|
|
|
La neve e gli altri
di Marco Bernardini
°°°°°°°°°°°°§§§§§§§°°°°°°°°°°°°
Sono invitato da un folto gruppo di amici a trascorrere insieme alcuni giorni in montagna. Si va a sciare sulle nevi del Gran Sasso. Forse potrei aiutare i ragazzi incerti e meno bravi dando loro utili indicazioni. Eccomi al mattino del primo giorno. Spalanco la finestra della camera e rimango senza fiato: paesaggio splendido, piste ampie e innevate perfettamente in ordine, cielo sereno, assenza di vento. Condizioni ideali. In un baleno mi preparo, un saluto e via. La pista centrale, lunga oltre tre chilometri, si presta proprio bene per fare agilmente e in velocità, tutte le evoluzioni del mio repertorio. L’intera giornata passa, avvolto da questo sogno. Il giorno dopo stesse condizioni. Il sogno si ripete in un’estasi di ebbrezza. Al terzo giorno, quando di prima mattina sono già pronto per prendere la seggiovia, mi viene un pensiero: ma io cosa sono venuto a fare quassù? Immediatamente mi guardo attorno, vedo il responsabile del gruppo e gli chiedo cosa vorrebbe che io facessi. Mi sorride e immediatamente mi rifila tre persone. “Andate con lui” dice loro. Sono tre ragazzine di circa dieci anni alle prime armi. Ho capito. So molto bene cosa vuol dire dedicarsi a chi non sa sciare. Significa stancarsi e annoiarsi perché devi ripetere tante volte le stesse cose. E quando inizi a scendere e fai vedere quello che si deve fare, gli altri non ti seguono perché hanno paura. Allora devi risalire la pista, con gli sci ai piedi, “racchettando”, come si dice in gergo. Il fiatone arriva puntuale. E questo per ore e ore. E’ esattamente quello che accade. Le ragazzine sono incerte e timorose. Sembrano non fidarsi troppo di quello che dico e che faccio. Forse sto perdendo del tempo. Allora mi chiedo: ma se io non sapessi sciare cosa vorrei che gli altri facessero per me? E’ come una frustata. Subito mi dedico a loro con un impegno tutto nuovo. Con molta calma e tanta premura faccio vedere alcune posizioni, imposto la flessione per la presa degli spigoli, mostro come caricare gli sci. Adesso mi chiamano per nome. Sentono che voglio bene a loro. Mi accorgo che si fidano vincendo la normale paura di cadere. Mi stanno accanto, sono contente e finalmente iniziamo a scendere insieme. Sono giulive, sorridono e urlano di gioia per quello che stiamo facendo. A sera, dopo cena, tanti racconti e tanta festa. Le tre ragazzine si raccolgono attorno a me. Mi sorridono. Io sento la stanchezza addosso nonostante che abbia sciato molto poco e neppure come avrei voluto. Eppure è il primo momento, in questa breve vacanza, che mi sento veramente felice.
|
|
|
|
|
|
|
Memorie missionarie-Il caso di Philippe
di Padre Carlo Cencio, Missionario carmelitano
Eravamo scesi a Bayanga-Didi per i battesimi. Ci avevano detto che Philippe era gravissimo a causa di un’ernia strozzata. Era uno dei catecumeni che l’indomani avrebbero dovuto ricevere il battesimo. Era così grave che conveniva battezzarlo la sera stessa, e poi tentare di portarlo all’ospedale fino a Bouar. Non perdemmo tempo e andammo da Philippe. Ci rendemmo conto che stava molto male, ma non era morente. “Te la senti di andare all’ospedale? Lo vuoi il battesimo? Guarda che ci sono cento chilometri di strada dissestata e l’auto è una Land Rover durissima. A ogni buca e a ogni pietra riceverai scossoni che ti provocheranno dolori fortissimi, e dovrai viaggiare di notte…”.
Philippe ci aveva lasciato parlare, poi aveva chiesto di portare l’auto vicino alla sua capanna. S’era radunata tanta gente e si procedette all’amministrazione del battesimo. Lui era al colmo della gioia e mentre eravamo andati a cercare una coperta e degli stracci, da solo era salito sull’auto e aveva gridato che andava benissimo… Restammo a bocca aperta. Cercammo di sistemarlo sulle coperte e fra quegli stracci nel modo migliore. In quattro e quattr’otto due persone gli si erano sedute accanto, con viveri e aiuti in due sacchi; e l’auto, con padre Vittorino al volante, era partita nella notte.
Giunti a Bouar, le operazioni erano state più lunghe. Non c’erano medici. Lo avevano sistemato per terra, sopra una stuoia, avvolto nelle sue coperte. Il lungo viaggio lo aveva stremato e i dolori erano aumentati. La moglie gli asciugava il sudore e gli umettava le labbra con un panno bagnato. Finalmente erano arrivati i dottori e lo avevano portato immediatamente in sala operatoria. L’ansa aveva il colore di una foglia morta e fuoriusciva il contenuto intestinale, eppure una settimana dopo Philippe era già di nuovo a Bayanga-Didi e vi era tornato da solo, a piedi!
I medici ci dissero: “Non sappiamo come sia arrivato vivo in quello stato. C’è Qualcuno che guida la vostra auto e mette le mani sui vasi sanguigni e sui danni provocati da un’ernia strozzata. Abbiamo eseguito l’asportazione dell’ernia in fretta e furia, e in pochi giorni si è rimesso in piedi, senza urli e senza lamenti”. “Avrebbe potuto morire lungo il viaggio? Siamo stati imprudenti?” “Non abbiate paura. Noi africani siamo robusti e resistenti”.
Così dicendo, gli altri se ne erano andati ed era rimasto con me solo l’infermiere della chirurgia. Forse aveva voglia di parlare e aveva continuato: “Pochi mesi fa mi portarono una donna in gravissime condizioni, che soffriva di dolori all’addome e che aveva una ferita al ventre. La guardai subito e la feci sistemare sul lettino. Poco dopo la osservai attentamente e mi resi conto che aveva una larga ferita a livello dell’appendice, ma la ferita non era stata suturata, l’avevano fasciata con cenci. Mi misi le mani nei capelli e decisi di intervenire immediatamente. Esami, anestesia e via… sotto i ferri.
Quando riaprii e guardai, mi resi conto che era stata eseguita una specie di appendicectomia solo da qualche ora. La situazione stava trasformandosi in gravissima peritonite, invece si salvò”. “Ma come avevano fatto a tagliare?”. “Lo chiesi anch’io” mi disse l’infermiere. “Non potendo più sopportare le sue urla di dolore, il marito aveva preso un coltello o un machete ed era intervenuto lì, sul punto del male. Senza la più piccola idea chirurgica, aveva asportato l’appendice cancrenosa perforata e poi aveva lavato tutto con acqua fresca. Quell' intervento empirico aveva dato il tempo di portare l’ammalata all’ospedale per un’operazione chirurgica completa, con suture e disinfezione”.
“Sono cose incredibili,” conclusi “e umani misteri dell’improvvisazione, benedetti da Qualcuno che vede e provvede”.
|
|
|
|
|
|
|
Don Giuseppe Pellistri
di Romano Parodi
In occasione dell’Anno Sacerdotale indetto dal Santo Padre, pensiamo di fare cosa gradita ai lettori presentando la figura di alcuni sacerdoti, le loro testimonianze, fatti da loro compiuti… e invitiamo altresì i lettori ad inviarcene (www.ilsentieroweb.net).
Don Giuseppe Pellistri 1873-1924
Quale sorpresa in quel di Fabiano! Un anziano parrocchiano e il parroco, ci identificano come i paesani di Don Giuseppe Pellistri, morto nel lontano 1924. E allora noi, anche in memoria d’ la Maié d’ la Sé, sua nipote, vissuta con lui lo ricordiamo. La Maié lo amava tanto da voler portarsi nella tomba il medaglione con la sua effigie.
"Il POPOLO" del 15 marzo 1924 dedica un'intera pagina alla morte di D. Giuseppe Pellistri. I vecchi lo ricordano ancora ad Ortonovo. Fu ordinato sacerdote nel 1901; era giovane, esile, semplice, senza nessuna esperienza pastorale, prese possesso della parrocchia di Fabiano: una popolazione di contadini che diventati operai, subivano l'opera di scristianizzazione della propaganda massonica socialista. Le difficoltà erano rese anche più gravi dalla vasta estensione del territorio, che rendeva scomodo il frequentare la Chiesa, la quale si trovava in un freddo e solitario abbandono.
Ma Don Pellistri non si poteva certo adattare a celebrare la Messa in una chiesa deserta. Se il popolo non andava a lui, andò lui al popolo: lo avvicinò nella propria casa, interessandosi ai bisogni di ogni famiglia, approfittava di ogni occasione per conoscere il suo popolo e far giungere ad ogni focolare la voce viva della Fede. Procedeva nel suo ministero diffondendo la stampa cattolica e i foglietti religiosi, istruendo i fanciulli organizzandoli nei loro giochi (fondò la Fulgor Vici nel 1905). Nel vedere che il parroco andava conquistando un enorme ascendente sulla popolazione, riempiendo la chiesa, gli anticlericali cominciarono a minacciarlo, ma egli faceva finta di nulla e continuava a curarsi del suo popolo, salutava sempre per primo i suoi nemici, che, imbarazzati, finivano col rispondere.
Con la tenacia e la dolcezza, smorzava le astiosità, vinceva le resistenze più gravi, conquistava i cuori. E accanto alla incessante opera di apostolato, la sua mente aperta creò il Circolo Democratico Cristiano "N. S. dell'Olmo" (1908 ). In anni in cui anche negli ambienti cattolici si guardava con una certa diffidenza al nome ed anche al contenuto della Democrazia Cristiana, (avversata da una parte del clero, e culminata con la scomunica del suo fondatore Romolo Murri, nel 1909 da parte di Pio X ) egli la prendeva ad insegna del suo Circolo, per riaffermare quella fede profonda che nessuna azione era possibile in mezzo al popolo, se di esso non si assume la difesa, ispirandosi a un profondo rinnovamento sociale cristiano. Il nome glorioso della Democrazia Cristiana e il nome della Madonna dell'Olmo associati, dovevano nel suo pensiero riallacciarsi alla tradizione più antica, alla devozione più poetica e cara del paese di Fabiano: al Santuario della Madonna dell'Olmo. E Democrazia Cristiana e tradizione religiosa egli riuniva nell'amore della patria e nel tricolore che volle come bandiera dei suoi operai. I locali furono creati da lui, che trasformò e mise a disposizione del Circolo un fondo della canonica ed un tratto di terreno. Ma diede alla nuova istituzione qualcosa di più: il suo senso di organizzatore, il suo intelligente criterio, il suo grande amore. Il Circolo divenne una florida società di mutuo soccorso ed il centro motore di tutte le attività. Ma una tempra di sacerdote e organizzatore come Don Pellistri non poteva limitare la sua opera ai soli confini della sua parrocchia: gli amici della Spezia lo coinvolsero e gli affidarono altri incarichi di fiducia. Fu ispiratore e fac totum di adunanze, rappresentazioni teatrali e ogni altra iniziativa del Circolo cittadino "Silvio Pellico". Attraverso questa sua attività diventava sempre più indispensabile all'Azione Cattolica, e tutti i parroci della provincia erano da lui istruiti e diretti per volere del vescovo.
Quando l'idealità sociale cristiana trovò la sua espressione politica nel Partito Popolare (1919) egli ne fu un convinto e fedele assertore.
A 47 anni, nel fulgore della sua attività, dopo 23 anni di ministero, Don Giuseppe Pellistri è morto: la sua vita si racchiude in queste poche parola - "fu un vero sacerdote di Cristo" - Lo sa la vecchia madre, lo sa il paese di Fabiano, lo sanno i soci del "Silvio Pellico", lo sa il suo vescovo. "Di fronte a una esistenza così fulgida restiamo (annientati"scrive l'articolista ). Al suo funerale c'erano un centinaio di Gonfaloni fra i quali due di Ortonovo: il Circolo Gioventù Cattolica e la Società S. Martino.
Don Ricciardi (già parroco di Ortonovo) nella sua commossa omelia termina soffocato dai singhiozzi che oramai da ogni parte della chiesa prorompono irrefrenabili. Parlano poi il consigliere Rossi per il comune della Spezia, il sig. Borrini per il Circolo Democrazia Cristiana di Fabiano, l'avv. Boracchia per il Circolo Silvio Pellico, l'on. Paolo Cappa per il governo, il Maestro Bianchi per il comune di Ortonovo che, orgoglioso, gli diede i natali, ed infine, a nome della famiglia, il nipote, sergente Ignazio Andreani, che ringrazia il popolo e le autorità intervenute.
|
|
|
|
|
|
|
Un pastore pellegrino
di Marta
Il ragazzo si chiamava Folco; se ne stava nel campo a pascolare la sue pecore programmando il domani. Avrebbe portato le pecore a tosaree doveva vendere la lana: aveva bisogno di qualche soldo perché gli era venuta in testa l’idea di fare un viaggio per conoscere altri popoli e Paesi.
Il negozio era pieno di clienti: il tosatore gli aveva detto di aspettare, allora lui si mise a leggere un libro. “Non sapevo che ti piacesse leggere”, gli disse un altro pastore anche lui in attesa del suo turno. “Cosa leggi bello?”. “Un bellissimo libro; parla dell’Oriente, di storie fantastiche, di antichi mestieri: cesellatori, tintori di sete, di pietre preziose, di profumi…”.
Incominciarono a conversare e il pastore gli disse come avrebbe raggiunto quelle terre lontane ove i commercianti vendevano le mercanzie: spezie, sete, incensi… Anche lui voleva conoscere quel mondo, imparare le lingue e tanti mestieri. Anche lui aveva sentito parlare di deserti infuocati di giorno e gelidi di notte; di dune di sabbia che si spostavano col vento; aveva saputo ,che bisognava conoscere le stelle per non perdere l’orientamento. Fin da bambino, anche lui, sognava di conoscere quel mondo.
Arrivò il giorno che Folco partì. Dopo tanti giorni di cammino giunse in un villaggio; rifocillato alla meglio in casa di anziani contadini, chiese informazioni per poter proseguire il suo viaggio: i contadini gli risposero: “Di qui passano soltanto pastori che poi si uniscono, nella grande città verso sud, a carovane dirette a oriente”. Folco pensò: “Io sono pastore!”.
L’orizzonte si tinse di rosa, poi spuntò il sole: il ragazzo partì e raggiunse la grande città; si unì ai carovanieri ed incominciò la sua storia. Durante la traversata del deserto patì la fame, la sete, la stanchezza e, quel ch’ è peggio, gli rubarono i soldi e le sue amate pecore. Fu costretto a girare per tutto l’Oriente, suo malgrado, per poter racimolare qualche soldo per il ritorno a casa. Un conto era voler fare determinate cose, un altro era che altri te le imponessero sotto comando. Ebbe pena di se stesso, ripensava alle sue amate pecorelle: allora pianse.
Quando era con le sue pecore, era felice; le chiamava tutte per nome: ora non più. Un pastore ama viaggiare, ma non dimentica mai le sue pecore. Folco lavorò sodo, fece mille umili mestieri e quando ebbe la somma che aveva desiderato, incominciò il ritorno verso casa. Cammina, cammina, venne sera: Folco era stanco; vide da lontano una casupola: era una chiesa abbandonata, il tetto era caduto da una parte, ma tutto il resto reggeva bene; si fece spazio in un angolo e dormì. Sognò la sua casa, il suo letto: non era più costretto a giacigli di fortuna nella dura terra, pensava ai suoi famigliari e al suo paese. Il sole era già alto quando Folco si svegliò, notò con più attenzione che in quella chiesetta, a parte un pezzo di tetto rotto, vi era ancora l’altare con dei fiori freschi, un crocifisso e due candele accese.
Era ormai arrivato a casa: la fede non lo aveva mai abbandonato; si fece il segno della croce ed uscì. Mentre si allontanava si voltò: la chiesetta si presentava bella, fatta di sassi, col suo bel campanile e un antico sicomoro alto, frondoso, largo almeno sei metri. In quel periodo era pieno di frutti maturi: rosa, carnosi, dolci come fichi. Ritornò indietro e ne mangiò fino a sazietà.
Riprese il suo ritorno alla vita di pastore, pago di avere vissuto almeno dieci vite in una sola volta.
|
|
|
|
|
|
|
Diario di un parrocchiano di Casano-San Giuseppe
di Giuseppe Franciosi
Domenica, 8.11.09.
Oggi la nostra parrocchia celebra la festa di S. Martino. A dire il vero S. Martino la Chiesa lo festeggia l’undici novembre, ma ormai è tradizione trasferire queste celebrazioni in un giorno festivo, la Domenica. Anche feste non parrocchiali, ma di ben altra importanza, si sono adattate: vedi Corpus Domini, Ascensione. Il tempo però non è stato galantuomo: la pioggia intensa ci ha accompagnato per quasi tutta la giornata e ciò ha indubbiamente messo in crisi la tradizionale “Sagra di S. Martino”: pesca di beneficenza, vendita di dolci vari (torte, tortone, ecc.). Una caratteristica di questa “Sagra” è anche il “vino novello”. Una di queste bottiglie è stata aperta e “consumata” in sacrestia, nel pomeriggio, dopo il Rosario e la Benedizione. Al mattino, nonostante la pioggia, la chiesa era gremita. La Lucia si è trasferita dalla chiesa di S. Giuseppe a quella di S. Martino ed ha diretto i canti benissimo, come sempre. Si sono uniti al “coro” anche voci di S. Martino. Alle ore 15 siamo ritornati in chiesa per il Rosario e la Benedizione, ma la chiesa non era piena come al mattino. Ho raggiunto S. Martino, mattino e pomeriggio, con l’auto di Enzo, mio cognato: alla Santa Messa del mattino lui ha ceduto l’organo a Virginia, l’organista di S. Giuseppe, ma per la funzione pomeridiana ha preso lui in mano la situazione. L’episodio di S. Martino, legionario romano, che con un colpo di spada tagliò in due il suo mantello e ne diede una metà a un poveretto (Gesù?) che moriva di freddo è stato ricordato anche quest’anno. Mentre ascoltavo, la mia mente è ritornata a tantissimi anni fa quando ero ragazzo; stavo seduto su una panchetta, vicino alle balaustre (oggi non ci sono più), sotto il pulpito (scomparso anche questo, come l’organo, come un altro altare).
Giovedì, 12.11.09.
Questa sera, alle ore 21, nella chiesa di S. Martino c’è l’ora di adorazione per le vocazioni. Pensavo che ci saremmo trovati in quattro gatti e invece c’era tanta gente di tutte le parrocchie: tutte le panche erano occupate: una meraviglia. Grande illuminazione, grande concentrazione; con novembre incomincia l’inverno. Se leggi i giornali, trovi sempre notizie preoccupanti: parlano sempre dell’influenza A; degli ammalati, dei morti. Pensavo che il silenzio dell’adorazione sarebbe stato interrotto continuamente dai colpetti di tosse e invece mi sono sbagliato: niente colpetti di tosse, tanto silenzio, tanta concentrazione, tanta consapevolezza di quello che stavamo facendo: un’ora di adorazione per chiedere a Dio di mandarci tante e sante vocazioni. L’atmosfera di questa sera resterà a lungo nella mia memoria e credo sia stata favorita dal nostro parroco: padre Onildo subito, all’inizio, si è inginocchiato sul pavimento e, per quasi mezz’ora, non si è più mosso. Io lo vedevo, lo guardavo: fermo, immobile, concentrato. I fedeli sono stati affascinati; anche se è vero che alcuni, se non si prega, non si canta, non si legge, faticano a far trascorrere il tempo in silenzio.
Un Natale...senza Messa.
Nella mia lunga vita (ho 87 anni) non c’è stata mai una domenica senza Messa; c’è stato invece un Natale senza Messa.
Era il 25 dicembre 1942. Mi trovavo, soldato, in Sicilia, a Melilli (provincia di Siracusa). Quel giorno, con altri due soldati e un caporale ero di guardia alla “polveriera”, lontano dal paese dove eravamo acquartierati, lontano da tutte le chiese. Non potevo abbandonare il posto. Quel pomeriggio l’ufficiale di picchetto venne a controllare se stavamo facendo il servizio: eravamo in guerra, vigeva il codice di guerra: se abbandonavi il posto, erano guai. Faceva freddo, pioveva; non avevamo neanche un posto decente dove rifugiarsi. Avevamo della legna ma la stamberga (due metri per uno e mezzo) dove sostavamo non aveva un camino che ci liberasse dal fumo: o il freddo o il fumo. Nessun rispetto per la nostra dignità; eravamo solo carne da macello. E così quel Natale lo passai senza Messa+: il più brutto Natale di tutta la mia vita.
|
|
|
|
<-Indietro |
|
|
|