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UNA TOMBA SENZA NOME
di Maria Giovanna Perroni Lorenzini (da “La casa sepolta” ed. Albatros)
Fratellanza
La più amara di tutte le guerre
è la guerra civile:
il padre contro il figlio;
il fratello contro il fratello.
Sotto i miei occhi di bimba sgomenta,
per anni, una stessa famiglia, un paese,
così tristemente divisi:
la più amara di tutte le guerre…!
Mio padre l’aveva vissuta:
con rabbia, con odio, con tutto se stesso.
Poi non seppe staccarsene; e ne soffriva.
Allora mi disse: “Tu non sarai come me,
tu non odierai tuo fratello:
io ho sbagliato; ma tu non odiare!”.
Oh, se tutti potessero dire:
“Qualche volta lottai, però senza odiare!”.
E’ l’odio più atroce quello per chi ci è fratello.
La più amara di tutte le guerre…!
Per alcuni anni, quando adolescente, mi recavo ormai da sola al cimitero, nel distribuire i fiori che avevo portato con me, serbavo un fiore che era destinato ad una tomba che non aveva un nome. Essa si trovava quasi all’ingresso del cimitero, appena salita la prima rampa. Era un piccolo rialzo di terra e, a capo, portava una croce di legno, che però non era nuova: si trattava di uno di quei segni provvisori che si mettono sule tombe in attesa della lapide di marmo e che portano il nome del morto segnato in vernice nera: Una croce, quindi, che era già stata adoperata. Ed ora la parte col nome era rigirata verso il muro. Per cui agli occhi del visitatore essa non mostrava nomi. Quello dell’uomo che giaceva lì sotto, se mai qualcuno del mio paese lo conosceva, non era mai stato reso pubblico. La tomba non recava neanche un vaso per i fiori. Ed io piantavo il mio un poco nella terra e poi lo annaffiavo, perché durasse più a lungo possibile. Però qualche altro fiore sopra ogni tanto ce lo trovavo. Quindi non ero io sola a mettercene, quasi di nascosto. E soprattutto la tomba era pulita, non invasa da erbacce. C’era un’altra persona, o forse erano più di una, che le prestavano qualche cura. Tutti i miei compaesani sapevano infatti chi giaceva lì sotto e perché. E anch’io lo sapevo. Anch’io avevo visto, sia pure per pochi momenti, il viso del giovane prima che andasse ad occupare quella fossa.
Forse era la primavera del ’45, a ridosso della Liberazione. Mia madre ed io tornavamo da Vissano, una delle nostre terre e, superata la Madonnetta, stavamo scendendo accosto a Montebarucco, quando, scorgemmo un gruppo piuttosto numeroso di persone che veniva verso la nostra volta sullo stesso lato della strada e nel gruppo si scorgeva una certa animazione. Mia madre, immaginando di che si trattava, poiché aveva sentito parlare della cosa, si scostò verso l’altro lato della via e mi si parò davanti, come per impedirmi di guardare. Ma io, sempre piena di curiosità e non sospettando il male che avrei visto e che non avrei mai più dimenticato, mi spostai un poco e così potei vedere tutta la scena. Il gruppo era formato da pochi uomini e numerose donne; queste si scagliavano, ora l’una ora l’altra, addosso a un giovane, insultandolo, lanciandogli sputi e graffiandolo. Gli uomini erano seri e composti, ma non facevano nulla per fermare quelle che a me parvero furie scatenate, ma che avevano i volti noti delle donne del mio paese. Il giovane in questione, che forse aveva le mani legate, cercava senza riuscirci di allontanare la sé quello sciame inferocito, arretrando un poco la testa; e intanto guardava intorno come in cerca di un impossibile aiuto. E vedendo mia madre e me, volle indugiare un istante, forse perché il quadro che aveva davanti agli occhi, una mamma e una bambina, era un quadro di pace, era tanto diverso dall’orrore che lo circondava; o forse perché sperava in qualche mossa d’aiuto di mia madre; ma lei assisteva pietrificata e non se la sentì di pronunziare nemmeno una parola, né in difesa né a compianto, anche perché apparteneva ad una famiglia già compromessa, in cui c’erano stati dei fascisti. Passò così un lungo momento. Ma il gruppo incalzava e il giovane dovette procedere portandosi dietro il suo grappolo infuriato. La mamma fece allora di corsa il resto della strada e, una volta a casa, non poté trattenersi dal raccontare l’incontro fatto ai famigliari; e così anch’io seppi tutta la storia, o almeno la parte che se ne conosceva. Si trattava di un appartenente alle famigerate Brigate Nere, che era stato catturato e condannato a morte. E quella era la sua ultima passeggiata verso l’esecuzione.
E dopo la morte era stato sepolto lì nel cimitero, bene in vista, senza nemmeno una croce. Quella che ci fu messa sopra più tardi, credo che vi sia stata posta da una donna, che pure avrebbe avuto qualche ragione di odio, perché apparteneva all’altra parte politica e perché nella guerra aveva perduto una persona cara. Lei non poteva certo essere sospettata di connivenza con i fascisti. E, donna di pace, sapeva che l’odio non deve durare oltre la morte. Ed era sempre lei a mettere non di nascosto, ma apertamente qualche fiore su quella tomba. Ed io, ancora oggi, non posso che provare ammirazione per una persona che, pur senza conoscerli, seguiva antichissimi sacri insegnamenti: quelli dell’Antigone di Sofocle e delle Supplici di Euripide, le tragedie greche in cui si esaltano leggi che non sono mai state scritte dagli uomini, ma che sono insite nel loro cuore; ed esse, basta saperle ascoltare, ci impongono di onorare il mistero della morte, anche nella persona di un nemico. E chi sarà stato quel “nemico”? Un colpevole, forse. Ma poteva anche essersi trattato, data la sua estrema giovinezza di un arruolato dell’ultima ora… Come l’altro, quasi un ragazzo, che ci aveva aiutato durante il nostro rientro ad Arcola da Pola: un montanaro che, senza idee politiche, andava ad arruolarsi in uno di quei corpi solo perché pagavano bene.
Ed io, che a Pola non avevo ben percepito i pericoli della guerra, e che anche poco dopo, a Arcola, non m’ero resa immediatamente conto del significato dei lutti che avevano colpito proprio la mia famiglia, quel giovane invece lo avevo potuto vedere bene, nella sua disperazione e nella sua paura; come avevo dovuto guardare il furore, per me allora inconcepibile,di quelle donne, che non mi parevano più appartenere al mio paese. E fu certo lì che, per la prima volta, capii anche che la più amara/ di tutte le guerre/ è la guerra civile.
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LA VEGLIA VICARIALE A LUNI MARE
di Paola G. Vitale
Cari amici, Buon Natale a tutti! Grazie di essere venuti così numerosi nel nostro “archetto” e grazie ai sacerdoti ”un po’ speciali” che assieme a don Andrea ci hanno onorato della loro presenza. Don Roberto e il piccolo gruppo di cantori, guidato da Achille, hanno celebrato sereni e anche Walter ha letto chiaramente per tutta l’assemblea.
Nel misterioso segno del pane, esposto per santificarci, Gesù era in mezzo a noi, mentre io pensavo alla Sua divina potenza, per la presenza Sua in ogni parte del mondo, contemporaneamente a noi.
Allora, nella comunione di tutti i cuori del mondo, di quelli imploranti, dei riconoscenti, dei puri lodanti, mi è uscita spontanea questa preghiera: “Pietà di me, Signore; rimani sempre con noi e donati ancora anche ai più lontani, per fare piena anche la nostra gioia”.
Al termine della celebrazione don Andrea è salito al microfono del lettore per comunicarci il prossimo incontro del nuovo anno nella chiesa di Maria Ausiliatrice, a Isola. Sempre a Dio piacendo.
Allora, Auguri anche a chi non è potuto venire ma che ricordiamo con affetto.
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SUI PASSI DI S FRANCESCO
di FRANCESCA
“Buon giorno buona gente” ! E’ così che ci accoglie il Santuario di Poggio Bustone (RI) o semplicemente detto Romitorio Inferiore dopo circa due chilometri di cammino. Ed è così che S. Francesco salutava gli abitanti del posto quando per la prima volta giunse nel borgo alle pendici degli Appennini, nel 1209 con i suoi compagni, perseguitati in patria e alla ricerca di un luogo ospitale che trovarono proprio in Poggio Bustone.
“Pace infinita”! Entriamo nella piccola ma avvolgente chiesetta. Mi commuovo: S. Francesco è presente , si può quasi sentire nella sua semplicità. Il silenzio ci invita a pregare; così facciamo senza aver voglia di smettere. Decidiamo allora di tornare giù in paese, prendere dei panini e tornare. Arrivati, di nuovo ci sediamo fuori dalla chiesetta, mangiamo in silenzio assaporando il panorama e tutto ciò che rappresenta l’umile Francesco in quel luogo santificato dalla sua presenza. Non desidero essere da nessun altra parte.
Nel pomeriggio ci incamminiamo a piedi sulla montagna che porta all’Eremo (romitorio) superiore, dove il Santo ebbe la visione che gli confermò il perdono dai peccati giovanili e dove gli fu predetta un’espansione prodigiosa per il suo Ordine. Da lì sarebbe partita la sua missione di pace. Arrivati troviamo una chiesetta incastonata sotto una roccia e seminascosta nel bosco. Eravamo soli: silenzio, luce intensa e profonda, invito, raccoglimento sono alcune sensazioni che ho provato. Siamo giunti all’eremo attraverso un sentiero immerso in un bosco di roverelle, aceri e carpini e dove furono erette sei cappelle a ricordo dei miracoli avvenuti sul luogo, tramandati dalla tradizione popolare. Cinquanta minuti di cammino per arrivare in quel luogo incantato dove Francesco aveva spesso trovato riparo e riposo nei suoi pellegrinaggi. Francesco amava Gesù più di ogni altra cosa e soffriva per l’imperfezione di questo amore. Un giorno, piangendo, disse:
“Amo il sole,
Amo le stelle, amo Chiara e le Sorelle.
Amo il cuore degli uomini.
Amo tutte le cose belle.
Oh Signore! Mi devi perdonare
Perché solo te dovrei amare!” Sorridendo il Signore gli rispose così:
“Amo il sole, amo le stelle,
amo Chiara e le Sorelle.
Amo il cuore degli uomini,
amo tutte le cose belle.
Oh Francesco! Non devi piangere più
Perché io amo ciò che ami tu.”
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San Martino e San Francesco (ricordi di un tempo francescano)
di Don Romeo Rossetti (già Parroco di S. Martino di Casano)
Essendo io parroco di San Martino, ogni giorno, terminata la celebrazione della Santa Messa, quando il tempo lo permetteva, mi portavo sul piazzale davanti alla chiesa e vi passeggiavo per lungo tempo recitando il Breviario.
In un certo giorno cominciai a notare che in fondo alla scalinata sostava abitualmente un certo giovane di bello aspetto e molto educato, che seppi, poi, di una parrocchia vicina di nome Doretto e , così mi risultava, piuttosto contrario alla vita parrocchiale e discretamente impegnato nella politica di sinistra, munito di una moto di grossa cilindrata la cui marca era la Mondial. Dovendo io passare più volte per la scalinata, un certo giorno cominciai a conoscerlo e ad intrattenere una certa conversazione con lui, tanto che in poco tempo diventammo amici e quasi fratelli . Questa amicizia portò poi a delle confidenze personali fra cui per esempio un amore notevole per le motociclette che entrambi usavamo abitualmente per i nostri personali interessi.
Da quel tempo cominciammo a viaggiare insieme con la sua Mondial con delle mete sempre più lontane e impegnative: ad un certo punto i nostri itinerari divennero specialmente religiosi e particolarmente francescani : Assisi, La Verna, S. Maria Degli Angeli, la Porziuncola ecc.. Cominciai ad un certo tempo a notare che eravamo entrambi trasformati spiritualmente in quanto avevamo ormai quasi assorbito lo spirito di S. Francesco: la povertà, l’umiltà,la preghiera... Il cambiamento, con mia grande gioia, era avvenuto specialmente in lui. Dopo poco tempo dovetti lasciare la parrocchia di S. Martino per andare a Valletti di Varese Ligure per accontentare il Vescovo e anche in questo caso fu proprio Doretto ad accompagnarmi con la sua moto in quella parrocchia dove si fermò anche lui per alcuni giorni per aiutarmi, dopo di che ci lasciammo per qualche anno; dopo il pensionamento egli ad un certo momento fu colpito da una gravissima invalidità; però, da quanto egli mi ha riferito, anche in quel periodo egli ha saputo sopportarla in quanto la sua vita religiosa, inizialmente modesta come ai tempi dei nostri pellegrinaggi francescani, si era ulteriormente perfezionata e sviluppata anche perché, imitando S. Francesco, si sforzava di partecipare alla passione di Cristo.
Dopo tanti anni ci siamo rincontrati mediante scritti o telefonate: da tutto ciò ho capito che il mio grande amico aveva fatto degli enormi progressi nel campo spirituale anche parrocchiale e ciò mi procurò una grande gioia e soddisfazione anche perché, per quanto modestamente, anch’io avevo contribuito a creare quella situazione, senza però che io abbia a vantarmi di tutto ciò perché in fondo tutto avviene per l’intervento diretto del Signore Gesù, mediante lo Spirito Santo.
Caro Doretto scusami se mi sono permesso di trattare di una tua cosa molto delicata; continua così, nella massima umiltà perché così facendo sei sulla via della perfezione che ti porterà poi a suo tempo all’abbraccio del Divin Padre e al godimento della visione Beatifica.
Varano Dè Melegari 24 Dicembre 2012
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Auguri di Don Giovanni
di Don Giovanni Dalla Mora
Disse l’angelo ai pastori:
“Vi annuncio una grande gioia: oggi è nato il Salvatore (Lc 2,10-11)
E’ un evento che tutti conosciamo e che non finisce di stupire. Natale è qui: celebrare l’amore di Dio fatto visibile in Gesù di Nazareth , figlio di Dio e di Maria.
Dio è entrato nella famiglia umana e noi nella famiglia di Dio.
Dio ha amato l’uomo. Dio ama l’uomo.
Rallegriamoci ed esultiamo!
Auguri di Buon Natale e Felice Anno Nuovo a tutti.
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Dal mio viaggio in Brasile
di Angelo Brizzi
Genorio e o pai do mato (Genorio e il padre del bosco)
Novella per le classi primarie della creche (scuola materna) tratta dalla rivista “Ciencia Hje”.
Egli abitava nei boschi e nelle foreste, luoghi poco praticabili e quasi chiusi dall’intrecciarsi dei rami e liane, in cui vivono molti animali, tra i quali anche specie molto rare. Senza alcuna pietà impaurisce chi osa maltrattare o cacciare gli animali protetti: è conosciuto come il padre del bosco. Chi se lo trova di fronte prova una certa ripugnanza nel guardarlo, però si dice che è una creatura strana e paurosa. Comunque - è bene che si sappia - appare solo a chi mette in pericolo gli animali e ai cacciatori.
Genorio era uno che stava nella mira del padre del bosco; buon cacciatore, si divertiva a catturare gli uccelli. Passeggiando per i boschi quando avvistava qualche bell’uccellino, con la sua spingarda caricata a pallini, lo abbatteva e se lo portava a casa; poi, a casa, li mostrava come trofei agli amici e colleghi i quali lo avvisavano : “Ooolhà, Genorio, cuidado com o pai do mato!” (Attento, Gregorio, con il padre del bosco!). Ma lui non li ascoltava e tirava dritto: dava di spalla e continuava a narrare della sua ultima prodezza.
Una domenica Genorio si svegliò e si sentì particolarmente ispirato a cacciare la sua migliore aves nos seus passeios (il miglior uccellino delle sue passeggiate) per la foresta. Girovagando ne vide tanti di uccelli, ma uno solo ne prese di mira: bello, grosso, tutto colorato che cantava con toni alti e belli. Egli stava nascosto a scrutare il volatile, quando udì uno strano rumore; gli arbusti venivano scossi in modo travolgente, sembrava che qualcosa di enorme entrasse nella selva: sembrava uno scalpitio ma diverso da quello di asini o cavalli. Ma Genorio non si impressionava di niente; dando di spalla nuovamente, continuò a star concentrato a prendere di mira la bella preda. Di scatto l’uccello spiccò il volo per posarsi sulla cima di un frondoso albero molto alto. Fu in quel momento che Genorio vide la strana creatura: stava lontano e oscillava la testa per Genorio come segnale di diniego ed esibiva sulla sua spalla l’uccello protetto. La sua espressione era seria e nella sua bocca aperta spuntava un dente appuntito. Genorio, impaurito, scappò via di corsa gridando: “Ohlà, quello è molto più alto di un uomo, molto di più; è tutto peloso: anche le mani e piedi sono pelosi! Ha una lunga barba nera che gli arriva fino ai piedi; ha un dente orribile e il suo naso è azzurro! Aiuto!”. Tutto questo gridava Genorio correndo fino a casa sua. Era il pai do mato? Sicuro che lo era; gli amici lo avevano avvisato.
Si dice che dopo aver spaventato tanti cacciatori questa creatura va girando per la foresta montando un cateto, una specie di cinghiale selvatico ma molto più grande, e con le sue narici azzurre annusa le persone che vanno per la foresta percependo le loro intenzioni.
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UNA LUCE NELLA NOTTE
di Doretto
Mi ritorna alla mente prepotentemente il ricordo di una Santa Messa della notte di Natale di tanti anni fa. La chiesa era quella di Marina di Carrara (nella quale mi ero sposato). Appena entrato ho notato che la chiesa era quasi buia e mi sono chiesto cosa significasse tutto ciò. Poi inizia la celebrazione: dopo l’introito e l’atto penitenziale, ecco il “GLORIA” (omesso per tutto il periodo dell’Avvento).
Appena pronunciate le parole “Gloria in excelsis Deo…” un fascio di luce sfolgorante illumina il Bambino Gesù posto nella culla sull’altare; poi, piano piano, sempre crescendo, tutta la chiesa si riempie di una grande luce, quasi accecante. Grande la commozione di quel momento. Gesù era nato, e con Lui la luce nel mondo. Secondo me quel prete che aveva pensato a tutto questo era un artista. Sì, perché con quella scenografia aveva raccontato, in sintesi, tuta la storia della salvezza. Gesù era la Luce ; Gesù è la Luce! Il tema della luce attraversa tutta la Sacra Scrittura: la separazione della luce dalle tenebre fu il primo atto creativo. E Gesù dice: “Io sono la Luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita!”. La luce è, in definitiva, la comunione con Dio e tra di noi. “Chi ama suo fratello dimora nella luce”, e mio fratello è ogni prossimo che incontro nell’arco della giornata, attimo per attimo.
Quando chiedo a padre Onildo l’olio per la mia lampada affinché non abbia a spegnersi, mi auguro che questa luce rimanga accesa fino a quando verrà lo Sposo.
Il Natale è ormai passato, ma facciamo sì che questa Luce che è venuta nel mondo non abbia mai a spegnersi in ciascuno di noi. Se abbiamo sempre questa Luce accesa, siamo nell’amore; se siamo nell’amore Gesù è con noi, dentro di noi, nel nostro cuore.
E allora la vita avrà senso, qualunque cosa ci capiti, perché è Lui la vita, la felicità sulla terra, e per sempre. Ma la luce non si può nascondere, infatti Gesù ci dice: “Voi siete la luce del mondo, ma non si accende la lucerna e la si pone sotto il moggio, ma sul porta lucerna e fa luce a tutti… Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini affinché vedano le vostre opere buone”.
Ecco l’evangelizzazione. Ricordiamocelo!
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