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Dal " Ceccardo" Di Lorenzo Viani
di Romano Parodi
In difesa dell’Ombra di Giosuè Carducci, telegrafammo: “A Ceccardo Roccatagliata Ceccardi - Sant’Andra Pelago. Ti aspettiamo al piano parlandoti la parola del dovere. Quei di Apua”. Di lì a due giorni Ceccardo raggiungeva il quartier Generale di Viareggio atteso alla stazione dal suo aiutante. Appena a terra domandò con contenuta agitazione: “Ebbene, Lorenzino, novità? Il Generale appena ricevuto l’imperioso ordine, benché fosse accigliato il cielo e minacciosa la via, si è precipitato giù per il valico dell’Abetone ed eccolo qui. E’ forse imminente qualche moto insurrezionale nel carrarese? Io devo guidarlo?! E’ giunto il dì dell’ombra e della gloria?”. “Generale! Il Cancelliere ti riferirà tutto stasera!”.
La sera all’osteria di “Lazzaro” tutti gli apuani al completo attendevano il Generale. Appena egli giunse, con in mano l’eroica cravache, il Grande Cancelliere parlò: “Alcuni ignobili uomini in quel di Val di Castello, culla del Grande, recar vogliono offesa alla sua Ombra, murandone una triste effige al muro della sua umile casa. Noi, gli apuani dalle ali di falco, tuoi soldati fedeli per la vita e la morte, ti abbiamo chiamato perché tu ci guidi a punire i rei!..”. “Ben faceste, o nobili soldati!” - rispose irato il Generale - “Domani in formazione di testuggine, lo generale in testa, marceremo su Val di Castello”.
L’indomani l’esercito apuano partì alla volta di Val di Castello; ma anziché in formazione di testuggine, partimmo su due bagheri sgangherati. Sul primo, guidato da Nanni dell’Antinori, auriga di Apua, presero posto il Generale e gli altri apuani insigniti dell’ordine equestre; nell’altro il rimanente del glorioso esercito. L’Antinori era fiero di trasportare alcuni quintali d’intelligenza a far buruffa: si era messo il cappello alla “Oberdan” e tirava certe bacchettate al povero Ravachol... Come Dio volle si arrivò sani e salvi. L’Antinori chiamava la gente a raccolta; ma il borgo era deserto e potemmo prendercela solo con un povero oste. Risalimmo sui carri e partimmo alla volta di Pietrasanta non dopo aver scritto la parola “Vigliacchi” sul muro di una casa.
Quando arrivammo a Pietrasanta, la piazza Riccomanni era tumultuante di lavoratori e ammiratori del poeta. C’erano quelli di Viareggio, del Forte, di Strettoia, di Seravezza. La notizia che Ceccardo dopo d’Annunzio e Pascoli, parlava del Grande, aveva richiamato al piano anche gli apuani dei monti più alti. I fidi di Apua accompagnarono il poeta, agitando fiaccole ardenti, fino alle due colonne romane, dov’egli doveva parlare. Ma la magnificenza del luogo, l’accoglienza festosa della folla, la gigantesca ombra di Lui che il poeta sentiva presente, lo splendore del cielo stellato, gravavano sull’animo del poeta. “Amici di Apua, io mi sento vanire…”. Il discorso fu nobile ed alto… ma l’enorme fatica della dizione fiaccò Ceccardo che alla fine fu sollevato di peso da una moltitudine di amici e trasportato trionfalmente sulla via di Querceta e poi sul Forte dove il poeta doveva ancora parlare di libertà e di poesia. Era esausto. Manifestò il desiderio di riposare. Io lo vegliai tutta la notte.
Al mattino entrai nella sua camera ch’egli era ancora disteso nel letto. Aprii gli scuri ed egli mi apparve nella sua immensità. Il grande corpo ravvolto nel candore dei lenzuoli mi sembrò smisurato. La bocca sensuale ed irosa si contorceva in una smorfia dolorosa. “Guarda, Lorenzino” e nel dir così si scoprì. Mamma mia! Dalla parte del cuore la carne era aggricciata attorno ad un’orrenda ferita, rimarginata da anni, ed intorno ad essa una crivellata di sforacchiature annerite. Sull’avambraccio sinistro un taglio profondo che scendeva fin sotto l’ascella, e nel costato un enorme taglio lineare. Io lo guardavo terrorizzato ed egli mi disse. “Lorenzino, ubbidire non è il tuo forte, ma quando il Generale ti chiama non ti dimenticare di queste ferite”.
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Dalla Madonna del Rosario alla Madonna della Vittoria
di Romano Parodi
Horti Diva Novi / Totum Memoranda Per Orbem / Quid Fles* / Cur Sacro Sanguine Fundis Humum* / Iratusne Deus Mundi Subvertere Molem / Cogitet Aut Stricto Fulminet Ense Pater* / Ah Potius Turcas, Disperde. (O Madonna di Ortonovo. Per tutta la terra sarai ricordata. Perché piangi? Perché bagni la terra col tuo sacro sangue? Forse che Dio irato medita di sovvertire la mole del mondo? O il Padre, afferrata la spada scaglierà fulmini? Ah, piuttosto i turchi disperdi).
Ambrogio Monticola Ceccardi, nel 1540, pregava la Madonna di Ortonovo di occuparsi dei turchi e di disperderli (invece di piangere sangue). Verrebbe da dire, poveri turchi; ma per capire il significato di questa frase così forte del nostro vescovo, bisogna saperne di più.
Il nostro è un Santuario domenicano, e domenicano era i Pio V° (nonché i due vescovi ortonovesi). Pio V° fu il principale artefice della coalizione cristiana che sconfisse la flotta turca a Lepanto. Egli promosse la spedizione per soccorrere la città di Famagosta assediata dai turchi: ma non arrivò in tempo, perché, i veneziani, dopo la promessa che avrebbero potuto lasciare l’isola sani e salvi, si erano arresi. Alì Pascià, però, non mantenne la parola, e davanti a una folla plaudente di musulmani, fece scorticare vivo Marcantonio Bragadin. La sua pelle conciata e riempita di fieno, assieme alle teste degli altri comandanti veneziani, fu portata a Costantinopoli ed esposta nelle strade della capitale.
Nel 1453 Maometto II° aveva conquistato Costantinopoli mettendo fine, dopo mille anni, all’Impero Romano d’Oriente. Da allora i turchi ottomani fecero dell’islamizzazione dell’Europa la loro missione. Nel 1521 presero Belgrado e tutta l’ex Jugoslavia, nel ’26 l’Ungheria. Arrivarono anche alle porte di Vienna. Già avevano tolto Tripoli agli Spagnoli e alcune isole a Genova, a Venezia, ai cavalieri di Malta, e le loro scorribande nel Mediterraneo erano un incubo continuo. Avevano l’”Invincibile Armata” e la loro espansione era inarrestabile.
Pio V° capì che in ballo c’era qualcosa di molto più importante della città di Famagosta e di Cipro e chiamò a raccolta l’intera cristianità. La flotta comprendeva 50 galee veneziane, 79 della Spagna, 28 genovesi, 12 toscane (2 di Pisa) nonché del ducato di Savoia e molte forze dei cavalieri di Malta, per un totale di 212 navi. I turchi avevano 265 navi da guerra e il doppio di uomini.
La domenica del 7 ottobre 1571, oggi festa della Madonna del Rosario, la flotta cristiana, agli ordini di don Giovanni d’Austria, figlio dell’imperatore Carlo V°, combatté la più grande battaglia navale di tutti i tempi. I turchi perdettero 237 navi, 30.000 uomini (qualche libro parla di 200.000) e la guerra (furono fatti 9.000 prigionieri, e 150.000 gli schiavi incatenati ai remi, liberati). Pio V° che aveva invitato tutta la cristianità a pregare la Madonna del Rosario, il cui Vessillo svettava alto a guidare il cuore e l’anima dei combattenti di ogni nave, attribuì ad essa tutto il merito della vittoria. Accaddero, infatti, fatti “miracolosi”. Ne cito solo tre. Ad un certo punto della battaglia tutto sembrava perduto: Alì Pascià, grazie alla superiorità numerica e con il vento in poppa, concentrò la sua nave e alcune galee, sulla nave ammiraglia cristiana. Il suo piano era “decapitare” subito la flotta dei cristiani; ma quando arrivò a poca distanza il vento cambiò improvvisamente e bloccò le navi turche, dando il tempo ad alcune navi cristiane, che avevano capito la manovra, di correre in aiuto e di abbordare “La Sultana” ferma e con poca manovrabilità, anche per la concomitante rivolta dei rematori (cinque ogni remo). Questo “miracolo” è raccontato da molti.
Un’altra stranezza la raccontano i turchi: in cielo era apparsa una Signora col volto così terribile che si bloccarono terrorizzati. L’altra, inspiegabile per gli storici, è stato il tempo impiegato ad affondare le galee turche, che, non dimentichiamolo, avevano 780 cannoni. Solo 4 ore: dalle 8 alle 12, e poi sul mare uno spettacolo da inferno dantesco raccontato, questo, da tutti. Un’apocalisse. Morti galleggianti a migliaia, urla e relitti in fiamme. - Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii, victores fecit - (Non il valore, non le armi, non i condottieri, ma solo …) decretò il senato veneziano. Da allora fu chiamata Madonna della Vittoria e, in tutti i santuari domenicani come il nostro, Pio V° promosse la costruzione (che continuò sino a tutto il seicento) dell’altare di Santa Maria della Vittoria (da allora Auxilium Christianorum) con ai lati le statue di san Domenico e di santa Caterina, domenicani. Solo nell’800 riprese il suo antico titolo di Madonna del Rosario.
Un altro fatto “strano” accadde a Roma proprio il 7 ottobre, alle ore 12 precise. Pio V°, che era in seduta plenaria, si alzò di scatto e andò alla finestra. Una visione celeste gli annunciò. - Vittoria! Vittoria! - Si voltò raggiante, e disse: “Abbiamo vinto, fate suonare le campane”. E, da allora, ancora oggi, alle ore 12 precise, le campane suonano a festa.
La vittoria non era affatto scontata; in quei tempi c’era una sudditanza psicologica verso l’Islam invincibile e quando, alcuni giorni dopo, arrivò l’annuncio ufficiale della vittoria, Pio V° proruppe in un pianto liberatorio e in tutta la cristianità scene di giubilo collettivo durarono molti giorni.
Il nostro altare “della Vittoria” con le sue stupende formelle barocche, “Belle da togliere il fiato”, diceva don Pesce (perché non fotografarle e metterle in un cannocchiale a gettoni? Così sono invisibili!), è stato finanziato da Antonio Andreoli in memoria della moglie “Caterina de Ceccardis, amor sol”, ivi sepolta, nel 1660. E’ molto probabile che in precedenza l’altare del Rosario, anche se molto più modesto, fosse il primo, a sinistra dell’entrata; basta guardare il soffitto.
Alla battaglia parteciparono tutte le grandi famiglie europee e italiane: Savoia, Medici, Colonna, Orsini, Carafa, Farnese, Doria, Spinola, Grimaldi, Lomellini, ecc. ecc, e tutti scrissero le loro memorie, anche molto contraddittorie. Ci furono anche alcuni grandi scrittori. Cervantes, fu anche ferito e perse l’uso della mano sinistra ma scrisse che di questa vittoria: “Mai c’è stata e mai più ci sarà l’eguale”.
Il più anziano combattente, 75 anni, fu il nobile veneziano Sebastiano Venier. Egli partecipò agli abbordaggi con due serventi al seguito, che gli caricavano gli archibugi. Combatté con la faccia che era una maschera di sangue per una freccia infilata in un occhio e una nel piede, ma continuò a fare strage di turchi. Rientrato in patria fu eletto Doge. Sul vessillo verde dell’ammiraglia turca di Alì Pascià (decapitato dai sardi), c’è scritto, in oro, 28.900 volte il nome di Allah: fu bottino di guerra dei pisani e si trova nella chiesa di santo Stefano a Pisa. I cristiani perdettero 15 navi e 9.000 uomini.
P. S . Il barbuto san Pio V° lo troviamo nel secondo altare, alla sinistra dell’entrata, del nostro Santuario.
P.S. Fausto Bertinotti, presidente della Camera, vergognandosi di questa grande Vittoria, ha fatto rimuovere il grande quadro che la magnificava. Diceva che offendeva l’Islam.
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Gli olivicoltori ortonovesi
di Nuccio Bottiglioni
IMPORTANTE AFFERMAZIONE DEGLI OLIVICOLTORI ORTONOVESI
Durante l’estate si è svolta la quindicesima edizione del Premio Leivi, il più importante concorso oleario della Liguria, riservato agli oli extra vergini della Riviera di Levante. Leivi, comune dell’entroterra di Chiavari, a buon diritto ospita questa importante manifestazione, essendo entrato a far parte, dal 2007, delle 250 Città dell’Olio, grazie alla produzione di alta qualità che fin dagli inizi del Novecento ha contraddistinto il luogo.
Quattro nutrite giurie hanno, a turno, esaminato, fra giugno e luglio, i prodotti di oltre 60 olivicoltori genovesi e spezzini, completando così le classifiche delle 4 categorie della gara: sezione D.O.P. certificata Riviera Ligure di Levante; sezione Extravergine con caratteristiche D.O.P.; sezione Olio Extravergine; Premio “Miglior Uliveto”.
Fra gli spezzini si è distinto l’olio del produttore castelnovese, Massimo Lagomarsini, titolare dell’azienda “Cà de Bruson”, vincitore del primo premio della sezione Extravergine con caratteristiche D.O.P.; nella stessa categoria hanno ottenuto ottimi piazzamenti gli olivicoltori ortonovesi Orlando Moracchioli, Matteo Antonelli, Agostino Antognetti, Francandrea Cricca, Nuccio Bottiglioni e Nilo Cucurnia.
Nella sezione Olio Extravergine ha ottenuto il primo premio ex equo l’olivicolturice ortonovese Giovanna Casani, a riprova dell’altissimo valore della produzione olivicola del nostro territorio.
Grande entusiasmo è stato espresso dall’assessore provinciale Federico Barli, che ha dichiarato: “L’annata scorsa si è contraddistinta per la qualità e per l’abbondanza dell’olio, e il riconoscimento è senza ombra di dubbio frutto del lavoro delle nostre aziende, ma si rivela fondamentale anche la capacità di far crescere la rete dei progetti che sono nati nel territorio, come ad esempio il progetto “Buon Olio”, che la Confederazione Italiana Agricoltori promuove con successo da alcuni anni”.
Proprio al progetto “Buon Olio” ha aderito fin da subito l’Associazione degli Olivicoltori Colli di Ortonovo, ottenendo in brevissimo tempo risultati eccellenti, riscontrati tanto dalle giurie di premi importanti come quello di Leivi, quanto dalle nostre tavole.
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Orari delle Sante Messe festive
di La Redazione
ORARI DELLE SANTE MESSE FESTIVE
NELLE CHIESE DEL NOSTRO COMUNE
SABATO: ore 17, S. Lorenzo (Ortonovo paese) – S.Giuseppe (Casano)* - Prez.mo Sangue (Luni)*
S.Maria Ausiliatrice (Isola)**. Alle ore 8, Santa Messa feriale al Santuario.
DOMENICA E ALTRE FESTE: ore 8, Prez.mo Sangue; ore 9, Ss. Filippo e Giacomo (Nicola);
ore 9,30, S.Martino (Casano); ore 10, SS.ma Annunziata (Casano alto); ore 10,15, S.Pietro (Luni Mare); ore 11, S. Lorenzo; S.Giuseppe e Prez.mo Sangue; ore 11,30, S.Maria Ausiliatrice.
Nel pomeriggio, ore 17, Santuario del Mirteto e Prez.mo Sangue*.
*con l’ora legale alle ore 18. **con l’ora legale alle ore 19.
Detti orari possono essere modificati per esigenza dei Parroci.
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Un teatro, una città, un popolo
di Silvano Giani
La Spezia
UN TEATRO, UNA CITTA’, UN POPOLO
Nella città ligure il sindaco e il vescovo hanno rievocato la figura di Chiara Lubich. Presente la presidente, Maria Voce.
“Sentiremo esperienze di vita che ci daranno il senso di ciò che Chiara Lubich, cittadina onoraria di La Spezia, ha saputo e continua, con il suo messaggio e l’opera dei suoi seguaci, a fare per il bene di quella grande comunità che è il mondo”.
Così Massimo Federici, primo cittadino di La Spezia, ha presentato a Maria Voce, presidente dei Focolari, il 20 giugno scorso, il vissuto di una città che cerca di tradurre gli insegnamenti di Chiara Lubich nel tessuto sociale.
Un teatro, il Civico, trasformato per l’occasione in sede istituzionale, per ricordare la figura di Chiara a tre anni dal conferimento della cittadinanza onoraria. Autorità civili, Federici, sindaco attuale e Pagano – che aveva conferito la cittadinanza onoraria alla Lubich -, altri sindaci, politici locali e nazionali, il comandante Alessandro della Capitaneria di Porto, il vescovo Moraglia e l’emerito Staffieri. Il clima è quello della festa, della solennità. In una sorta di confessione pubblica, il sindaco legge il suo operato e la vita della città alla luce del dialogo, dell’unità, della fratellanza. Parole che riassumono il messaggio della Lubich. “Un movimento, che a La Spezia è cresciuto e si è radicato fin dal ’52 e che da allora opera con discrezione e grande laboriosità a favore della nostra comunità. E tra i primi protagonisti c’era il professor Enrico Cavallini”.
Una città dove l’esperienza della fraternità è vissuta ad ampio raggio. Sul palco si alternano una decina di alunni delle scuole pubbliche per presentare brevi testimonianze, tutte insaporite dalla solidarietà, vissute con i loro insegnanti in favore di compagni diversamente abili, o con difficoltà di vario tipo. Altre testimonianze raccontano di azioni sociali aperte alla dimensione politica, alla organizzazione della vita della città, comprese azioni per i detenuti del carcere. E poi l’ultima nata tra le iniziative più consistenti: la raccolta e la distribuzione di generi alimentari in favore delle famiglie in difficoltà.
Chiara Lubich, cittadina del mondo e cittadina di La Spezia, aperta sul mondo. Uno tra i piccoli ma grandi segni è il cammino avviato dalla Consulta delle religioni. “Chiara, una delle figure di maggior spicco della Chiesa, ha radicato la fraternità universale in un solo padre, Dio, e Gesù è il modello, il maestro della fraternità”, ricorda monsignor Muraglia, mentre Pagano dice che “cogliere il nucleo dell’unità in ognuno è saper fare una sintesi alta” e cita tre grandi ponti gettati da Chiara all’uomo contemporaneo: l’Economia di Comunione, il dialogo con le grandi religioni, la solidarietà con i popoli poveri.
Un popolo. La Spezia è stata trasformata per due giorni in un Cityfest. “Questo popolo - dice
Maria Voce -, presente qui da anni, ispira la propria vita e le proprie azioni a questa cultura della fraternità. Esso, oggi, insieme a tutti noi è felice e grato per questo ricordo commosso della propria fondatrice e vuole impegnarsi, per mio tramite, a contribuire con rinnovato slancio, in concordia con le autorità civili e religiose e con tutti quelli che amano questa città, ad operare perché La Spezia realizzi pienamente la propria vocazione all’unità”.
E la festa continua nel pomeriggio dove sul battello che raggiunge Portovenere tante persone salutano la nuova presidente del movimento. La visita al borgo antico regala pennellate di rara intensità emotiva. Il momento conclusivo è la domenica con la celebrazione dell’Eucaristia in cattedrale. Nel saluto finale la presidente ha sottolineato come l’ideale di Chiara s’è incarnato in tanti aspetti del quotidiano e “come un diamante a tante facce, capace di ogni dialogo, sta facendo riscoprire alla città il proprio disegno per aprirla al mondo unito, facendo di ogni persona un dono prezioso per questa missione”.
La pergamena offerta a Maria Voce dal sindaco ha voluto suggellare questo impegno assunto con la città.
Silvano Giani (Città Nuova -Luglio 2009)
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