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RACCONTO DI UNA VITA VISSUTA DRAMMATICAMENTE
di Marisa Lisia
Si tratta di una mia zia carissima, nata nel primo novecento da una famiglia numerosissima: Gemma sarà il suo bel nome. La nonna però non ha latte ed è costretta a metterla a balia; ma la creaturina non è custodita a dovere, sta morendo di inedia e di fame, relegata in una stalla. I nonni se ne accorgeranno appena in tempo; hanno poche speranze che possa sopravvivere. Sarà proprio la piccola Gemma a risolvere la situazione: mentre la maggiore delle sue sorelle sta mangiando un bel piatto di spaghetti con lei in braccio, con grande piacevole meraviglia di tutta la famiglia, allungando le sue manine ormai scheletrite, in un batter d’occhio afferra quanti spaghetti può e giù in un sol boccone. E’ la conferma: la sua era veramente fame nera; ora è salva in casa sua, ma camminerà molto tardi.
Si fa comunque una bella bimba dai bei capelli rosso rame naturalmente ondulati. Diventa signorina, ma è vistosa ed ha una innata procacità che la distingue dalle sue coetanee: per quell’epoca una vera calamità. La nonna si spaventa con questa ragazzina così fuori del comune e la manda, credendo di agire per il suo bene, a Roma da una sua sorella, ma che fallirà miseramente nell’educare la nipote che si troverà sul lastrico, senza denaro, né casa, senza amici su cui contare: è sola e abbandonata. Si dà perciò da fare, Gemma, per trovare un lavoro, anche il più umile, ma le verrà regolarmente rifiutato, sebbene gentilmente. Ahimé, la vita sta per travolgerla, ma il buon Dio non sta a guardare impunemente. No, ha in serbo per lei il più ambito dei doni: l’amore, quello con la A maiuscola. Un bravissimo giovane si invaghisce di lei al primo sguardo, contraccambiato in pieno dalla ragazza. I due colombi si sposeranno in chiesa e, in viaggio di nozze, mano nella mano, andranno correndo in lungo e in largo per la bella città di Bologna, ebbri di felicità: è un’estasi completa la loro.
Ma, come in tutte le cose, c’è un ma: Gemma non gode della simpatia dell’arcigna suocera che la sminuisce agli occhi di tutti; ma la giovane nuora possiede un’invidiabile virtù: sa rendere il male con il bene. Ne è commossa , la suocera, che inginocchiandosi ai piedi di Gemma le chiederà perdono, piangendo. Giustizia è fatta e d’ora in poi sarà la prediletta delle nuore. Vivono felici gli sposi, ma i tanto desiderati eredi non arriveranno mai. Si prenderanno perciò cura di una nipotina tanto bisognosa di affetto e di cure. Quella nipotina diverrà la loro pupilla: sono io. Lei mi insegnerà con molta dolcezza e delicatezza il valore dell’onestà e della rettitudine. E’, soprattutto, la più fedele delle mogli. Solo l’infame guerra li dividerà per sempre: una bomba le porterà via il suo Ugo. Lei perderà ogni percezione della realtà e andrà correndo in lungo e in largo per la città disperata, chiamando ripetutamente il suo uomo, ma invano. E’ un amore unico , totale il loro, anche dopo la tragica fine. La tomba del marito sarà sempre la più fiorita e per lunghi dieci anni a un solo, triste appuntamento: Ogni giorno, per lunghi dieci anni, con il freddo gelido o il caldo torrido, lei è sempre là.
Io, negli ultimi momenti della sua vita terrena, le sono stata accanto, mano nella mano, sussurrandole all’orecchio una dolce ninna nanna. Così si è addormentata nel Signore un’eroica ragazzina di 87 primavere. Dopo la sua dipartita una ineffabile, indescrivibile, angelica armonia mi pervase. Era forse un tuo messaggio mia cara? Lo saprò quando ci vedremo in cielo.
P.S. Mi mancano tanto i tuoi indimenticabili, insuperabili manicaretti.
Un grazie sentito.
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LE MIE PRIME ESPERIENZE AD ARCOLA
di Maria Giovanna Perroni Lorenzini
(dal libro “La casa sepolta” - ed.Albatros)
OCCHI SGRANATI
Dai miei dorati sogni di bambina,
se mi scuoteva un intimo richiamo,
traevo in fretta un trasparente velo,
veste preziosa e forte usbergo insieme;
poi, senza più pure né pudori,
occhi sgranati come girasoli
puntavo sopra il mondo degli adulti.
Sacra curiosità, fiducia arcana!
Così, avvolta in quel velo, io mi affidavo
al fiume turbolento della vita.
Ripetei quei viaggi e a poco a poco…
Chi fu che mi tradì? Fu mio l’errore?
O la colpa è antichissima, ancestrale?
Ché, boccheggiando, a stento mi ritrovo
Aggrappata ad un misero brandello
Reliquia del mio velo delle Grazie,
tra morte e vita fragile confine.
Finché rimasi a Pola, in Istria, cioè dal ’40 al ’44, non ebbi una vera percezione della guerra, come ho già detto ne La pace delle bambole. Essa mi si era configurata come una cosa meravigliosa, come un insieme di luci, di voli, di gente: la gente era quella che vedevo ammassata per lunghe ore nei rifugi; e i voli furono più di uno: per esempio quando, durante il grande bombardamento della città, all’entrata del rifugio, fui scaraventata all’interno, volando per lo spostamento d’aria causato da una bomba caduta nelle immediate vicinanze. Ma io ho un ricordo piacevole di quel volo, come del resto delle luci, i fuochi cioè delle case incendiate, e i lampi e i rumori della contraerea. Rammento anche Rosina, la nostra domestica ad ore, sdraiata su una sedia in un rifugio con una gamba fasciata, perché nella ressa era stata calpestata.
Dalla guerra, dunque, fin che fui a Pola, io, ancora al di là del bene e dl male, non mi resi conto pienamente: prendevo tutto come scontato e naturale. Ho però ben chiaro nella memoria gli avvenimenti del mio viaggio di ritorno ad Arcola. Avvenimenti che descrivo nella poesia La pace delle bambole, che dà il titolo al mio precedente libro. Fu un viaggio lunghissimo, con i treni pieni di persone. Ho addirittura la visione dello scompartimento di uno di quei treni. E soprattutto il bombardamento della stazione di Bologna (il nome della città lo seppi poi da mia madre), durante il quale ci rifugiammo su di un tram. E fu proprio qui, sul tram, che per la prima volta ebbi la percezione, seppure lontana, di un pericolo; perché, attraverso i i vetri, vedevo sfrecciarmi vicini gli aerei che bombardavano. Ma, anche qui, mi bastò stringermi al petto le bambole che portavo con me e vedermi accanto mia madre e il mio adorato zio Mino, che ci accompagnava, per sentirmi abbastanza sicura.
Ma neanche le esperienze di guerra, che feci ad Arcola in quegli ultimi mesi del ’44 e nei primi del ’45, riuscirono a turbare del tutto la serenità del mio spirito, che per molti aspetti rimase quello di Pola. Ad esempio, anche ad Arcola continuai a cantare, pacifica, Lilì Marleen in tedesco…su ordinazione. Conoscevo la canzone perché l’avevo imparata a Pola dalle signorine del piano di sopra. E la mamma un po’ più tardi, ogni volta che si trovava in difficoltà davanti ai tedeschi, si servì dell’innocenza con cui la cantavo anche di fronte a loro (a Pola, infatti, ero stata ad a considerarli, anche dopo il ’43, amici e protettori contro i titini); in quei casi me la faceva intonare, spropositi e tutto. E allora c’era sempre qualche graduato, padre di famiglia, che si commuoveva scorgendo in me la figlia piccola o la nipotina, che aveva lasciato in Germania e interpretava subito meno rigidamente i regolamenti. A Pola la cosa era servita, in modo particolare, dopo l’armistizio, per portare aiuti ai soldati italiani, i quali erano tenuti prigionieri dai tedeschi e segregati in condizioni di estremo disagio. Tra di essi c’era anche qualche arcolano. Ad arcola ci servì soprattutto per arrivare a un terreno di famiglia giù al piano, un campo che altrimenti non sarebbe stato possibile raggiungere in quanto, per arrivarvi, bisognava attraversare una zona militare. Su questo terreno il mezzadro, che si chiamava Pietrìn, teneva una mucca che, fin che visse, dette del latte prezioso; che però morì presto per aver ingoiato dei chiodi. E, oltre al latte, Pietrìn ci riforniva di frutta (ricordo ancora i suoi fichi), di verdure e di insalata. Appena i tedeschi ci fermavano, la mamma mi dava una leggera spinta e subito io mi facevo avanti e cantavo con innocente disinvoltura; e, grazie a questa gherminella, non si tornava quasi mai indietro senza il nostro latte fresco.
Ma fu ad Arcola che feci la mia prima esperienza della morte di guerra, andando a vedere, all’insaputa dei miei e insieme con altri bambini, un sottufficiale tedesco ucciso proditoriamente durante una sua passeggiata a cavallo. Era la prima volta che vedevo un morto. Era steso tutto rigido, coperto con una bandiera, con intorno i soldati, suoi commilitoni, irrigiditi sull’attenti e tante donne, arcolane, che pregavano a voce alta (seppi poi che lo facevano per stornare dal paese la crudele vendetta di guerra messa in atto dai tedeschi). Uo, quindi, ricordo quel morto, sia pure solo in una rapida visione. Però mi fece maggior impressione la notizia che, per quella morte, seconda quella legge, erano state uccise dieci persone, scelte a caso, visto che nessuno aveva confessato di essere l’autore di quella uccisione. Soprattutto mi colpì l’altra notizia: che, per arrivare al numero prescritto di dieci, oltre a delle persone prelevate dalle carceri, era stato preso un povero studente ignaro che transitava, per caso, sulla via Aurelia. E la morte di questo studente fu quella che, tra tutte le altre, mi colpì e mi inquietò veramente e per lungo tempo.
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DE AMICIS, UNO SCRITTORE SFORTUNATO
di Carlo Lorenzini
Il De Amicis. Uno scrittore sfortunato, poco amato. Non amato dalla Chiesa perché troppo laico e poco cristiano; non amato dall’Italia perché ad un certo punto preferì il Socialismo alla Patria; non amato dal Socialismo perché il suo fu troppo sentimentale e poco rivoluzionario. Eppure in lui le classi operaie e contadine hanno avuto un campione di straordinaria sensibilità e coraggio.
Quelli dallo stile austero e controllato lo accusano di una scrittura troppo strappalacrime. E forse è vero. Ma come non commuoversi, e, spesso, come non urlare di sdegno, di fronte a certe pagine in cui si descrivono le miserevoli condizioni degli sfruttati, che lui chiama gli schiavi moderni? Ma, se il libro Cuore ha pagine in cui prevale il sentimentalismo, in altre opere (che la cultura ufficiale ha pensato bene di mantenere nell’ombra) abbiamo certe pagine che non muovono solo il nostro sentimento, ma anche il nostro sdegno, la nostra rabbia, la nostra sete di riscatto e anche di vendetta. Basterebbero solo i racconti mensili, a proposito dei quali non sempre riflettiamo a sufficienza che quegli eroi, quei martiri sono dei bambini; bambini sacrificati all’iniquità di una società che ha come divinità il vitello d’oro. Oppure, sempre in Cuore, l’episodio intitolato ‘In una soffitta’, che strappa veramente grida di sdegno. Si tratta di questo. Enrico sua madre e la sorella Silvia, dietro l’annuncio di un giornale (solo le iniziali del nome e l’indirizzo), vanno a portare un pacco di carità ad una famiglia che abita in una soffitta. Ma ecco il cuore del racconto:
…Salimmo fin sotto il tetto d'una casa alta, in un corridoio lungo, dov'erano molti usci. Mia madre picchiò all'ultimo: ci aperse una donna ancora giovane, bionda e macilenta, che subito mi parve d'aver già visto altre volte, con quel medesimo fazzoletto turchino che aveva in capo. - Siete voi quella del giornale, così e così? - domandò mia madre. - Sì, signora, son io. - Ebbene, v'abbiamo portato un poco di biancheria -.
E quella a ringraziare e a benedire, che non finiva più. Io intanto vidi in un angolo della stanza nuda e scura un ragazzo inginocchiato davanti a una seggiola, con la schiena volta verso di noi, che parea che scrivesse: e proprio scriveva, con la carta sopra la seggiola, e aveva il calamaio sul pavimento. Come faceva a scrivere così al buio? Mentre dicevo questo tra me, ecco a un tratto che riconosco i capelli rossi e la giacchetta di fustagno di Crossi, il figliuolo dell'erbivendolo, quello del braccio morto. Io lo dissi piano a mia madre, mentre la donna riponeva la roba. - Zitto! - rispose mia madre, - può esser che si vergogni a vederti, che fai la carità alla sua mamma, non lo chiamare -.
Ma in quel momento Crossi si voltò, io rimasi imbarazzato, egli sorrise, e allora mia madre mi diede una spinta perché corressi a abbracciarlo. Io l'abbracciai, egli s'alzò e mi prese per mano. - Eccomi qui, - diceva in quel mentre sua madre alla mia, - sola con questo ragazzo, il marito in America da sei anni, ed io per giunta malata, che non posso più andare in giro con la verdura a guadagnare quei pochi soldi. Non ci è rimasto nemmeno un tavolino per il mio povero Luigino, da farci il lavoro. Quando ci avevo il banco giù nel portone, almeno poteva scrivere sul banco; ora me l'han levato. Nemmeno un poco di lume da studiare senza rovinarsi gli occhi….
Crossi è compagno di scuola di Enrico. E’ un racconto terribile. In primo piano, come su un palcoscenico di teatro al centro della scena, la cruda miseria dei due sventurati. Sempre sulla scena, ma in un angolo a guardare i tre della buona borghesia, i quali, per ora, come rimedio a questa catastrofe sociale non hanno che il sentimento della carità e anche questo inquinato dagli scrupoli del perbenismo: - Zitto! - rispose mia madre, - può esser che si vergogni a vederti, che fai la carità alla sua mamma, non lo chiamare! -. Fuori scena ma incombente la crudele cecità di una società che fa del guadagno ad ogni costo, anche a costo della propria rovina, la massima delle aspirazioni.
Il libro Cuore, potente documento di una coscienza sociale in fieri (il De Amicis con ben altra consapevolezza scriverà poi le opere della sua dichiarata fede socialista), ma fatto passare ipocritamente come libro per ragazzi, dovrebbe essere stampato e divulgato con una fascetta editoriale, in cui si dice che è libro per grandi, anzi per tutti quelli che hanno responsabilità civili e politiche: per i deputati, per i senatori e per coloro che a vario titolo hanno il compito di amministrare la cosa pubblica.
Dicevamo degli altri libri (‘Sull’oceano’ 1889,’Il romanzo di un maestro’ 1890, ‘La questione sociale’ 1894, ‘La maestrina degli operai’ 1895) in cui possiamo leggere certe pagine, che suscitano veramente la nostra ribellione.
E così il libro Cuore, con altri libri del nostro De Amicis, potrebbe essere assimilato (con le differenze dovute ai tempi e alla situazioni) a ‘La capanna dello zio Tom’ di Harriett Beecher Stowe 1852; a ‘Senza famiglia’ 1878 di E. Malot e a ‘Oliver Twist’ 1837/1839 di Dickens, e a ‘Radici’ di Alex Haley 1977.
Non un libro per ragazzi ma un libro di denuncia sociale e politica.
Un libro che ogni amministratore pubblico dovrebbe avere sul comodino, come pro memoria dei suoi doveri nei confronti di se stesso e dell’uomo.
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…E SI TORNA BAMBINI
di Marta
Gli anni sono tanti, i riflessi non sono più gli stessi: i vent’anni non ci sono più!
Gli anni trascorsi insieme sono tantissimi e se durante questa convivenza alcuni difetti erano tollerabili, ora non più. Lui è sordo, prepotente, caparbio ed egoista; lei stanca di sopportare, sbotta in continuazione, ma in quel contesto accadono anche cose buffe.
Un giorno Giorgio esce di casa e va a comprare il giornale ed essendo molto goloso compra anche dei dolciumi, sapendo che gli sono negati per la sua salute. Rientra a casa e sta pensando al modo di come poterli mangiare quando scorge la moglie, Rosé.
In un attimo è tutto un girare la bicicletta ed esclama: “Oh, oh!!! Saddam Hussein!”, e via a tutta birra con le risate di chi era presente alla scena. La moglie, conoscendo a fondo Giò, incominciò a spiarlo quando rientrava a casa dalle sue uscite mattutine e scoprì così i posti dove lui nascondeva le golosità. Piano, piano toglieva dalla tana la refurtiva di Giò senza dire mai niente, e così lui pure restava zitto non trovando più la sua roba.
Giò aveva anche la mania di ascoltare sempre il solito disco,”Speranze perdute”, un vecchio 33 giri. Un giorno si ruppe, con gran sollievo della Rosé, ma trovò qualcuno che gli comprò un CD da ascoltare anche in auto. Per la Rosè era troppo. Alla richiesta di Giò delle chiavi dell’auto rispondeva che era guasta la centralina e dopo tante insistenze gli dava le chiavi, ma quelle sbagliate, per cui non riusciva mai ad ascoltare il CD.
A Giò piaceva tanto raccontare: a volte cose vere, ma anche di fantasia (e di quella ne aveva da vendere). Amava avere attorno a se sempre del pubblico; lui si metteva al centro e raccontava, ed era molto divertente e simpatico. Una volta raccontò di quando la Rosé gli aveva cucinato il sugo per la pastasciutta con la scatoletta per la Kira (la cagnetta). Così Diceva: Non ci credete? Era così buona! E poi la Rosé quando fa il bagno alle sue bestie, prima lo fa alla Kira poi, nella stessa acqua lo fa anche a me,” c’orbisse!” (giuro). E poi alla Kira tutte le coccole; a me solo rimbrotti”.
Non c’è scampo, poi, quando si arrabbia con la televisione: alza il bastone inveendo contro l’apparecchio e dice: “Non capiscono niente! Tutti a vangare dovete andare!”. Giò tutti i pomeriggi si fa un sonnellino, dice lui, ma poi trascorrono 4/5 ore e così la notte soffre d’insonnia. Inoltre è affascinato dalla pubblicità: non manca mai di ordinare, via internet, questo o quel giochino, cianfrusaglie che non servono a nulla, ma lui ride come un bambino che ha ottenuto quello che voleva. La Rosé scuote la testa e proferisce: “Ma dov’è la proverbiale saggezza dei vecchi? Si dice ”nella buona e nella cattiva sorte”, ma quanta pazienza, signori, credetemi!”. E, rassegnata, si allontana.
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La ricetta che ci farà diventare ricchi
di Doretto
Venerdì 7 luglio 2012
Oggi è un giorno speciale. Alle ore 14 viene a visitarmi un dottore inviato dall’ INPS per un controllo riguardante la mia invalidità derivatami dal mio midollo spinale profanato!
Il dottore arriva, mi visita, vuol vedere come riesco a muovermi e infine vuol sapere che medicine sto prendendo. Eccole. E sono tante! Lui le guarda e poi mi dice : “ vedo che non prende nessuna medicina antidepressiva, di solito i malati come lei vanno in depressione e hanno bisogno di aiuto, a volte anche dello psicologo. “ Io gli rispondo:” guardi dottore, io la medicina per tutto questo ce l’ ho. E le garantisco che mi fa così tanto, ma tanto bene che sono nella felicità più vera che un uomo possa desiderare.”
E lui: “la dia anche a me questa ricetta, anzi, se è così efficace la mettiamo in commercio e diventiamo ricchi.”
Va bene, ma siccome ci vuole un po’ di tempo per spiegarcela, quando verrò a prendere il verbale di questa visita nel suo ambulatorio, le porterò la ricetta scritta con tutti gli ingredienti necessari.
E il giorno prefissato vado con mia moglie e gli porto la ricetta che mi aveva chiesto e che secondo lui ci farà diventare ricchi!!!
E gli consegno un plico contenente alcuni scritti di Chiara Lubich, dove ella mette in evidenza l’ importanza del dolore, dove addirittura lei riconosceva in esso il suo sposo : “ Gesù crocifisso e abbandonato. “ e tanti altri scritti sulla malattia visti e vissuti da chi ha fede in Gesù.
E allegata anche una mia lettera. Eccola.
“ Caro dottore, come promesso le ho portato gli ingredienti per la medicina contro la depressione. Questa medicina ha un nome semplice : si chiama FEDE. Fede in Colui che ci ha creato e che ci ama. Ci ama anche nella malattia, anche quando siamo nel dolore. Si. E’ difficile spiegare il perché. Siamo ancora troppo piccoli per comprenderlo, ma se guardiamo a Gesù e il modo in cui ci ha insegnato ad amarci sino a dare tutto il suo sangue per noi, e che ha scelto la croce per salvarci, noi dobbiamo solo abbandonarci in Lui e credere che il dolore è la moneta più preziosa ai suoi occhi e se noi che siamo nella sofferenza la uniamo alla sua, allora Lui ci darà sollievo e gioia. Sì, gioia. Io l’ho sperimentato. Ed è vero.
E poi naturalmente bisogna nutrire questa fede che ci da' gioia.
E allora tutte le domeniche mi reco nella mia chiesetta e dalle mani del sacerdote ricevo la medicina che mi fa ricco : Gesù Eucarestia.
Ecco, io con questa medicina evito ogni tipo di antidepressivo, e evito anche i maghi, le fattucchiere, l’ oroscopo, e per ultima anche la nuova moda americana , scientology!
E le garantisco che fa molto bene, è molto efficace. Ed è gratis! La faccia conoscere anche ai suoi colleghi medici, in famiglia, ed a tutti quanti ne hanno bisogno, al posto degli antidepressivi.
Anche le ASL ne trarrebbero un grosso beneficio. Vedi l’Asl della toscana dove pur avendo raggiunto un tenore di vita molto elevato,, risulta la regione dove si consumano più antidepressivi . E allora?
Vien da chiedersi se il benessere porta felicità. Certamente, Ma senza un supplemento d’anima può essere dannoso.
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LA VIA “A LA MADONA”
di Angelo Brizzi
In età giovanile risiedevo in via Bozzi, quasi alla congiunzione con via Larga, nella casa di mio nonno, il Baffone (per via dei suoi lunghi baffi alla Cecco-Beppe), confinante con “la cà d’i Coccon”. Nel tratto da via Larga all’immediato, dopo queste case, via Bozzi era in uno stato di manutenzione accettabile, da lì si trasformava in una stradaccia sterrata, piena di buche e fosse formatesi dal passaggio dei carri agricoli e squassate dalle piogge invernali. Era (ed ancor oggi credo che lo sia) un buon tracciato che accorciava la distanza tra Luni-Stazione e Serravalle, unendo via Madonnina a via Larga, “propi d’nanzi a la botega d’ Pierin, dal dré subto a la cà d’ Casegha”. Il suo fondo disagiato non invitava certamente i pochi viandanti a farne un gran uso e poco ancora oggi. Gli unici passanti che si potevano dire assidui erano i proprietari dei terreni serviti da quel viottolo e dalla famiglia dei “Gianin” che abitavano a metà di questa strada.
“A m’arcorde d’ quarcun d’ quei chi pasevn ‘n po’ pu spesso: d’l pu d tuti a m’arcorde d’ Pistod’a d’Ortnò, po’ a ven quei d’ Scimon ‘l calzolaro, i ‘Ngholei, con sempre ‘n cargon ‘n codho che i portevn a cà. La ghere Gustà, sempr d’scalzo da marzo a la fin d’otobro, ‘n gh’ manchev mai ’n codho ‘l corbedho, spazeta e paleta ‘n man pr arguantare la cocola che i portev al scito…”.
Come anzidetto, via Bozzi fungeva da scorciatoia tra Luni e Serravalle-Casano basso a tal punto che gli operai occupati a La Spezia e dintorni, arrivando la sera con il treno accelerato alla stazione di Luni, anziché usufruire del “corierin” dei Lorenzini, che faceva la corsa fino a Ortonovo- centro storico, preferivano percorrere a piedi la via Bozzi per raggiungere le loro abitazioni, risparmiando così il costo del biglietto; ma questo avveniva nella buona stagione, da primavera all’autunno.
Ma dal mattino del 7 settembre fino alla sera di ogni anno, la via Bozzi subiva un flusso di passanti incalcolabile per la continuità e la compattezza; gente di ogni età che dalla pianura del Magra si poneva in marcia: solitari, a due a due, piccoli o grandi gruppi composti da uomini e donne, ragazzi e ragazze, componenti lo stesso nucleo famigliare o sconosciuti tra loro che si univano’ cammin facendo, per un po’ di compagnia; tutti insieme percorrevano la via Bozzi diretti al santuario del Mirteto. Nessuno di quella marea di pellegrini pronunciava il titolo della Vergine Santissima, cioè Beata Vergine Addolorata del Mirteto, per loro era solamente “la Madonna”, quindi la via che li conduceva al Suo santuario diveniva la “via a la Madona”, e a chi chiedeva loro dove andassero, la risposta era unica: “A’ng’han a la Madona, a v’nì anc voaltri?”.
La interminabile fila di gente che affrontava un così lungo viaggio in quel tempo, con il solo mezzo di trasporto in loro uso, il “cavallo di San Francesco” (come usava dire chi si spostava a piedi da un posto all’altro), era ben determinata e non volevano mancare all’annuale appuntamento con la festa della Madonna, dimostrando vero culto e grande devozione, superando disagi, fatica e stanchezza. Loro tutti erano consci di quanto importante fosse quella difficoltosa scarpinata per affidarsi e porsi sotto la protezione della Madonna del Mirteto. Attrezzati di tutto punto per la sosta notturna al santuario: zaini militari affardellati sulle spalle degli uomini, ed ampie borse attaccate alle braccia delle donne, pieni di viveri e coperte in difesa del calare della temperatura nella notte; non mancavano le lanterne ad olio o ad acetilene; poche le torce elettriche.
Camminando camminando, cantando inni alla Vergine o recitando il Santo Rosario, le mamme tenevano occhio alle figlie da marito se si avvicinava loro, un po’ troppo, qualche giovanotto. Era anche un modo, un’occasione di conoscersi tra ragazzi e ragazze, scambiandosi idee e punti di vista su argomenti della vita e poi perché no, a volte davano bei frutti “finché morte non separa”.
Chiara, placida, serena
trascorre la sera seguente,
e il sole, di nuovo al tramonto,
spegne la luce gigantesca.
Si vede la Imperial Toledo (Ortonovo)
dorata appena su in alto
come una città purpurea
coronata di cristalli.
(Da “Leggende”, di Josè Zorrilla y Moral)
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GRAZIE, MARIA!
di Paola G. Vitale
7/8 settembre 2012- Non potrò mai dimenticarlo.
Il nostro pellegrinaggio da Luni Mare, iniziato con il seminarista Andrea e compagni.
Da Nicola in poi, la nostra croce, per fortuna non pesante, portata con sicurezza e
ostinazione da un piccolo di 4/5 anni.
All’arrivo davanti alla chiesa parrocchiale di San Lorenzo, don Andrea ha alzato il bimbo con la croce per mostrarlo a tutti. Il piccolo ha detto: “Grazie a tutti per essere venuti!”.
Poi il papà, la mamma e la sorellina, forse appena più grande, lo hanno riaccolto.
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