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24 SEGNI E SIMBOLI CRISTIANI
di Ratti Antonio
Pisside.
Dal greco pyxis, scatola-cofanetto, la pisside è un vaso sacro a forma di coppa, dotato di coperchio. Spesso di materiale prezioso e artisticamente lavorato, all’interno custodisce le particole ( ostie piccole ) e viene conservato nel tabernacolo. In pratica, è quel vaso con il quale il sacerdote somministra la Comunione ai fedeli. E’ chiamata anche ciborio, come il baldacchino che copre l’altare maggiore delle antiche chiese e basiliche paleocristiane. Infatti anticamente il Pane Eucaristico veniva conservato in cestini di vimini sull’altare sotto il baldacchino.
Teca.
Dal greco thèke, custodia. La teca è un contenitore rotondo con le pareti di vetro dove è conservata la lunetta che è l’accessorio di metallo prezioso a forma di falce di luna. Nella lunetta viene inserita l’ostia consacrata, che, successivamente, è posta nell’ostensorio per l’adorazione eucaristica. Quando contiene l’ostia, la lunetta viene conservata nel tabernacolo. Si chiamano teche anche i contenitori che accolgono le reliquie dei santi.
Ostensorio.
Dal verbo latino ostendere, mostrare, è il vaso usato per l’esposizione del Santissimo Sacramento. Solitamente è formato da un piedistallo che termina in alto con una ricca raggiera e con al centro una teca dove viene deposta ben visibile la lunetta con l’ostia consacrata. Spesso l’ostensorio costituisce una vera e propria opera d’arte per la ricchezza della lavorazione e dei materiali usati. Oltre che per l’adorazione eucaristica, l’ostensorio è utilizzato nella processione del Corpus Domini.
Turibolo.
E’ un recipiente dotato di coperchio tronco-conico forato dal quale fuoriesce il fumo odoroso prodotto dall’incenso che brucia su carboncini ardenti nel piccolo braciere posto all’interno. E’ sorretto dal ministrante attraverso tre catenelle che partendo dal turibolo si raccolgono attorno ad un pomello, mentre una quarta serve a sollevare il coperchio. Normalmente il turibolo è utilizzato nei riti solenni, per benedire l’altare e il Messale prima della lettura del Vangelo. La navicella è l’accesssorio-contenitore dove si conserva l’incenso. Il nome deriva dalla sua forma che richiama quella di una piccola nave.
Secchiello e Aspersorio.
Il secchiello, come suggerisce il nome, è un contenitore, dotato di manico, che contiene l’acqua benedetta da usare nelle benedizioni. L’aspersorio è costituito da una sfera cava e forata posta alla sommità di un manico. Immersa nel secchiello la sfera si riempie dell’acqua che serve per l’aspersione. Esiste anche un altro tipo di aspersorio, che al posto del manico, ha un cilindro cavo che si riempie d’acqua. In questo caso il secchiello non è più necessario.
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ANCORA SULLA BIBBIA
di Carlo Lorenzini
A proposito del mio articolo apparso sul Sentiero di qualche mese fa (anno XXI n.10, ottobre 2011), sull’incontro di Gesù con la samaritana, c’è chi si è meravigliato della disinvoltura con cui io ho trattato l’argomento, in una scrittura piena di verve e di ironia. Che poi è il mio stile di leggere la Bibbia. Che è il libro su cui ci si può avventurare con vari atteggiamenti dal più riverente e ossequioso, al più pungente ed ironico, al più spregiudicato e dissacrante.
Sicuri che il Libro non subirà nessuna alterazione: non acquisterà vantaggio, né subirà danno. Essendo esso, al pari della Divinità che lo ha ispirato, eterno e immutabile.
I decreti della Bibbia (riassumiamo il pensiero che Galileo espresse nella famosa lettera del 1613 a don Benedetto Castelli) non possono né mentire né sbagliare e ciò che dicono sono di assoluta inviolabile verità.
Il Libro è vero per natura e non può essere modificato né corretto da nessun accadimento umano. E ciò che via via vi troviamo di negativo o di non corrispondente ai nostri parametri di giudizio, è un negativo ed è un illogico che non dipendono dalla scrittura, ma da noi.
Infatti, se la Bibbia è inviolabilmente vera, possono però sbagliare i suoi interpreti e i suoi espositori. E uno degli errori più frequenti, dice Galileo, è quello di interpretare i personaggi e le vicende della Scrittura, basandosi sul puro significato delle parole. ‘Dio disse’, non significa che Dio aprì la bocca e parlò,”Dio venne”, non dobbiamo pensare che Dio mosse le gambe per spostarsi da un luogo ad un altro; ‘Sole fermati’, non vuole dire che il Sole rispetto alla Terra¸ che se ne sta immobile, gira attorno ad essa; ‘Dio si adira’, non è da credere che Dio è sottoposto come gli uomini, ai peccati capitali. Il linguaggio della Bibbia, come del resto tutti i linguaggi (anche quelli di uso quotidiano), è anch’esso un linguaggio figurato, e ciò significa che spesso le parole che usa non vanno prese col significato che esse portano con sé nell’uso comune, ma come immagini o figure di altre cose, le quali con esse hanno qualche relazione. Se io dico ‘Ho bevuto un bicchiere di troppo’ è chiaro che il significato della frase non si evince dal significato proprio di ciascuna parola; ma dal significato ‘altro’ che in questo contesto ha la parola ‘bicchiere’, che qui corrisponde al ‘vino’ o comunque al ‘liquore’ che in esso bicchiere è contenuto. Cosa che non avviene, per esempio, in quest’altra frase ‘Ciascuno si lavava il proprio bicchiere’ Qui ‘bicchiere’ è usato nel suo proprio significato. Naturalmente gli scrittori dei vari libri della Bibbia, scrivendo hanno dovuto tener conto della quotidiana esperienza dei lettori, per i quali anche Dio e le sue opere devono essere rappresentati con parole immediatamente comprensibili, e per i quali i cieli sono il luogo in cui Dio abita; per i quali Dio anche Lui cammina servendosi delle gambe, parla aprendo la bocca, si nutre di cibo umano, ha di fronte alle cose le stesse reazioni che hanno gli uomini; per i quali è il sole che al mattino sorge ed è sempre il sole che la sera tramonta, quindi è Lui che si muove, mentre la terra, a meno di un terremoto, sta ben ferma sotto i nostri piedi; ed è per ciò che Giosuè dice al sole: ‘Sole, fermati!’. Quindi bisogna tener conto di questo modo di esprimersi, di questi trasferimenti di significato, di questi traslati (metafore, metonimìe, ecc. ecc.), modi di percepire, modi di pensare e modi di dire.
Un altro errore degli interpreti ed espositori del Libro sacro consiste nel voler giudicare i fatti e le persone della Bibbia con i nostri parametri di giudizio. E invece anche noi, come Tertulliano in materia di fede, dobbiamo spesso sospendere il nostro giudizio e dire “Credo, quia absurdum” Ci credo, perché è assurdo, cioè ripugna alla verità, alla ragione, al buon senso. E questo perché Dio e le sue opere non possono essere giudicati secondo i nostri parametri di giudizio, ma anche noi dobbiamo trasferirci in altre dimensioni, quelle dello spirito. E non importa se in presenza di certe situazioni, sulle nostre labbra affiora un sorriso di ironia, il che avviene quando sono di fronte due personaggi di difficile sintonia spirituale, metti i suoi discepoli di fronte a Socrate in procinto di assumere la cicuta, metti Edìpo di fronte al Fato, metti don Abbondio di fronte al cardinal Federigo. E, per restare al nostro Libro, metti, per esempio, Nicodemo di fronte a Gesù (Giov. III, 1 – 11). Il quale Nicodemo, uno tra i farisei, uno dei capi dei Giudei, un maestro in Israele, è un uomo timido: viene di notte a interrogare Gesù. E già ha le sue certezze: sa che Gesù viene da Dio e sa che può fare miracoli, perché Dio è con lui. Ma vorrebbe sapere più a fondo. Gesù però non lo lascia interrogare e lo aggredisce subito con la metafora del nascere due volte: se uno non è nato due volte non può vedere il regno di Dio. Nicodemo, come la samaritana a proposito dell’acqua proposta da Gesù, non capisce e cerca di rispondere servendosi del buon senso: Come può uno nascere quando è già vecchio? Gesù naturalmente non si commuove di fronte allo smarrimento di Nicodemo; ma lo incalza con ulteriori metafore, che invece di fare luce nella mente del poveretto, gliela confondono del tutto; e chiede smarrito" Ma come possono avvenire certe cose?" Ma Gesù, notando la confusione nella mente del fariseo, invece di essere con lui comprensivo, si stupisce e lo rimprovera:" Tu sei maestro in Israele e non sai queste cose?" No. Nicodemo non le sa. Perché non sa una cosa fondamentale: di essere di fronte a Dio, cioè di fronte al paradosso, all’assurdo, al soprannaturale. E se ne va, crediamo, con lo stesso spirito con cui esce di scena Sosia, nell’Anfitrione di Plauto, dopo il colloquio con Mercurio, che ha preso le sue sembianze: che se ne va massimamente confuso. Ma neanche Sosia sa di essere al confronto con un dio. Cioè con l’assurdo.
“Signore, gli disse la donna, dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua” (Giov. IV. 15).
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LA GUIDA SPIRITUALE
di Marisa Lisia
La mia guida spirituale, per grazia di Dio, è un “Don”, un sacerdote in piena regola: è una persona di valore e di grande umanità. Come il buon samaritano si presta ad aiutare prevalentemente le persone che dalla vita sono state seriamente ferite; le rincuora, le consiglia con l’affetto sincero di un padre buono, pregando per loro e con loro.
Vi sono anche tante anime belle e ardenti che cercano nell’assoluto Dio e si affidano volentieri a Lui per essere guidate verso l’agognata meta.
Il Don ha un folto gruppo di preghiera che guida con molta capacità ed amorevole cura. Le sue Sante Messe sono un po’ particolari per la loro durata, ma nessuna delle persone che hanno la grazia di assistervi sembrano accorgersene, tanto è l’interesse che suscita il suo devoto atteggiamento. Quando legge la Sacra Bibbia si commuove visibilmente e il suo divino amore per il Signore si trasmette a quanti l’ascoltano con cuore sincero.
Anch’io, a dire il vero, sono stata tanto aiutata e provo per lui e tutti i sacerdoti come lui un fraterno affetto. Cura la sua chiesa, come tutti, nei minimi particolari; le tovaglie sono sempre perfette; i fiori belli e freschi, e tutto è sempre in bell’ordine.
Ringraziamo il Buon Dio per il superlativo dono dei suoi insostituibili sacerdoti. Aiutiamoli nelle loro difficoltà e bisogni. Un evviva per i nostri santi preti!
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FAMIGLIA AL SERVIZIO DI TUTTI
di La Redazione
La festa, tempo per la comunità. Il giorno del Signore fa vivere la festa come tempo per gli altri, giorno della comunione e della missione. L’Eucaristia è memoria del gesto di Gesù: questo è il corpo donato, questo è il sangue versato per voi e per tutti. Il “per voi” e per tutti” lega strettamente la vita fraterna (per voi) e l’apertura a tutti (per la moltitudine). Nella congiunzione “e” sta tutta la forza della missione evangelizzatrice della famiglia e della comunità: è donato a noi affinché sia per tutti. La Chiesa che nasce dall’Eucaristia domenicale è aperta a tutti. La prima forma della missione è di costruire la comunione tra i credenti, di fare della comunità una famiglia di famiglie. Questa è anche la legge fondamentale della missione: la Chiesa unita e concorde è la testimonianza più persuasiva per il mondo. La Chiesa può diventare scuola di missione solo se è casa della comunione.
La festa e la domenica sono il momento per rinnovare la vita ecclesiale, così che la comunità credente assuma il clima della vita familiare e la famiglia si apra all’orizzonte della comunione ecclesiale. Nella parrocchia le famiglie, che sono “chiesa domestica”, fanno sì che la comunità parrocchiale sia una chiesa tra le case della gente. La vita quotidiana, col ritmo di lavoro e festa, consente al mondo di entrare nella casa e apre la casa al mondo. D’altra parte, la comunità cristiana deve prendersi cura delle famiglie, sottraendole alla tentazione di rinchiudersi nel loro “appartamento” e aprendole ai cammini della fede. Nella famiglia la vita è trasmessa come dono e promessa; in parrocchia la promessa contenuta nel dono della vita viene accolta e alimentata. Il giorno del Signore diventa giorno della Chiesa quando aiuta a sperimentare la bellezza di una domenica vissuta assieme, evitando la banalità di un fine settimana consumistico, per realizzare talvolta anche esperienze di comunione fraterna tra le famiglie.
Il giorno del Signore come dies ecclesiae diventa giorno della carità. La Chiesa che si alimenta all’Eucaristia domenicale è la comunità a servizio di tutti. La famiglia, anche se non da sola, è la rete in cui si trasmette questo servizio. Il servizio della carità è un tratto caratterizzante della domenica cristiana, che diventa così il “giorno della carità”.
Il servizio della carità esprime il desiderio della comunione con Dio e tra i fratelli. La famiglia, lungo la settimana, viene incontro ai bisogni di ogni giorno, ma la vita familiare non può fermarsi a dare cose e a eseguire impegni: deve far crescere il legame tra le persone, la vita buona nella fede e nella carità. Senza un’esperienza di servizio in casa, senza pratica dell’aiuto reciproco e la partecipazione alle fatiche comuni, difficilmente nasce un cuore capace di amore. Nella famiglia i figli sperimentano giorno dopo giorno l’instancabile dedizione dei genitori e il loro umile servizio, apprendendo dal loro esempio il segreto dell’amore.
Quando nella comunione parrocchiale i ragazzi e i giovani dovranno allargare l’orizzonte della carità alle altre persone, potranno condividere l’esperienza di amore e di sevizio imparata in casa. L’insegnamento pratico della carità, soprattutto nelle famiglie con un unico figlio, dovrà subito aprirsi a piccole o grandi forme di servizio agli altri.
La dimensione missionaria della Chiesa è il centro dell’Eucaristia domenicale e apre le porte della vita di famiglia al mondo. La comunità domenicale è per definizione comunità missionaria. Nel giorno del culto, la comunità diventa missionaria. La missione non riguarda solo i singoli inviati, ma mostra la sua efficacia quando tutta la Chiesa, con varietà dei suoi carismi, ministeri e vocazioni, diventa il segno reale della carità di Cristo.
La famiglia è chiamata ad evangelizzare in modo proprio e insostituibile: al suo interno, nel suo ambiente (vicini, amici, parenti), nella comunità ecclesiale, nella società.
Vivere secondo la domenica- Questa radicale novità che l’Eucaristia introduce nella vita dell’uomo si è rivelata alla coscienza cristiana fin dall’inizio. I fedeli hanno subito percepito il profondo influsso che la celebrazione eucaristica esercitava sullo stile della loro vita. Sant'Ignazio di Antiochia esprimeva questa verità qualificando i cristiani come “coloro che sono giunti alla nuova speranza”, e li presentava come coloro che vivono “secondo la domenica”. Questa formula del grande martire antiocheno mette chiaramente in luce il nesso tra la realtà eucaristica e l’esistenza cristiana nella sua quotidianità. La consuetudine caratteristica dei cristiani di riunirsi nel primo giorno dopo il sabato per celebrare la risurrezione di Cristo - secondo il racconto di san Giustino martire - è anche il dato che definisce la forma dell’esistenza rinnovata dall’incontro con Cristo.
La formula di sant’Ignazio - “Vivere secondo la domenica” - sottolinea pure il valore paradigmatico che questo giorno santo possiede per ogni altro giorno della settimana. Esso, infatti, non si distingue in base alla semplice sospensione delle attività solite, come una sorta di parentesi all’interno del ritmo usuale dei giorni. I cristiani hanno sempre sentito questo giorno come il primo della settimana, perché in esso si fa memoria della radicale novità portata da Cristo. Pertanto, la domenica è il giorno in cui il cristiano ritrova quella forma eucaristica della sua esistenza secondo la quale è chiamato a vivere costantemente. “Vivere secondo la domenica” vuol dire vivere nella consapevolezza della liberazione portata da Cristo e svolgere la propria esistenza come offerta di se stessi a Dio, perché la sua vittoria si manifesti pienamente a tutti gli uomini attraverso una condotta intimamente rinnovata.
[Sacramentum Caritatis, 72]
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