci fece intimare di andarcene
alla svelta: certo teneva più ai suoi vetri che a noi. Noi “crumiri”, tra tutti non eravamo
più di una quindicina, ci ritrovammo nell’atrio della scuola. Il più coraggioso
tra noi socchiuse la porta e subito indietreggiò. La marea ondeggiante dei
dimostranti faceva davvero paura. Inoltre essi, intanto che urlavano “Fuori!
Fuori!”, si erano preparati, lasciandoci libero uno stretto spazio, un
corridoio da attraversare in mezzo a loro per arrivare alla salvezza, cioè alla
fine della piazza. Pallido, il primo di noi si avviò. Il secondo fece per
accodarsi subito. Ma no. C’era un “direttore” dello spettacolo che ci costrinse
a procedere uno alla volta e ben distanziati. Quando tra gli ultimi toccò a me,
dovetti avanzare in mezzo a quella marea urlante. Vedevo la schiena del ragazzo
che mi precedeva e ogni tanto lo scorgevo incespicare tra le gambe che gli
studenti patrioti gli stendevano improvvisamente davanti per farlo inciampare.
Per le femmine, però, venne usato un
resto di cavalleria. Qualche sgambetto mi fu fatto, ma quasi solo perché
procedessi lentamente e potessi ascoltare gli insulti. Non vi dico con quale stretta al
cuore ero riuscita ad arrivare quasi a metà della “via dolorosa”, quando da
qualche fila più indietro si fece largo una vera erinni urlante mentre alcuni
frapponevano le loro gambe per impedirmi la fuga. Così mi dovetti fermare e la
furia gridò queste parole: “E’ una profuga giuliana, una profuga crumira!
Vergogna, proprio tu!”. E credo che mi avrebbe graffiato, se fosse arrivata al
mio viso, ma c’era la ressa ad impedirlo. Penso, comunque, che in pochi
intendessero le sue parole, perché in quel momento dalla folla dei ragazzi si
levarono nuovamente canti e slogan patriottici. Ma io la udii benissimo. Tentai
invano di spiegarle che ero entrata a scuola senza sapere nulla. Ma non era
quello né il luogo né il momento, anche perché lei continuava a gridare e non
sentiva le mie timide risposte. Conoscevo quella ragazza (avevamo fatto le
medie inferiori nello stesso istituto) e conoscevo le ragioni della sua ira. Io
avevo la qualifica di profuga giuliana; e in un certo senso lo ero anche,
sebbene non fossi originaria dell’Istria. Ma in Italia avevo trovato rifugio
sicuro dalla nonna e così non avevo seguito la sorte degli altri più veri e
disgraziati profughi, che, senza casa o lavoro e senza protezioni in Patria,
erano stati ammassati in una vecchia caserma militare, detta il “casermone”, in
condizioni che oggi forse si ritroveranno nelle carceri più sovraffollate; e in
quelle condizioni avevano dovuto restare per anni. E quella ragazza, veramente
una profuga, aveva e credeva di avere molte ragioni nei miei confronti e solo
la sua giusta ira l’aveva trasformata in quell’erinni. Ho ancora vivi in me il
suo gran viso pallido e i suoi occhi un po’ obliqui. Non ricordo il suo nome,
ma solo il cognome: De castro. Da quel momento non l’ho più rivista e non ho
più potuto spiegarmi con lei. Ero troppo concentrata sul mio
dolore interno per accorgermi delle ingiurie successive. Troppo mi bruciavano
quelle di colei che aveva tutto il diritto di rimproverarmi la mia tiepidezza.
E’ vero che ero stata sorpresa dagli eventi, ma se li avessi conosciuti, avrei
partecipato alla manifestazione? No, certamente. Perché mio padre non lo
avrebbe permesso e mi avrebbe scortata a scuola di forza. Per lui gli studenti
che dimostravano erano solo fannulloni o guerrafondai. Al massimo avrei
ottenuto da mio padre di rimanermene a casa. Per queste ragioni avevo sentito
almeno in parte giuste le accuse di quella ragazza. E mi commuove ancora oggi
il pensare che quei poveretti, così bistrattati dall’amata Italia, volevano con
tutto il cuore e con tutte le loro forze che almeno Trieste, con la Zona A,
tornasse italiana. Cosa che effettivamente avvenne, poco dopo, nell’ottobre del
1954.
da “La casa sepolta” ed.
Albatros
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Carissimi della Redazione
di Carlo e M.Giovanna Lorenzini
vi ringrazio perché ho visto che avete
pubblicato in due puntate il mio articolo sulla Bibbia, in cui mi sforzo di
dimostrare la ‘necessità’ del Nuovo Testamento. Senza il NT, senza cioè questa
perenne sorgente d'amore, che sgorga abbondante per la nostra redenzione, noi
non saremmo le creature di un salvifico disegno divino, ma, per parafrasare un
poeta nostro ottocentesco “ grotteschi esseri,
creati per caso da un buio Iddio; il quale, una volta stanco di noi, ci
annullerà per gioco, schiacciandoci con il suo piede, come brutti insetti”. Ma vedo che in questo mio sforzo di
interpretazione della Bibbia, mi lasciate solo, non ho riscontri, non una voce
che faccia seguito alla mia, per approvare o per criticare o, comunque, per
continuare un discorso in cui si affrontino problemi che riguardano la nostra
vita e il nostro destino, oltre la vita. Ma, comunque, grazie.
E anche mia moglie vi ringrazia, per l’accoglienza che avete riservato al suo
libro “La casa sepolta”.
Questa volta è toccato all’episodio della Madonna Pellegrina. L’innocenza della
bambina e l'iniquità dell’adulto.
Eravamo nel secondo dopoguerra e nell’atmosfera della guerra civile. E la
bambina che declamava “Vieni, o novello
Levita”, era il simbolo di come avrebbe potuto essere l’Italia; mentre
l’uomo che minacciava (e minacciava anche nei confronti della bambina), era un
segno di come invece sarebbe stata questa nostra Patria. Una nazione che nella
sua storia ha avuto più paura dell’amore che dell’odio. Una storia che ci ha
regalato questa civiltà, in cui ‘per amore’ si ammazzano le donne.
E un mio grazie come nicolese ve lo devo dire per la poesia del nostro Mario
Orlandi Scherzi d'l vin (Gli scherzi del vino). Si tratta di una dolente
elegia che nasce spontanea dal cuore del poeta, in cui il vino, il liquore di
Noè, di Lot e delle sue figlie, il vino di
‘vinum non habent’, e quello
di 'prendete e bevetene tutti',
diventa il mezzo dell’unica possibile consolazione per un’umanità disastrata,
emarginata, degradata, anche a causa di questo fascinoso liquore.
A questa umanità appartenevano Carmè, Casciscio, Spartàn e molti altri, che
tutti conoscevamo e di cui tutti, semmai, ridevamo... Solo il poeta Orlandi,
con la sua ironia piena di cuore e di partecipazione affettuosa, ha saputo,
nella dolcezza dell'aspro dialetto nicolese, ascoltarne le invocazioni d'amore
e redimerli nell'olimpo della poesia.
Il vino. I Greci lo chiamavano anche 'nepente' cioè liquore contro il negativo
della vita.
Ed io ricordo che era gradevole medicina con cui anche a mio padre piaceva
guarire le sue malinconie. Ché mio padre
era un uomo timido e silenzioso. E anche un po’ malinconico. Quasi
triste. Era così mio padre normalmente. Per cui era di poche parole: “Ciao,
ba’”. “Ciao”. Il più che poteva aggiungere: “Come stai?”. Ma poi la risposta
non la stava a sentire. Perché lui non voleva mai sapere come stavamo. I figli
stavano sempre bene, per definizione. Non voleva sentire nella nostra vita
nessun disagio fisico né morale. Se c’era qualcosa di negativo in noi, le sue
difese venivano meno, le sue reazioni si bloccavano, non sapeva più che fare,
se non rimanere immobile con le lacrime agli occhi. Senza piangere. Mio padre
nel suo stato normale non era coraggioso. Aveva paura. Poche volte lo vidi
coraggioso ed estroverso. Solo quando aveva bevuto. Alcuni sotto l’effetto del
vino diventano cattivi e intrattabili; in lui, la sua naturale bontà, si
estrinsecava. Un po’ ubriaco, il babbo era un’altra persona: allora nel suo
viso si trasfigurava; il sangue gli entrava in circolo tumultuosamente; gli
occhi gli si accendevano come due carboni ardenti; la lingua gli si scioglieva;
diventava eloquente; faceva domande; rispondeva; raccontava; diventava
generoso; si sentiva ricco; prometteva; elargiva; il cuore gli si sfaceva; e
dal suo sorriso usciva bontà e generosità come torrenti in piena. I fumi del
vino lo drogavano; il negativo attorno a sé scompariva; e tutto diventava bello
e buono e tutto diventava facile.
Mio padre, normalmente riservato e pieno di pudore, sotto l'effetto del vino,
si trasformava: si abbandonava ad una dolce e pur essa inebriante lussuria; lo
si vedeva dall’espressione languida ed implorativa con cui guardava la mamma;
la quale, di fronte a quella richiesta d'amore maschile, si faceva tutta rossa e, non sapendo come
portarsi e che cosa dire, esclamava: “Quando ha bevuto, vostro padre diventa
anche scemo!”. Parole che volevano significare che il vino aveva acceso in lui
il fuoco dell'amore e che la fiamma si era trasmessa anche a lei.
“Il Sentiero” ci ha offerto questo mese (pubblicandole) l'occasione di rileggere due pagine preziose
piene di poesia e di umanità di Maria Giovanna Perroni Lorenzini e di Mario
Orlandi. E io vorrei che questo succedesse anche ad un mio racconto che,
chiuso, nel libro mio 'Creature d'amore e di passione' nessuno andrebbe là per
leggerlo o rileggerlo. E invece io vorrei che succedesse, perché è un racconto
pieno di affetto e di poesia e anche di nostalgia. Il racconto si intitola
'Perlina'. Perlina è una bambina che io ho immaginato nata e cresciuta in
località Biotanelli, località rurale famosa per i suoi vigneti e per il suo
vino. Il vino bianco dorato, dolce e nello stesso tempo robusto, dalle uve dei
Biotanelli, era un vino pregiato da conservare per berlo nelle ricorrenze
importanti. Come del resto il bianco dalle uve di Sarticola e quello dalle uve
dei vigneti del Colonnello in Isola Alta.
A proposito dell'uva dei Biotanelli io ho un ricordo. La famiglia che abitava
quella località e che conduceva a mezzadria quei vigneti, veniva a prendere il
pane al nostro negozio. E, quando era la stagione, la massaia, data la loro
amicizia, portava alla mamma come omaggio qualche grappolo di quell'uva. E quei
grappoli, posati a mucchio sul banco, splendevano e davano luce come se fossero
un tesoro di zecchini d'oro e mandavano il profumo di un roseto nella sua
stagione di piena fioritura.
Con questi colori e questi profumi, ti lascio, per riprendere il nostro
discorso in altra occasione. Affettuosità a tutti della Redazione. Buon lavoro.
E lunga vita al nostro “Sentiero”.
Montepulciano, metà giugno 2013
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