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FINALMENTE SPOSI!
di Padre Carlo Cencio, Missionario carmelitano
Fu uno degli ultimi matrimoni che celebrai. Era una storia che durava da quattordici anni; lui si chiamava Fidèle, lei Madeleine. Pur essendo cristiani, non avevano mai trovato il modo di sposarsi in chiesa. Ormai avevo perso la speranza di sposarli, perché Madeleine non era mai riuscita a portare a termine una gravidanza. Aveva però il pregio di essere bella, robusta, buona lavoratrice, simpatica, di buon carattere e di compagnia.
Come sempre era stato Fidèle a conoscerla, a vederla bella e a prendere l’iniziativa di parlare con i suoi familiari per chiederla in sposa. Il padre di lui, il saggio catechista Michel, non era mai stato entusiasta di quella unione. Avrebbe voluto una vera coppia cristiana in regola: una donna capace di fare figli e di lavorare molto nella piantagione; la bellezza e la simpatia gli dicevano poco. Per questo non aveva aiutato molto suo figlio a pagare la dote di lei. Stavano insieme, ma avrebbero sempre potuto separarsi senza perderci troppo.
Fidèle, sentendosi così poco stimato in famiglia, volle dimostrare che era capace di fare di più e si prese una seconda moglie. Per qualche tempo Madeleine rimase con lui, poi decise di andarsene e ritornò nella sua famiglia. Anche la seconda moglie non gli dette figli. Inoltre, era scorbutica e puntigliosa. Per questo a un certo punto Fidèle la licenziò e si ritrovò da solo.
Intanto aveva capito che se non riusciva ad avere figli forse non era solo per colpa delle donne, ma anche sua. Aveva la sua piantagione, ma ora non c’erano più mani a lavorarla. Aveva la sua casa, ma dentro c’era il vuoto. Aveva le tre pietre per il fuoco e le pentole, ma nessuno teneva il fuoco acceso. Aveva le caprette, ma non c’era nessuno che preparasse per lui un buon piatto di carne e di manioca, e con vergogna doveva andare a mangiare da sua madre; nel cortile c’era il pozzo, ma doveva sempre chiedere a un bambino di attingere l’acqua o abbassarsi lui stesso a farlo. E soprattutto di notte era solo.
Un bel giorno, dopo anni, rivide Madeleine. Entrambi si resero conto che non avevano smesso di pensare l’uno all’altra e tutti e due erano ancora liberi. Lei era sempre bella e giovane. Ritornarono insieme. Naturalmente c’era sempre il problema dei figli e del papà contrario a un matrimonio senza figli. Per alcuni anni lui continuò a dare regali e acconti al padre di lei e al suo fratello maggiore. Il prezzo non era alto, proprio perché lei non riusciva a dargli figli.
Rimase incinta altre volte, ma invano. In tutti quegli anni non poterono né confessarsi né ricevere la comunione. Lui non poté fare neppure l’aiuto catechista. Eppure, scoprirono sempre più di stimarsi davvero e di volersi bene. Fidèle ci teneva così tanto a regolare il suo matrimonio che fece pressione su tutti e mi invitò anche a tenere due lezioni sul matrimonio cristiano nel suo villaggio di Bokayan.
Erano presenti molti giovani, alcuni anziani e, naturalmente, lui e Madeleine. Vi parteciparono anche i catecumeni. Parlai molto dell’amore sponsale e dell’amore cristiano. Ricordai loro un famoso principio di sant’Agostino (africano): “Fa più padre l’amore che il sangue”. Il diritto al figlio non è assoluto: esso è condizionato alla natura e al progetto divino. Non so quale efficacia ebbero questi insegnamenti, a ogni modo Fidèle e Madeleine, insieme con altre due coppie, chiesero di sposarsi in chiesa. Come sempre feci una preparazione immediata e un esame particolare delle coppie. Quando arrivai a Fidèle e Madeleine chiesi loro se erano disposti a restare fedeli anche senza avere figli. “Padre,” mi disse lui “ora non possiamo più aspettare. Sono quattordici anni che rinviamo il matrimonio in chiesa per questo motivo. Ci abbiamo pensato tanto e ora abbiamo capito. Ora più nessuno è contrario e siamo certi di rimanere insieme. Però, padre, devo anche dire che noi un figlio lo abbiamo già, è quello di mio fratello morto, e lo abbiamo adottato. E’ nostro. Ci vuole bene e gli vogliamo molto bene. Non solo, ma speriamo anche di trovare una figlia. E’ vero Madeleine?”. “Sì, è così,” rispose lei, “non ci sono problemi”.
A questo punto mi rivolsi ai genitori e ai testimoni: “E voi siete d’accordo per questo matrimonio?”. “Come potrei oppormi,” rispose il padre di Fidèle; “sono adulti e sanno quello che fanno”. I parenti di lei si dichiararono contenti.
Così, finalmente, dopo quattordici anni, il vescovo stesso poté benedire le loro nozze. Quel giorno Fidèle e Madeleine erano radiosi, come se si fossero innamorati allora. Finalmente potevano fare la comunione e lui cominciare il lavoro di catechista.
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Parola di vita
di Chiara Lubich
“Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed Egli sarà il “Dio-con-loro”.
La Parola di Dio di questo mese ci interpella. Se vogliamo essere parte del suo popolo dovremo lasciarlo vivere tra noi. Ma come è possibile questo, e come fare per pregustare un po’, fin da questa terra, quella gioia senza fine che verrà dalla visione di Dio?
E’ proprio questo che Gesù ci ha rivelato, è proprio questo il senso della sua venuta: comunicarci la sua vita d’amore col Padre, perché anche noi la viviamo. Già da ora noi cristiani potremo vivere questa frase ed avere Dio fra noi. Averlo fra noi richiede, come affermano i Padri della Chiesa, certe condizioni. Per Basilio è vivere secondo la volontà di Dio, per Giovanni Crisostomo è l’amare come Gesù ha amato, per Teodoro Studita è l’amore reciproco, e per Origene è l’accordo di pensiero e di sentimenti per giungere alla concordia che “unisce e contiene il Figlio di Dio”.
Nell’insegnamento di Gesù c’è la chiave per far sì che Dio abiti tra noi: “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi. E’ l’amore reciproco la chiave della presenza di Dio. Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rmane in noi perché: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, dice Gesù.
“Dio abiterà con loro; essi saranno il suo popolo”.
Non è dunque così lontano e irraggiungibile quel giorno che segnerà il compimento di tutte le promesse dell’Antica Alleanza: “In mezzo a loro sarà la mia dimora: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”. Tutto si avvera già in Gesù che continua, al di là della sua esistenza storica, ad essere presente fra coloro che vivono secondo la nuova legge dell’amore scambievole, quella norma cioè che li costituisce popolo, il popolo di Dio.
Questa Parola di vita è dunque un richiamo pressante, specie per noi cristiani, a testimoniare con l’amore la presenza di Dio. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni gli altri”. Il comandamento nuovo così vissuto pone le premesse perché si attui la presenza di Gesù fra gli uomini.
Nulla possiamo fare se questa presenza non è garantita, presenza che dà senso alla fraternità soprannaturale che Gesù ha portato sulla terra per tutta l’umanità.
“Dio abiterà con loro; essi saranno il suo popolo”.
Ma spetta soprattutto a noi, cristiani, pur appartenendo a diverse comunità ecclesiali, di dare al mondo spettacolo di un solo popolo fatto di ogni etnia, razza e cultura, di grandi e di piccoli, di malati e di sani. Un unico popolo del quale si possa dire, come dei primi cristiani: “Guarda come si amano e sono pronti a dare la vita l’uno per l’altro”.
E’ questo il “miracolo” che l’umanità attende per poter sperare ancora e un contributo necessario al progresso ecumenico, al cammino verso l’unità piena e visibile dei cristiani. E’ un “miracolo” alla nostra portata, o meglio, di Colui che, abitando fra i suoi uniti dall’amore, può cambiare le sorti del mondo, portando l’umanità intera verso l’unità.
Chiara Lubich
Dal 18 al 25 gennaio in molte parti del mondo si celebra la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Come ricordiamo, Chiara soleva commentare il versetto biblico scelto via via per tale occasione con la Parola di vita dello stesso mese. Quest’anno la frase biblica per la Settimana di preghiera è: “Di questo voi siete testimoni” (Lc 24,48). Per aiutarci a viverla proponiamo questo testo di Chiara come “richiamo pressante” a noi cristiani di testimoniare insieme la presenza di Dio.
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Simboli e segni cristiani
di Antonio Ratti
2 SIMBOLI E SEGNI CRISTIANI
AGNELLO
In situazioni estreme, per intercedere la benevolenza degli dei, i greci del mito ponevano in atto l’ecatombe, cioè l’uccisione di cento giovenche o il sacrificio del figlio o figlia del re ( Es. Ifigenia, figlia di re Agamennone, per favorire la buona partenza verso Troia ). Ma è l’agnello che in tutte le culture e civiltà agro-pastorali dell’antichità ha rappresentato l’oggetto tipico del sacrificio alle divinità. Abramo, proveniente da una di queste preistoriche civiltà, ha mantenuto e fatto entrare nella pratica cultuale degli Ebrei il sacrificio dell’agnello come l’espressione più alta dell’offerta a Dio. ( Es 29,38 ) Però la grande novità che procede da Abramo non è l’agnello, bensì l’attestazione dell’esistenza di un solo Dio, creatore e signore, cui appartiene ogni primizia della terra. Per un pastore la primizia più visibile è l’agnello, segno di continuità della vita e di prosperità. Del resto, perché un sacrificio acquisti il suo valore è necessario offrire ciò che più vale e conta. Da questo momento storico in poi nel Vecchio Testamento sono tanti gli esempi che testimoniano l’importanza cultuale del sacrificio del pacifico quadrupede. Per provare la reale sottomissione, Dio ordinò ad Abramo di sacrificargli in un luogo sacro a lui noto la primizia più cara, l’unico figlio Isacco. Dio, in extremis, fermò la mano di Abramo e lo invitò a sacrificare l’agnello che gli fece trovare impigliato in una siepe. Durante la schiavitù egizia, Dio ordinò agli Ebrei di segnare con il sangue di agnello gli stipiti delle loro abitazioni per consentire all’angelo vendicatore di passare oltre. Nella Pasqua ebraica, che fa memoria del passaggio del popolo d’Israele dalla schiavitù egiziana alla Terra Promessa, viene immolato l’agnello:“ Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità di Israele e dite: il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia…Se la famiglia fosse troppo piccola per consumare un agnello, si assocerà al suo vicino .” ( Es 12, 1-4 ) Nel Tempio di Salomone a Gerusalemme era pratica quotidiana l’olocausto dell’agnello. La docilità del piccolo della pecora e il suo dipendere in tutto dal pastore rappresentano un’immagine biblica del rapporto dell’uomo con Dio, che fa pascolare le schiere del suo gregge “come un pastore…con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri.” ( Is 40,11 ) Fatte queste premesse, si deduce quanto fosse radicato nella cultura ebraica l’assioma agnello = sacrificio. Quando Gesù ha manifestato il motivo della sua incarnazione, cioè, il perdono dei peccati di ogni uomo attraverso la crocifissione, la morte e la risurrezione, è stato un elemento spontaneo, quasi sequenziale, paragonarlo all’agnello sacrificale. Già il profeta Isaia aveva parlato di Cristo riferendosi alla sua passione così: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì bocca; era come agnello condotto al macello.” ( Is 53,7 ) Giovanni Battista indica ai suoi discepoli il Maestro, dicendo: “ Ecco l’ Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo.” (Gv 1,29 ) Questa invocazione, che precede il momento dell’Eucarestia, è l’espressione più chiara e semplice per spiegare il simbolismo che lega Gesù all’agnello.
Dobbiamo aggiungere la tenerezza che l’agnello sa suscitare, la mitezza e l’accettazione del suo destino, così come Gesù affronta la sua sorte nella consapevolezza di dare a ogni uomo, che la desidera, la luce della fede e della Grazia. La figura mite dell’agnello che va al macello ci ricorda come il cristiano sia chiamato a sopportare con serenità le situazioni di prova accettando la volontà di Dio, così come ha fatto Gesù:”Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà.” ( Lc 22,42 ). Nella sua predicazione Gesù parla del buon pastore che ama il suo gregge tanto da porsi alla ricerca della pecorella smarrita. Infine, anche l’arte cristiana dei primi secoli spesso si esprime sottolineando il legame simbolico tra Gesù e l’agnello; nelle catacombe romane sono molteplici le raffigurazioni che affrontano questo tema.
PESCE
Il simbolo del pesce, fin dagli inizi della Chiesa, ha rappresentato il segno di riconoscimento per i cristiani, perché la parola greca “pesce” è un acrostico; cioè, un vocabolo che risulta composto dalle iniziali di altri. ICHTHYS = pesce sono le iniziali della professione di fede: Ièsus Christos, Theou Yios, Soter = Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore. Maria, sorella di Lazzaro, alla domanda di Gesù “Io sono la risurrezione e la vita;….chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?”, rispose: “Si, o Signore, io credo che sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo.” ( Gv 11,25 ) Gesù disse ai suoi discepoli: “Voi chi dite che io sia ? “ Rispose Pietro: “ Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.” ( Mt 16,15-16 ) Nel cammino della vita le tentazioni non mancano, ma non dobbiamo farci sviare dall’itinerario indicato dalla fede. Paolo ricorda che la fede in Cristo Gesù è la condizione per essere salvati: “ Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.” ( Rm 10, 9-10 ) Il pesce che vive soltanto nell’acqua è diventato da subito per i cristiani della Chiesa nascente il simbolo del battezzato. Infatti, il segno del battesimo è l’acqua che è anche il segno della vita nuova in Dio: “ In verità, in verità vi dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio.” ( Gv 3,5 ) “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a Lui ( Gesù ) nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.” ( Rm 6,4 ), purificati dall’acqua e dallo Spirito.
PANI E PESCI
Il riferimento al miracolo raccontato da Marco della moltiplicazione dei cinque pani e dei due pesci per sfamare la folla di cinquemila uomini è evidente. Gesù nel placare gli stimoli della fame fisica, intende richiamare l’attenzione sulla fame dell’anima che solo Lui sa e può saziare. “Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà.” ( Gv 6,27 ) Questo cibo è Gesù stesso: “ Io sono il pane della vita , chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete.” ( Gv 6,35 ) Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci è palesemente il simbolo del banchetto eucaristico. “Nella santissima eucarestia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua, lui il pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini i quali sono in tal modo invitati e indotti a offrire assieme a lui loro stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create.” ( Presbyterorum Ordinis 5 ) (continua)
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9 Paolo - Lettera a Tito
di Antonio Ratti
Questa lettera ( scritta nel 56 d.C. in Macedonia ) è più breve di quelle inviate a Timoteo, ma i temi e i suggerimenti sono i medesimi. Paolo non si stanca di stimolare i suoi collaboratori, ai quali ha affidato una Chiesa, ad attuare con scrupolo i suoi insegnamenti dottrinali e organizzativi: lo scritto in esame non fa eccezione. Affronta due temi, uno dottrinale e uno teologico: la charis ( caritas ), ovvero, la Grazia di Dio, apportatrice di salvezza e la philanthròpia, ovvero, l’amore di Dio per gli uomini che si manifesta attraverso Gesù Cristo e il suo sacrificio della croce “per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga…” Le istruzioni e le norme pastorali per le diverse categorie di persone - uomini, donne, giovani, anziani, schiavi - sono dettagliate sempre nella prospettiva dell’opportunità di dare testimonianza in toto alla parola di Dio. Anche le disposizioni di carattere disciplinare verso il dissidente renitente sono precise. Senza giri di parole, invita a non tollerare i falsi maestri legati al mondo giudaico e all’ambiente culturale cretese. La lettera inizia con i saluti accompagnati dal tema dottrinale: la epiphaneia di Dio ( manifestazione ) come amore che salva e la sua philanthròpia, cioè il dono della Grazia e della vita eterna “promessa fin dai secoli eterni.” Specifica le ragioni che lo hanno indotto a lasciarlo a Creta e i doveri di chi guida una comunità ecclesiale. Ribadisce, quasi con le medesime parole, quanto detto a Timoteo, sulle caratteristiche e le doti umane e spirituali, in pratica il perfetto identikit, del presbitero con particolare insistenza e attenzione alla sua capacità di educare, insegnare e testimoniare la Parola con competenza, efficacia, pacatezza e fedeltà, anche nel confronto dialettico con i falsi maestri. Non si stanca di confermare la necessità di vivere una vita coerente con la fede professata: “Tu insegna quello che è conforme alla sana dottrina.” Per Paolo è inconcepibile una dicotomia tra l’accettazione della vera fede, insegnata da Gesù, e lo stile di vita quotidiano. Infatti, “gli uomini anziani siano sobri, dignitosi, saggi, saldi nella fede, nella carità e nella pazienza. Anche le donne anziane abbiano un comportamento santo: non siano maldicenti né schiave del vino; sappiano piuttosto insegnare il bene, per formare le giovani all’amore del marito e dei figli, a essere prudenti, caste, dedite alla famiglia, buone, sottomesse ai propri mariti, perché la parola di Dio non venga screditata. Esorta i giovani a essere prudenti, offrendo loro stessi come esempio di opere buone: integrità nella dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti svergognato, non avendo nulla di male da dire contro di noi.” Tutto ciò non è fine a se stesso, perché “è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna…a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo ( epiphaneia, cioè la manifestazione finale di Dio )”. Invita anche Tito ad insegnare “di essere sottomessi alle autorità che governano”, cioè, ad essere cittadini socialmente corretti e lui deve essere l’esempio vivente di tutto questo, “perciò voglio che tu insista su queste cose, perché coloro che credono in Dio si sforzino di distinguersi nel fare il bene.” La lettera si conclude con un’espressione che non ammette repliche: “ Imparino così anche i nostri a distinguersi nel fare il bene per le necessità urgenti, in modo da non essere gente inutile.” Questo è Paolo: la sua offerta alla causa è totalizzante, la sua disponibilità assoluta; pertanto, a muso duro, manifesta la sua intolleranza verso gli inutili perdigiorno. La lettera ha duemila anni e sembra scritta per l’oggi: forse gli uomini cambiano, ma gli errori restano immutabili pur nello scorrere del tempo, mostrando quanto sia tenace la tentazione alla trasgressione e alla furbizia.
C’è chi sostiene che l’allergia alle regole e la cattiveria siano scritte nel DNA di ogni uomo, per cui a causa della “vulnerabilità genetica” siano meno “liberamente colpevoli”. Pensare che qualcuno sia buono o meno buono per la casualità della selezione dei suoi geni, cioè, essere l’espressione di una funzione biologica, vorrebbe dire affidare al caso la libertà e la dignità dell’uomo e allontanarlo dall’assoluto. Al contrario, è l’anima, sostenuta dalla ragione e dalla conoscenza, a scegliere tra il bene e il male: le parole profetiche di Gesù ne sono l’ insostituibile sostegno e alimento. ( continua )
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