|
|
|
LA STORIA DI JELI’
di M.G. Perroni Lorenzini
La piccola Jelì
Ti
ricordo già vecchia, il capo grigio,
un
pugnetto di peli stinti e opachi,
negli
occhi rassegnati la certezza
che il
mare era per sempre ormai perduto.
E poi
provavi amore per la casa,
per
chi, adesso deluso e amareggiato,
tempo
addietro però ti aveva accolta;
e
perciò sopportavi ira e impazienza,
sapendo
che le cause erano altre;
comprendevi
che io bimba e tu animale
potevamo
ubbidire solamente
e mi
davi un affetto di sorella.
Nel
parlare dello zio Mino, ho accennato alla cagnetta Jelì. Quando arrivò, io
ancora non ero nata. Lo zio Mino l’aveva trovata al porto di La Spezia, nel
tempo in cui ancora lavorava alla Vasca Sperimentale. L’aveva vista che si
aggirava sul molo, sporca, spaventata e affamata. Poi, quando lo zio si fu
convinto che la bestiola era abbandonata, se la portò a casa. Era un animale
piccolo, dal pelo scuro, con sfumature grigie, molto intelligente e vivace.
Forse era un terrier, forse un incrocio. Mio zio diceva sempre che molto
probabilmente era stata la mascotte di un’unità militare, che era rimasta
all’ancora nel porto e che, forse, alla nave era stato ordinato di ripartire
subito, mentre la cagnolina era a terra. Che Jolì avesse origini “marinare”
era indubbio, perché, quando vedeva dei marinai, subito si metteva ad abbaiare
e cercava di buttarsi loro addosso e avrebbe voluto che la prendessero in
braccio ad ogni costo. E questo gliel’ho visto fare più volte anch’io. I
marinai rimanevano imbarazzati e stupiti; e bisognava dar loro una spiegazione del
perché Jelì si buttava addosso a degli sconosciuti: riconosceva infatti la
divisa del marinaio. Jelì in principio trovò in casa
nostra un ambiente molto soddisfacente. Mia madre, giovane sposa, non aveva
ancora bambini. Mio zio era contento del suo lavoro. Mio padre era assorbito
dal suo nuovo ruolo di capo famiglia. In casa c’erano la nonna e la bisnonna.
Insomma tante persone, in un clima tutto sommato ancora sereno, pronte ad
accudirla e a trattarla bene. Era anche viziatella, specialmente nel mangiare.
E siccome sapeva dare con garbo la zampetta, quando seguiva lo zio al bar,
tutti i clienti a turno si divertivano a vederglielo fare e la ricompensavano
con un cioccolatino. E lei cominciò presto a ballare davanti ad ognuno per
chiedere di dare la zampetta e ricevere così il premio. Mia madre se la portava
anche nelle gite che la famiglia faceva in automobile. Jelì insomma fu il
divertimento di tutti, fin quando nacqui io. In un primo tempo di me fu gelosa.
Ma poi capì che ero di casa e mi accettò al punto che diventò la mia guardia
del corpo. Le cose continuarono ad andare
abbastanza bene fino allo scoppio della guerra. Dal ’40 al ’44, per esigenze di
lavoro, mio padre si era trasferito a
Pola con moglie e figlia. Ogni tanto però mia madre tornava al paese portando
anche me; e così Jelì aveva modo di non perdere il nostro ricordo. Ma intanto
la situazione nella famiglia di Arcola cambiava: c’era sempre più penuria di
cibo, non c’erano più i cioccolatini al bar né biscottini e anche Jelì dovette
cambiare completamente la sua dieta. Inoltre la bisnonna era morta e nonna Iole
presto fu inabile per cui la cagnolina aveva sempre meno persone che la
curavano. Quando
tornai da Pola, ricordo che ebbi la sorpresa di trovare Jelì col capino grigio,
che presto diventò bianco ed era spelacchiata e il pelo stinto. Gli anni verdi
erano passati abbastanza velocemente per lei, che pure fu longeva, perché
dovrebbe essere morta a diciotto anni, età che per un cane è abbastanza
avanzata. Ricordo che in certi momenti l’unico suo pranzo consisteva in qualche
fico, aperto in modo che lo potesse mangiare. E bisogna ringraziare Iddio che
c’erano quei fichi della nostra campagna. Non è che noi mangiassimo molto
meglio; ma mi si stringeva il cuore quando portavo i fichi a Jelì. E poi
ritornavano quei fieri contrasti, per cui le persone erano più nervose; e
spesso chi la pagava di più era chi meno aveva voce in capitolo. Non ho molto altro da dire di Jelì.
Solo che lei provava per me un affetto di sorella; che ricambiavo di tutto cuore.
Ma era un affetto, il mio, che non sapeva proteggerla. Non potevo, infatti,
aiutarla in quella vita che si era trovata a dover vivere. Perché neanch’io
potevo molto in quell’ambiente in cui dovevo solo ubbidire. Ma comunque io ero
figlia e nipote e quindi contavo più della cagnolina. E poi ero bambina e avevo
tutta la vita davanti per cui mai perdetti la speranza di un’esistenza
migliore. Mentre la cagnolina non poté fare altro che spegnersi, se pure
lentamente, e non poté mai più avere quello che, credo, desiderava soprattutto:
il ritorno al mare, il ritorno ad una nave. Che forse sarebbe stato per lei il
ritorno alla libertà, alla gioia di vivere, alla felicità.
(da “La casa Sepolta”, ed. Albatros)
|
|
|
|
|
|
|
L’ateo sereno
di Romano Parodi
Dopo Ratti con Cicerone e
Doré con Papa Francesco e Scalfari, anch’io provo a dire la mia. La recente morte di Margherita Hack, ma la stessa cosa potrebbe
dirsi di Rita Levi Montalcini e delle opinioni di Umberto Veronesi, tutti atei
convinti, mi ha riportato a riflettere sulle domande di sempre. Molto spesso,
nelle mie notti insonni ho fatto dei dubbi e tormenti un punto di forza per
alimentare la ricerca della verità nella “beata speranza”, perché “una vita
senza ricerca non è degna di essere vissuta” mi dice Platone all’una o alle due
di notte (verso le sette però torno a letto). La vita è fatta di tragicità e
drammaticità, se non di disperazione. Ci lasciamo dietro una lunga
scia di dolori. Il destino ci confonde con una prolissità di sofferenze
talvolta insopportabili, per cui l’idea dell’”ateo sereno” mi è inconcepibile e
totalmente incomprensibile. Forse sono stato deviato dai miei riferimenti letterari
(Ivan Karamazov), “Se Dio non ci fosse bisognerebbe inventarlo”, ma davvero
l’ateo giulivo non riesco a concepirlo, perché “l’uomo ha bisogno di una fede
per vivere” sempre Dostoevskij. Di fronte all’ineluttabilità del male, del
dolore, dell’ingiustizia, come può chi ha rinunciato alla “speranza del
mistero”, sorridere serenamente? A questo proposito vi
racconto un fatto realmente accaduto. Durante un pranzo un bambino ingoia una
lisca. Il nonno chirurgo, un affermato luminare, intuisce immediatamente la
gravità della situazione e con mezzi di fortuna pratica una incisione alla gola
del bimbo. Tutto inutile. Il bimbo tanto adorato da mamma e nonno muore
soffocato. La mamma affranta, non accetta quella morte, non perdona, e si
allontana per sempre. L’uomo non sa darsi pace, sa di non aver colpe specifiche
e cerca disperato la sua unica figlia. Un giorno finalmente la ritrova: è
prostrata sulla panca di una chiesa, nel silenzio e nella penombra. “Qual è la
mia colpa?”. “La tua colpa è quella di avermi dato una cultura atea che ha
tentato di togliermi la speranza”. L’uomo non osa contraddirla, alza gli occhi
al grande crocifisso che, con le braccia spalancate, occupa tutta intera la
volta dell’altare. Osserva quel corpo sofferente, segnato da solchi di sangue,
inchiodato mani e piedi alla croce. La sua bocca sembra trattenga un urlo sovrumano.
Calcata sul capo, dal quale colano rivoli di sangue, porta una corona di spine
nere. L’uomo rabbrividisce per l’orrore. Si domanda come la storia del mondo
può riassumersi in quello spettacolo rivoltante. E’ in quell’uomo sgozzato
nella parola che gli uomini devono cercare la chiave per poter camminare verso
la luce? “Vieni a me tu che sei oppresso
e io ti consolerò”. E’ questo il significato di quell’uomo appeso alla grande
croce nera? Per questo quell’uomo si era dato in pasto alla morte? Si, era quello,
ammise l’uomo guardando sua figlia, e preso dal tremore, s’inginocchiò
piangente. La cultura Greca ha perso la
partita con la cultura cristiana proprio sul tema della morte. I greci
accettavano la morte senza “cieche speranze”, mentre i cristiani con la
Resurrezione dicono: “O morte dov’è la tua vittoria, dov’è il tuo
pungiglione?”. Ecco la differenza! Il Vangelo di Cristo fa il miracolo di
riaccendere sempre la “Beata Speranza”. Ed è proprio nella fede e nella
speranza che sta la differenza, non solo dalla cultura greca, ma anche fra un
cristiano e un ateo giulivo.
L’uomo
moderno alla ricerca della luce
La lettera di Papa Francesco
a Scalfari ha fatto scalpore. Papa Francesco chiede al grande giornalista di
fare un tratto di strada insieme. Un percorso riservato a tutti, perché
riguarda la vita; e ciascuno di noi è un esperto della vita. Sa cos’è il
vivere, il convivere, il morire. “La luce per me è nata dall’incontro con Gesù.
Un incontro personale che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un
senso alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato possibile
dalla comunità di fede in cui ho vissuto. Senza la Chiesa, mi creda - confessa
il Papa - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che
quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della
nostra umanità”. “Anch’io vorrei che la
luce riuscisse a penetrare e dissolvere le tenebre”, risponde l’ateo Scalfari. E cosa si può desiderare di
più che imbattersi in compagni di cammino così? E’ questo desiderio di una luce
che consente di non smarrire la strada, a costituire il criterio per il dialogo
tra gli uomini. Il dialogo fra il pontefice e il giornalista è un grande aiuto
alla strada che tutti dobbiamo percorrere: ciascuno deve paragonare la propria
esperienza di vita con quel desiderio di luce, di verità, di bellezza, di
giustizia, di felicità che ci costituisce.
Giuliana, ti abbraccio.
|
|
|
|
Clicca sulla foto per ingrandirla |
|
|
Miracolo a Luni Mare!
di Paola G. Vitale
Sì, è stato rasato a dovere il prato sotto ai platani, sia nella parte che precede i
palazzi R1 e R2 di via f.lli Cervi, sia nel finale antistante i palazzi R4 e
R5. E’ stato un vero sollievo entrare nel prato per guardare il paesaggio verso
le colline e i monti, da Montemarcello fino a Ortonovo. E non è finita qui! Rasati a dovere
i prati di largo Di Vittorio e l’area verde della scuola. Dispiace ancora
vedere gli alberi marciti o divelti dal vento caduti sul tetto dell’edificio
scuola, tuttavia… Speriamo ancora in qualche provvido intervento. Quarant’anni di vita per questo
centro, divenuto di presenza multirazziale e soprattutto turistica, porteranno
a qualche altro miracolo? E allora, attendiamo! Sperando anche in una
ragionevole dotazione di servizi.
|
|
|
|
|
|
|
Quando la “meta” precedendoci, ce ne accorcia il percorso.
di Angelo Brizzi
Non
sento più sotto questo a questo cielo incandescente le lente parole dell’Amico
che mi stava accanto. Da lontano arriva la voce di sua madre, attraverso i
campi seminati a granturco: lo chiama, lo chiama in modo insolito, roco, come
un canto del cigno, un presentimento. Salve,
compagno mio, primitivo; ti ha tradito duramente la tua sorte, “mi querido inolvidable
companero de mi mocedad” (mio
caro indimenticabile compagno della mia giovinezza); sei approdato alla verde riva, senza angoscia, con te solo un volo
di gracchianti gabbiani sopra le onde. Ascolta compagno, come te tanti hanno
attraversato le acque raggiungendo la stessa riva ed altri ancora ne
approderanno; ma chi viene lasciato, mai si arrenderà a disperdere i ricordi
dei vostri passi. Continua a giungere il richiamo di chi più ti ama, sta
soffrendo, sente in sé una lama invisibile che gli frantuma il cuore; è piena
di amarezza, ma non piange; pone l’orecchio all’ascolto di un tuo impossibile:
“Sono qui! Vengo!”. Non diffamerà le acque, ma porrà su di esse il principio e
la fine della tua vita, offrendo corone di fiori alla loro impassibilità per
ciò che le circonda. Signore,
a volte un desolato deserto si presenta davanti a noi per rendere più
difficoltoso il nostro viaggio; siamo sicuri di farcela con Te vicino; verremo,
siamo in cammino. Ogni giorno ne facciamo un tratto e alla sera un meritato
riposo per riprendere così la strada il giorno dopo, sempre più vicini a Te;
anche se non conosciamo né quando, né l’ora.
“Purifica
l’anima nostra, o Signore, fanne il tuo cielo, la tua dimora prediletta, ed il
luogo del tuo riposo”.
(Santa Elisabetta della Trinità)
|
|
|
|
|
|
|
Preziosi insegnamenti
di Marta
Caro
don Lodovico,
sono
già trascorsi tre anni da quando ci hai lasciati, ma sei sempre presente in
mezzo a noi. Ti ricordiamo in particolare nei momenti delle funzioni più
importanti; come ad esempio per la festa della Madonna Addolorata, da te
fortemente voluta. Che grande gioia quando finalmente arrivò l’autorizzazione
alla festa, concessa da Papa Benedetto, accompagnata da una personale lettera
di Sua Santità!
Oppure durante le celebrazioni della Settimana Santa con la grande festa di
Pasqua. Ma anche alla semplice recita delle Lodi mattutine. Per il santo
Natale, quando premiavi personalmente i Presepi fatti dai bambini. Il primo premio però lo davi sempre a quello
fatto dal bambino più piccolo, o quello fatto con materiale povero (carta,
cartone, polistirolo…), o quello fatto da gruppi di bambini e ragazzi. E
intanto avevi ringraziamenti, consigli e suggerimenti per tutti. Ti ricordiamo
quando in mezzo a tanti bambini aspettavi l’arrivo dei Re Magi che portavano a
Gesù e a tutti loro piccoli,
significativi regali.
Che belle feste per gli incontri conviviali con le famiglie, all’Oratorio;
alcune volte anche con i vescovi Bassano o Francesco!
Con che passione ci insegnavi come pregare. Ci dicevi: “Durante la Messa, nel
momento della recita della preghiera che Gesù ci ha insegnato, il Padre Nostro,
deve partire per primo il sacerdote, poi tutta l’assemblea si unisce a lui; non
dev’essere troppo urlato, ma moderato e detto col cuore; le parole si devono
sentire tutte nello stesso momento affinché la parola “Amen” giunga tutti
insieme, non uno prima uno dopo”. Ti piacevano tanto le Messe solenni, magari
accompagnate dal bel canto della corale e, a volte, suggerivi anche qualche
particolare canto al nostro Maestro. Però, al momento del “Gloria”, tu non lo
intonavi mai, lasciavi sempre a qualcun altro.
A tuo dire, quando eri studente in seminario tu cantavi, ma il tuo
Maestro don Ferdinando Maberini, ti disse: “Io ti promuovo, ma non cantare mai!”.
E tu hai rispettato questo per quasi tutta la vita. Ma una volta ti fu chiesto
di intonarlo il “Gloria” e partisti con la giusta tonalità e anche con bella voce.. ma fu forse un’unica volta.
Durante le celebrazioni osservavi sempre come i chierichetti si comportavano,
con occhiate anche un po’ severe, ma alla fine sempre bonariamente li
ringraziavi e li invitavi ad essere sempre più numerosi.
Se qualche famiglia o altri avevano bisogno di qualcosa. mai dicevi loro di no
e trovavi sempre la maniera di sopperire alla bisogna del momento. Tutti i
giorni che c’era catechismo, giravi per le classi e salutavi i tuoi ragazzi uno
per uno e da loro eri amato ed apprezzato. Tu ti divertivi con loro e loro
capivano quanto volevi loro bene come lo volevi a noi tutti da buon Padre e da
buon Pastore.
|
|
|
|
Clicca sulla foto per ingrandirla |
|
|
Caro “Sentiero”
di Mila
Caro
“Sentiero”,
questa volta devi
lasciarmi almeno una pagina e mezzo, o forse più, del tuo spazio perché voglio raccontarti
una storia, una storia un po’ lunga, che dura da più di vent’anni, la storia della
chiesa di Luni Mare. Perché proprio in questo momento? Vedi, lo scorso luglio è
successo un piccolo miracolo! La seconda domenica di luglio, alla fine della
Santa Messa, don Roberto Poletti,il nostro parroco da circa due anni, che da
subito si era dato da fare per cercare di districare l’imbrogliata matassa che
avvolgeva e coinvolgeva il Comune di Ortonovo, il nostro Comitato ”pro erigenda
chiesa”, l’Istituto per il Sostentamento Clero, i vari parroci che si sono
succeduti negli anni e forse qualcun altro che non so, dicevo, don Roberto,
alla fine della Messa ha detto: ”Devo darvi una bella notizia, il Comune ci ha
concesso il permesso per la costruzione della nuova chiesa”. Non è scoppiato un
applauso come avrei creduto, ma è sceso su di noi un silenzio cupo, incredulo,
esasperato, come se tutta la tensione di questi lunghi anni, le speranze deluse
di volta in volta, la
frustrazione, i sorrisi ironici di chi ha sempre remato contro e a volte anche
certe insinuazioni non
volessero sgomberare il campo. Poi ci siamo ripresi e abbiamo incominciato a parlare
tutti insieme, sottovoce però, perché eravamo ancora davanti
all’altare.”Finalmente!”,“Ringraziamo Dio!”, “Si, ma anche il Comune!”, “E don
Roberto che ce l’ha messa tutta!”. Insomma, un piccolo miracolo che accomunava
noi di Luni Mare e i villeggianti che ormai da anni partecipano alle nostre
vicende. Poi, qualche giorno fa, la doccia fredda: Don Roberto ci lascia, è
stato designato a Romito! Adesso senti un po’…
Io sono approdata a Luni Mare nel millenovecentosettantanove. Allora non c’era
neanche una mezza chiesa; la domenica veniva il parroco di Marinella, il
compianto don Angelo De Mattei, che celebrava la Messa nell’edificio dove c’è
adesso il supermercato, quel locale serviva da deposito per i muratori che
stavano costruendo questo nuovo villaggio.
La Messa veniva celebrata tra mattoni, carriole e detriti vari. L’anno
successivo venne allestita una piccola cappella, sempre nel solito edificio ma
era qualcosa di più decoroso. Poi don Angelo incominciò a pensare ad una chiesa
veramente chiesa, intendo come edificio. Era stata progettata a forma
circolare, ma si riuscì a costruirne soltanto una parte, la parte che avrebbe
dovuto essere la sacrestia e annessi servizi. Comunque si incominciò a
celebrare l’Eucaristia in quella chiesa incompiuta e don Angelo istituì la
Parrocchia di San Pietro Apostolo in Luni Mare. Purtroppo, poco dopo,
don Angelo si ammalò. Non ce la faceva più con due parrocchie. Arrivò don Lodovico
Capellini, ma non rimase molto; ritornò per un po’ don Angelo, ma era ammalato,
quindi tornò don Lodovico coadiuvato da don Lupo. Poco dopo don Angelo morì e
alla sua morte diventò parroco di Marinella e Luni Mare don Filiberto, parroco
di Marinella. Si riprese il
discorso della chiesa ma solo per venire a sapere che la licenza edilizia era scaduta
e dovevamo rincominciare tutto da capo. Non ricordo quanti anni rimase con noi
don Filiberto, comunque dopo di lui arrivò don Giovanni Tassano ed insieme a
lui si incominciò a lavorare attorno ad un progetto nuovo che però fu bocciato
perché non avevamo il terreno per il parcheggio…e sì che dello spazio a Luni
Mare ce n’è tanto. Comunque il progetto lo pagammo ugualmente. Poi fu la volta
di don Franco Lombardi, parroco di Castelnuovo e vicario foraneo, dopo un po’
di tempo gli diedero come aiutante un giovane sacerdote, don Andrea Santini,
che nel 1998 fu nominato parroco di Isola e Luni Mare e con lui ricominciammo ancora
una volta il discorso della chiesa. Nuovo progetto, nuovo architetto, nuovi
discorsi, ma il solito vecchio tempo che passava e passava e non si riusciva a concludere
nulla nonostante gli sforzi e l’impegno di don Andrea. Due anni fa è stato
trasferito anche lui. Il “miracolo” è avvenuto con don Roberto, ma adesso? Noi
siamo una piccola parrocchia, è vero, ma ci sono tante famiglie con bambini,
giovani e anche tanti anziani e soprattutto abbiamo bisogno di un’identità per
riuscire a diventare un vero paese, una vera comunità. Abbiamo bisogno di
aggregarci attorno a qualcuno che sia “per tutti” e chi meglio di un sacerdote
e di una chiesa? Io credo che qui a Luni Mare tutti, o perlomeno quasi tutti,
sentano questo bisogno, anche quelli che non frequentano. Comunque, caro “Sentiero”
noi andiamo avanti. Il Vangelo della
scorsa domenica parlava della preghiera; pregate, chiedete, chiedete anche con
insistenza e se le vostre richieste sono giuste sarete (forse) esauditi. Ho
messo il forse tra parentesi così, tanto per non sbilanciarmi troppo, ma spero
con tutto il cuore di vedervi tutti alla posa della prima pietra della nuova
chiesa in un’esplosione di gioia assieme a noi tutti di Luni Mare, al nostro
Vescovo e al Parroco che Dio vorrà donarci.
|
|
|
|
<-Indietro |
|
|
|