Un vestitino bianco
Pure, l’ebbi, quel giorno, il mio vestito
bianco, in organza, un poco troppo corto,
un veluccio di tulle, una borsina,.
con dentro la corona del rosario
e il libriccino delle devozioni,
le scarpe nuove; e poi ci fu il pranzetto
cui invitai le mie tre o quattro amiche;
e inoltre confetti e regalucci.
Quel giorno era di pace, lo doveva.
Ma fu solo una tregua: ché in famiglia
la pace era fuggita già da tempo.
Per questa festa quante discussioni
e prima e dopo e sempre e ancora e ancora!
Pure, l’ebbi, quel giorno, il mio vestito.
I contrasti nella mia famiglia, riguardo al modo di comportarsi nei confronti dei gravi lutti che l’avevano colpita, non solo non cessarono, ma si fecero più acuti, quando si avvicinò per me il momento di fare la prima Comunione; che avrebbe dovuto essere un momento di concordia, di serenità e di pace. La mia partecipazione al sacramento, a motivo della duplice perdita, era già stata rinviata, per cui non era più possibile rimandarla ancora.
La famiglia era divisa: da una parte c’erano mia madre, nonna Iole e zio Mino, che intendevano non farmi pesare troppo la situazione ed offrirmi qualche piccolo festeggiamento, nonostante il dolore di quelle morti e le ristrettezze economiche piuttosto gravi. All’opposto, nonna Giselda, zia Elena e, influenzato da loro, anche mio padre, volevano che la cerimonia per me si svolgesse nella più disadorna austerità, al fine, dicevano, di continuare a osservare il lutto: nessun tipo di festeggiamento e nemmeno (e questa era la cosa che più offendeva la mia sensibilità di bambina) l’abito bianco. Si pretendeva addirittura che andassi all’altare insieme con gli adulti in un giorno qualunque, vestita comunemente. E così, senza che io ne fossi responsabile, per il solo fatto che esistevo e avevo le mie esigenze di vita, anche in quella occasione, come spesso altre volte, mi trovai al centro di discussioni che non finirono neanche in seguito, ma che, per un motivo o per l’altro, si protrassero per anni, facendomi sentire tutte le volte in qualche modo in colpa.
Allora, però, in tutto quel loro discutere, io capii solo che era in pericolo il mio abito bianco che tempo andavo sognando. Il resto, cioè il diverso modo di vedere le cose tra le due fazioni, i motivi profondi delle discordie che dividevano i miei famigliari, lo compresi a mano a mano che crescevo. Per il momento su tutto fu più forte il timore di non avere il mio vestito bianco. Sapevo, però, che mia madre in questa vicenda era mia forte alleata. La quale, infine, visto che non si veniva a nessun accordo, e che non c’era più neanche il tempo di far fare il vestito ad una sarta, prese la sua decisione: aveva ancora da parte un po’ d’oro di famiglia; lo vendette e così un bel giorno mi mise sulla corriera e mi condusse in città, a La Spezia, dove mi comprò un abito bianco, in organdis, già confezionato. Nell’acquistarlo, però, non si accorse che il capo era un po’ troppo corto, perché pensato per una bimba più giovane di almeno un anno; e di questa sua inavvertenza si crucciò poi per diverso tempo. Ma io di quell’abito, che avevo corso il pericolo di non avere, fui deliziata; e poi era corredato di un velo di tulle, di una borsina della stessa stoffa del vestito per tenervi dentro la coroncina del rosario e il libriccino delle devozioni. E inoltre ci fu l’acquisto di un paio di scarpe bianche. E la mamma non mi fece neanche mancare qualche immaginetta-ricordo in pergamena. Un lusso per quei tempi.
La mia felicità era al colmo. Anche perché errano incominciati ad arrivare i regalini degli amici: per lo più ricordini: immagini sacre in metallo dentro piccole edicole. Lo zio Mino, che da tempo era disoccupato e quindi impossibilitato a farmi il bel regalo che avrebbe voluto, mi donò, prendendola dalla biblioteca di famiglia, la Gerusalemme Liberata, di Torquato Tasso, un’edizione antica, rilegata in pelle e oro e illustrata. A me i regali piacquero tutti, anche la Gerusalemme, che sfogliavo e risfogliavo. Insomma ero nella più grande contentezza e non avevo la maturità per preoccuparmi del nervosismo che c’era intorno a me. Attendevo solo il momento di indossare il mio vestito. Ma, non sembri strano, trepidavo anche perché stavo per incontrare Gesù. Infatti ero stata brava a dottrina ed ero tutta compresa dell’importanza di quella giornata. Credo però che, se non avessi avuto il mio vestito, mi si sarebbe guastata anche quell’altra mia intima gioia. Ma fortunatamente non fui messa alla prova.
Finalmente il gran giorno arrivò. Ero felice. Mi sentivo carina, al centro dell’attenzione e importante. Quanto fu bella quella giornata lo si può constatare dal mio sorriso nelle due uniche foto che ho di quell’importante occasione: una bimba serena e fiduciosa, su cui invece, per mancanza di serenità nel cuore degli uomini, si stavano addensando, ma lei ne era ancora quasi del tutto ignara, grossi nembi crucciati e tempestosi.
(dal libro La casa sepolta, ed. Albatros)