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La disoccupazione dello zio Mino
di M.G. Perroni Lorenzini
Zio
Mino
La vita
ti lusingò con vana promessa;
e tu,
giovane, spensierato,
ti
sentisti padrone del mondo.
Crudelmente
il
destino mise a nudo la tua fragilità,
la
totale incapacità di vivere.
Ostinatamente
non cessasti
di fabbricarti
illusioni e principi,
per
sentirti forte.
Per me,
piccola, fosti un eroe.
Ma ora
so
perché
viziavi tutti i bambini:
era per
consolarli di crescere.
Durò undici anni la disoccupazione dello
zio Mino. Era iniziata l’otto settembre del ’44, dopo il bombardamento
dell’arsenale di La Spezia. Data che nonna Iole aveva segnata con la pietruzza
nera. La morte di mia bisnonna Adele, la maestra, oltre che il lutto, aveva
lasciato nella famiglia anche un notevole disagio economico, per la perdita
della sua pensione; e per di più, poco dopo, zio Mino fu lasciato a casa. Giacomo
era il suo vero nome; ma in famiglia lo avevano chiamato Giacomino, per
distinguerlo dal nonno di cui portava il nome; ed io, da piccola, lo avevo
accorciato in Mino. Lo zio era stato disegnatore
specializzato alla Vasca Sperimentale, ma insieme a molti altri operai e
impiegati dell’arsenale dopo il licenziamento non fu più riassunto. Mio padre,
invece, non aveva perduto il suo posto, anche se per qualche tempo aveva dovuto
lavorare a Genova. Dopo il licenziamento, lo zio passò quegli undici anni quasi
sempre senza un lavoro fisso né occasionale. Ad un certo punto, però, aveva
trovato un’occupazione presso una cooperativa del paese. Ma fu un disastro.
Perché, pasticcione e disordinato in un lavoro che gli piaceva poco, e
soprattutto ingenuo e sprovveduto nei confronti della malizia umana, ben presto
cadde vittima di una truffa. Ci rimise il posto ed anche dei bei soldi. E, per
pagare questo debito, fu costretto a imbarcarsi per circa un anno come
fuochista su una nave. Fu questo un lavoro molto duro per lui, che era di
fragile costituzione e non abituato a lavori manuali. Ma torniamo agli anni della sua
disoccupazione. Soprattutto, orgoglioso com’era, gli costava molto dipendere da
mio padre. Il quale col suo stipendio di semplice impiegato aveva ora sulle
spalle una famiglia di cinque persone; e che, per sbarcare il lunario, si
assoggettava a svolgere fuori orario dei lavori di contabilità. Ma i sacrifici
di papà urtavano la suscettibilità dello zio, che era costretto a dipendere da
una persona con cui i rapporti non erano mai stati cordialissimi. Ma questa sua
disoccupazione ebbe almeno un lato positivo: acuì infatti il suo abituale amore
per la Natura. Quando era bel tempo, lo zio girava per i terreni di proprietà
della famiglia e per i boschi. E ne riportava sempre qualche cosa: dalla
campagna frutta, pomodori, verdure; dal bosco funghi, asparagi selvatici, more,
castagne. Quando pioveva, soleva invece trascorrere il tempo al bar. E se era
senza un soldo, si rivolgeva a me per un prestito. Ed io, che ormai conoscevo
questa sua cronica mancanza di denaro, tardavo a spendere i soldi dei
regalucci, per poterlo accontentare: sapevo però che me li avrebbe restituiti
puntualmente. Forse, più di tutti gli altri
famigliari, zio Mino si sentiva prigioniero di una vita che non avrebbe voluto;
proprio lui che era uno spirito incapace di tollerare la benché minima
costrizione; e lo aveva dimostrato ribellandosi al Fascismo, non tanto per
fondate convinzioni politiche, quanto per la sua natura insofferente anche solo
dell’ombra di un comando. Riacquistava però tutto il suo spirito quando
si trovava di fronte ad un bambino: allora ridiventava bambino anche lui, e si
divertiva un mondo accontentandolo in tutto. Ma appena quel bimbo diventava
grandicello, non se ne interessava quasi più. Non era alla persona del bambino
che si attaccava ma alla sua infanzia. Solo con i bimbi comunicava o credeva di
farlo. E nell’intuizione poetica della mia antica poesia a lui intitolata e a
lui dedicata, penso di avere saputo ben cogliere il motivo per cui li viziava:
“…era per consolarli di crescere”. Col tempo ricominciò ad essere irritabile con
tutti. Ma soprattutto con mio padre, di cui non sopportava più neanche la
presenza nella stessa stanza. Ma si illuminava ancora anche solo a parlare di
bambini. E continuò a viziare mia figlia fino a pochi giorni prima della sua
morte.
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Lettera ad un amico
di Giuliana Rossini
Caro Romano, ho letto il tuo articolo
“Una terapia per la solitudine della vecchiaia” apparso nel precedente numero
de “Il Sentiero” che mi ha incuriosita e interessata. Anzitutto scusami per l’uso
del “tu” anche se ci conosciamo un po’ superficialmente, ma mi sembra più
confidenziale. M’è parso di cogliere nelle
tue righe una notevole dose di dolore e sconforto uniti a una certa
rassegnazione. Capita a tutti, credo, ad una certa età di fare il bilancio
della propria vita con risultati non del tutto soddisfacenti. Risulta comune il
senso di insoddisfazione e rimpianto per come sono andate le cose, lasciandoci
l’amaro in bocca. Sì, lo so, certi dolori
bruciano in profondità e sono difficili da comprendere e sopportare. Non resta
che posare lo sguardo su Gesù Crocifisso, sapendo che il nostro dolore,
abbracciato e offerto, ci rende corredentori con Lui, come dice anche San
Paolo. Per quanto mi riguarda, per
anni ho bisticciato col mio passato; poi ho capito che ogni avvenimento che mi
capitava era legato agli altri da un filo d’oro, la volontà di Dio, e che tutto
doveva andare così e non diversamente. Del resto non potrei essere
quella che sono oggi se non avessi vissuto quelle determinate esperienze. Ho
imparato ad essere misericordiosa con me stessa e i miei errori e, soprattutto,
a fidarmi della misericordia di Dio e a mettere tutto nel Suo cuore. Anche tu, nel tuo scritto,
parli di pietà e quindi so che puoi capirmi. Il passato rappresenta le nostre
radici e costituisce la nostra esperienza che possiamo donare agli altri. Tuttavia il passato è
passato e non possiamo più modificarlo, ma solo affidarlo a Dio. Ma neppure il futuro ci
appartiene, perché non è ancora avvenuto. Resta soltanto il presente, anzi
l’attimo presente. Tu parli di incanto del momento, ed è esattamente così. Per
non avere rimpianti bisogna vivere bene ogni momento, come se fosse l’ultimo.
Fare le cose, grandi o piccole che siano, nel migliore dei modi (come fanno i
Santi che compiono tutto per Dio) così da non sprecare nulla. Fai bene a rifugiarti nella
scrittura di testi, se per te è così importante e ti riempie la vita, ma poiché
non si può scrivere tutto il giorno, forse può essere il caso di trovare
l’incanto anche altrove. Non sarò io a dirti dove, perché lo sai già da te. Ma
c’è una cosa che mi sento di dirti: non c’è niente di più bello che instaurare
e favorire rapporti personali. Come tu acutamente dici, la
gente preferisce essere ascoltata, piuttosto che ascoltare, ossia le persone
hanno un infinito bisogno di ascolto. Aprire il cuore agli altri, metterli a
loro agio, ascoltarli con interesse e delicatezza non solo costituisce un atto
d’amore nei loro riguardi, ma è una cosa che dà gioia anche a noi, riempie la
nostra vita, sì che alla fine della nostra giornata ci ritroviamo più
soddisfatti. Ho iniziato a scrivere
queste righe per farti sorridere, per dirti che almeno una persona che ti legge
c’è (normalmente leggo il Sentiero dalla prima all’ultima pagina e da oggi lo
farò con ancora più attenzione), ma mi accorgo che il loro tono sta risultando
un po’ troppo serioso. Anch’io, sai, spesso ho l’impressione che nessuno legge
ciò che scrivo, perché anch’io spesso non trovo riscontri. Ma poi penso che il
silenzio dei lettori sia dovuto più al pudore che all’indifferenza. E poiché,
come te, credo all’importanza di testimoniare la nostra fede attraverso queste
pagine, mi permetto di ricordarti le bellissime parole che ci ha rivolto padre
Gabriel in occasione dell’incontro dei collaboratori de “Il Sentiero” al Santuario
del Mirteto (di cui relazione bene Egidio Banti nello stesso numero). Padre
Gabriel ci ricordava come chi scrive sul nostro bollettino interparrocchiale
compie la stessa funzione che espletavano i pittori medievali nel raccontare la
vita di Gesù e dei Santi attraverso i loro dipinti nei confronti di coloro che
non sapevano leggere (niente meno!!) e ci esortava, prima di scrivere, a
parlare con Gesù, a chiedere a Lui se ciò che stavamo scrivendo potesse
piacerGli. Non ti pare una cosa meravigliosa, in grado di farci sentire del
tutto vivi?
Con affetto
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Semi del Verbo
di Marisa Lisia
Invocazione dei Pellerossa
della tribù dei Chippewa
O
grande Spirito, ti odo nel vento, Tuo è l’alito che dà vita a tutto il mondo.
Io sono piccolo e debole, la tua forza e saggezza mi sostengano. Fammi
camminare nel bello e i miei occhi possano vedere il tramonto infuocato. Fa che
le mie mani rispettino le cose create da Te. Fa che le mie orecchie siano
pronte nel sentire la Tua Voce; donami la sapienza per comprendere i Tuoi
insegnamenti e così conoscere i segreti che hai nascosto nell’erba e nella
roccia. Dammi la forza, non per superare il fratello, ma per
combattere il mio maggior nemico, cioè me stesso. Fammi essere sempre pronto per
venire da Te con le mani pure e gli occhi giusti, così quando la mia vita
sfumerà come il sole al tramonto, il mio spirito potrà giungere a Te senza
vergogna.
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La Misericordia di Dio
di Doretto
Il fondatore di un importante quotidiano, attraverso le
colonne del suo giornale, si è rivolto al Papa e gli ha posto alcune domande
sulla fede. Egli ha premesso che: “Io sono un non credente e non cerco Dio,
anche se sono da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di
Gesù di Nazaret, figlio di Maria e Giuseppe, ebreo della stirpe di Davide”.
Ecco cosa gli risposto il Papa: “Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei
cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa
fondamentale - la Misericordia di Dio non ha limiti, la questione per chi non
crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per
chi non ha fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare ed obbedire ad
essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come
bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del
nostro agire”. Questo è il Papa Francesco. Il grande (lasciatemelo definire così) cardinale Martini,
di fronte ad un non credente che però era convinto che : “…di fronte a quella
cosa bellissima che è la vita e che non ha potuto crearla nessun altro che un
essere straordinario”, rispose così: “Nonostante la differenza tra il mio
credere e la sua mancanza di fede siamo simili, lo siamo come uomini nello
stupore davanti al creato e alla vita e si interroga la nostra coscienza, un
muscolo che va allenato”. E cita un proverbio indiano che divide la nostra
esistenza in quattro parti: la prima si studia, nella seconda si insegna, nella
terza si riflette. E nella quarta? Si mendica, anche senza accorgersene. Ora occorre sapere che il fondatore di questo quotidiano
ha più di 90 anni; il Papa ne ha 77. Il Santo Padre gli ha chiesto di fare un
tratto di strada insieme. Gesù, le tue vie sono veramente infinite. Tu vuoi che
tutti gli uomini siano salvati! Quando prego per i defunti, penso a tutti i miei amici
che sono morti ma nelle loro vita non hanno frequentato la Chiesa. Ma erano
uomini buoni (io li definisco buoni di natura), onesti, lavoratori, buoni padri
di famiglia, hanno cresciuto i loro figli insegnando loro sani principi, dove e
quando hanno potuto hanno fatto del bene…: e allora? Dio come li giudicherà? Ed
ecco la magica parola: MISERICORDIA. Sì, Gesù è morto anche per loro, è risorto
anche per loro. Poi penso ad un paesino sperduto della Cina, dove nessuno ha
mai sentito parlare di Gesù e dove non è mai giunta la Parola di Dio. Mi
domando: ma anche loro sono figli Suoi, non li ama come ama me? Ed ecco le
parole del Papa: “Se avranno seguito la propria coscienza la Misericordia di
Dio sarà grande, e forse anche di più”. Sì, perché penso a me; penso a tutti
noi, uomini e donne di questo mondo occidentale, dove si può dire che non ci
manca niente, dal lato materiale. E dal lato spirituale abbiamo ricevuto tutto
(almeno la stragrande maggioranza), a cominciare dal Battesimo. La Parola di
Dio è giunta a noi, giunge a noi tutti i giorni, la Sua mensa è preparata per
noi tutte le domeniche nella Santa Messa, i nostri pastori circolano in mezzo a
noi, sempre pronti per insegnarci la via, per guidarci, per ascoltare i nostri
peccati e, in nome di Dio, assolverci. E allora? Ecco, io ho paura. Sì, perché il giorno che
verrò giudicato (e viene, viene stiamone certi) non potrò dire: ma io non
sapevo, non credevo, non avevo tempo. Abbiamo
avuto molto e ci chiederà molto! E allora anche noi invochiamo la Sua
Misericordia. Misericordia, Gesù, Misericordia!
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La storia di Alma
di Marta
Correva
l’anno 1912 e a Emilia e Lazzaro era nata la loro prima figlia che avevano
chiamato Alma. Dopo nove mesi ne è venuta al mondo un’altra, poi un’altra
ancora, fino alla Settima, poi, finalmente, era nato un maschietto. Ma non era
finita: ancora femmine fino alla quindicesima! Alcune, le più deboli, erano
morte ancora piccine, di stenti, di tifo o altre malattie; ne erano rimaste
otto, le più sane e robuste. Alma, la prima, si occupava delle sorelline per
quanto in quello squallore era possibile. Lazzaro faceva il contadino e, quando
vendeva un po’ del raccolto, con quei denari passava subito dall’osteria a bere
e offrendone a tutti. Chissà come, ma anche in quella miseria le bambine
crescevano senza troppo lamentarsi. Il padre-padrone con tutte quelle femmine,
le costringeva ad alzarsi il mattino presto, con pioggia o vento o gelo, e a
fare il giro dei campi con i piedi congelati in miseri zoccoli e pochi stracci
addosso. Lazzaro
era un ometto magro, con occhi chiari e come di ghiaccio e due baffetti
sottili: il suo aspetto incuteva timore; era un anarchico convinto e, negli
anni a seguire, quando era ubriaco, urlava a squarciagola: “Morte al
fascismo!”. Botte, purghe e prigione non gli sono mancate, ma l’arroganza non
gli veniva mai meno. Sono rimaste sempre unite queste sorelle e ricordavano,
anche dopo diversi anni, quando il padre le picchiava con crudeltà anche solo
perché gli rispondevano: metteva una corda in ammollo nell’acqua, così
diventava più rigida e faceva più male mentre colpiva le loro gambette; i
lividi vi rimanevano per dei mesi: via i vecchi, pronti quelli nuovi. Lazzaro
morì ubriaco, ancora in buona età, cadendo giù dal carro tirato dai buoi; e così
cessarono le nascite e le morti. Quando
ad Alma chiedevano della sua infanzia, rispondeva che lei non l’aveva mai
vissuta; diceva: “Non ho neanche succhiato il latte della mia mamma, perché ho
dovuto cedere il posto alle sorelline”. Quando Alma era ancora fanciulla era andata
servizio in una casa signorile e, con i pochi soldi guadagnati, sognava di
comprarsi un vestito nuovo e un paio di scarpe, ma non aveva fatto i conti col
padre che l’aspettava all’uscita, si faceva dare quei soldi, per poi passare
alla solita bettola dove li sperperava ubriacandosi con gli amici. Un giorno
Alma, ormai giovinetta, tornando dal fiume a lavare i panni, aveva conosciuto
Michele, un bel marinaio alto, moro, occhi verdi, e aveva anche una bella voce;
tutte le volte che la incontrava le cantava la canzone del marinaio: quando
all’alba se ne parte e lascia la sua casetta con la dolce mogliettina che
l’aspetta… . Alma
non era mai andata a scuola, ma aveva imparato, autodidatta, a leggere e
scrivere avendo sempre tra le mani la “Famiglia Cristiana”. Si era finalmente
sistemata, era uscita dalla lunga miseria; era riuscita a farsi una casetta
accogliente, piena di fiori; era gioviale e dispensava sorrisi a tutti con la
sua bella bocca piena di denti bianchissimi; a chi le chiedeva quanti anni
avesse lei, se ne aveva 40, rispondeva che ne aveva 20, perché 20 li aveva
“dormiti”. Ripensando alla vita trascorsa diceva sempre: ”Ora potrei
permettermi anche una bella bistecca, in barba a tutte le privazioni! Ma, ahimé,
non posso più”. Alma
a 68 anni, improvvisamente affetta da un terribile male, in poco tempo se ne è
serenamente andata, senz’altro in Paradiso.
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Quel primo viaggio a Santiago di Compostela [seconda parte]
di Angelo Brizzi
Mancavano ormai una decina di
chilometri alla meta, infatti, poco dopo, un cartello stradale dava a chi
percorreva quella strada il Benvenidos en
Santiago de Compostela. La strada si faceva sempre più stretta, non per il
restringimento delle corsie, ma bensì perché le case si avvicinavano sempre più
alla carreggiata, una attaccata all’altra, tutte in fila, fino ad essere
tutt’uno col marciapiede. La cosa cominciava a preoccuparci non poco e costretti
a ridurre di molto la velocità e creando dietro di noi una lunga coda di auto.
Si procedeva in silenzio facendo attenzione ai terrazzini sporgenti, allorché
una vettura della Guardia Civil ci sorpassò e andò a posizionarsi davanti a
noi, facendo apparire nel lunotto la scritta: “Sigen nostro, por favor” (seguiteci, per favore). Li abbiamo
seguiti e ci hanno condotti ad un parcheggio adibito alla sosta dei pullman;
era spazioso e ordinato e, olte alla custodia continua, offriva un bar con
cucina e servizi con docce. Ringraziato gli agenti e parcheggiato i nostri
mezzi, dietro consiglio dei custodi abbiamo preso alloggio in una posada, lì vicino e, dopo una belle
rinfrescata, avendo alcune ore di tempo prima della cena, abbiamo deciso di
dare una prima occhiata alla città. Dopo un breve percorso, ammirando i
bei palazzi, monumenti e vetrine siamo giunti nella piazza della Basilica
brulicante di gente. Il mio sguardo è stato subito attratto dalle magnifiche
due torri della Cattedrale poste una per lato della parte frontale, come due
sentinelle a difesa della sua preziosità., ed ho provato una gioiosa emozione:
pensavo di aver raggiunto il punto centrale della cristianità. I miei due
giovani colleghi mi hanno chiesto: “Qual è il motivo dei lucciconi che ci vengono
agli occhi?”. Ho loro risposto che il motivo lo troviamo nel guardarci attorno:
vedere quella moltitudine di pellegrini oranti che gremisce la piazza, in
maggior parte giovani provenienti da diverse nazioni come testimoniano le
bandierine appese agli zaini, tutti attrezzati per il lungo viaggio e per le
soste notturne, tutti sereni e felici. Per gran parte di loro, oltre allo zaino,
faceva parte dell’equipaggiamento il classico bastone del pellegrino, el bordon, un particolare bastone per
viandanti: ha una misura approssimata a chi lo usa; la parte superiore è
ricurva; poco più su della cintura vi è attaccata una concha (conchiglia) e una
cantimplora (borraccia), ossia una zucca secca, molto usata nelle cantine
dai nostri vecchi aperta alla fine del manico e richiuso con un tappo di
sughero, contenente acqua; la conchiglia veniva usata per raccogliere l’acqua
dalle sorgenti basse fin sotto il livello stradale, con essa si può bere o
riempire la borraccia. I pellegrini, spontaneamente, avevano formato una
colonna di tre file e, procedendo lentamente, vanno a compiere il ‘giro del
pellegrino’ all’interno della Cattedrale. Ci siamo uniti a loro riuscendo con
santa pazienza a varcare il portale della chiesa. Una volta all’interno ci
apprestiamo a compiere il giro come pellegrini: attraversiamo il ‘portico della
gloria’ adornato di statue di Santi; nel fianco di una colonna, sotto la statua
di San Giacomo, si vede l’impronta delle dita di una mano, è lì che i
pellegrini affaticati dal lungo viaggio, posano le loro dita a significare il
raggiungimento della meta e la fine del pellegrinaggio, ognuno con un proprio
desiderio da chiedere e sperare. Fatto quel giro emozionante ci
ritroviamo sotto al gigantesco botafumerio,
un gigantesco turibolo attaccato alla volta della cupola. Durante le funzioni
viene fatto oscillare sopra i pellegrini da otto uomini che indossano una lunga
veste rossa dispensando su tutti fumo d’incenso. Si dice che questo veniva
fatto per ridurre l’acre odore di sudore che saliva dai pellegrini; oggi è
spettacolo per pellegrini e turisti. A questo punto faccio notare ai miei
colleghi la presenza, vicino alle pareti, di sacerdoti con cotta e stola viola:
mi guardano sgranando gli occhi, hanno capito quello che vorrei che facessero,
ma si rifiutano con mille scuse; però con calma e gesso le cose si aggiustano,
dice un proverbio; e così, piano piano, tenendo vivo l’argomento confessione,
siamo tutti e tre in fila per un bell’atto penitenziale, in un luogo saturo di
spiritualità. Sono ormai le ore 21, non c’è la Santa Messa, ma in punti
segnalati si distribuisce l’ostia consacrata: il Corpo di nostro Signore.
Usciamo dalla Cattedrale un po’ più leggeri per aver scaricato il peso di
qualche peccatuccio e contenti di esserci riappacificati col Padre Celeste.
Come tre comari in ciarle siamo rientrati alla posada per consumare la cena e ritirarci nelle nostra camere. La mattina seguente ripercorrendo le
strade e viuzze del giorno prima e aver spedito qualche cartolina, siamo giunti
davanti alla Cattedrale gremita ancora di più della sera prima. Abbiamo appreso
da alcune locandine dell’arrivo dell’Obipso
(il vescovo) di Cordoba: anche lui arrivava dopo aver percorso per tre giorni,
a piedi, l’ultimo tratto del camino dell’Andalusia.
Durante la Santa Messa presieduta dal Vescovo abbiamo avuto modo di ammirare lo
spettacolo del botafumerio in azione
nel dispensare ai fedeli il profumato fumo d’incenso. Altre volte ho avuto occasione di
recarmi a Santiago di Compostela; mai ho potuto percorrere il camino. Il più lungo e conosciuto è il
‘cammino francigeno’; il suo percorso inizia a Roncisvalle, in Francia, entra
attraverso i Pirenei in Spagna, quindi per Pamplona, capitale della Navarra,
prosegue passando sul Puente la Reina, punto
storico d’incontro tra il camino francese
con quello che sale da Aragona, incrocia poi Logrono nella Rioja, Burgos, nella Castiglia, punta su Astorga,
città romana, lì si interseca col camino che
arriva dalla lontana Andalusia, sfiora Ponferrada…
ormai mancano pochi chilometri, il più è fatto; il pellegrino è stanco ma
felice; ha percorso i suoi 800 chilometri per arrivare lì, a Compostela, ad
onorare il Santo Apostolo, il Figlio del Tuono. El
milnovecientasochentaysiette, el Consejo de Europa, declarò el camino de Santiago como Itinerario
Cultural Europeo”.
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